21 luglio 1972

 

Si alzò la mattina verso le sette, non diversamente dagli altri giorni, nella camera numero settantadue della casa dello studente, ultimo piano dell’edificio di via Faina.                                                                                                                                                                                                                                                              La camera era nel primo di una serie di quattro palazzi posti in fila, lungo la strada che sale  verso Porta S.Angelo.    Un po’ collegio povero da seminaristi , un po’ casoni staliniani delle periferie nelle città comuniste.   Essenziale , lunghi corridoi e scale, camere  come cellette monastiche,  un bagno per tutti all’estremità del corridoio.     Uno per piano e i piani erano quattro.   Colori severi e anonimi alle pareti , non mobili o altro al di fuori delle stanze.  La camera aveva un letto a fianco della porta con due ruote ad una estremità, perché si potesse spostare più agevolmente per la pulizia .   In fondo al letto un piccolo armadio, e di seguito  il lavabo per lavarsi il viso e le mani e per colpevoli minzioni notturne.   Di lato al lavabo si apriva un’ampia finestra che occupava per gran parte quella parete.     Davanti il letto e il lavabo a ridosso della parete opposta, lo spazio era occupato da un tavolino con due sedie per lo studio.    Alle pareti tavole di legno per i libri e negli spazi liberi, foto di donne per lo più castigate e un calendario con sottolineati  gli orari delle lezioni e degli esami.    Dalla finestra si vedevano i palazzi e i monumenti del centro di Perugia, in alto, oltre la depressione dell’Elce. Di lato, a destra, le mura antiche della città che salgono verso Porta S. Angelo.     A ridosso di un tratto di queste, la casa del prof. Muiesan, uno dei pochi insegnanti di stile anglo-sassone  della facoltà di Medicina.

Come tutte le mattine, Carlo, affacciandosi dalla finestra, guardò in quella direzione.                                                                                                                                                                                                                                                        In quella casa vivevano due ragazze incantevoli, probabilmente le figlie del professore, probabilmente emancipate , sicuramente inavvicinabili.    Ma proprio per questo , ogni mattina, prima di iniziare la giornata, aprendo la finestra, per guardare il barometro che aveva appeso all’esterno, ci gettava uno sguardo.   Chi sa che non avesse incontrato quello di una di loro , e al suo sorriso lei avesse  risposto.   Sarebbe bastato per popolare le sue notti di sogni e desideri,  e di giorno chi sa, per farsi audace e cercare un incontro.   Ma tutto questo non era mai successo, e ormai non c’era più  tempo perché potesse accadere.

Carlo si mise a riordinare la stanza, la giornata che si apprestava a vivere era una di quelle che si ricordano per la vita, così voleva fare tutto bene sin dall’inizio, con ordine, badando ai particolari.                                                                                                                                                                                                              Era il suo, un atteggiamento razionale, un tratto  del suo carattere  che gli aveva permesso di arrivare senza troppi indugi a quell’appuntamento, ma a scapito del resto:  fantasie, avventure, le giornate vissute seguendo le esigenze dei sensi e del cuore, e tutto quanto quell’età avrebbe preteso.     Quelle cose erano rimaste nascoste , represse da una volontà superiore, da principi etici , dall’educazione familiare, dalla necessità di conquistare una sicurezza sociale che il titolo di studio prometteva di garantirgli, dalla necessita’ di  affrancarsi dalla condizione di indigenza della sua famiglia.      E dunque lo studio era stato totale e disperatissimo.     Poche distrazioni che la volontà rigettava e così acuiva la difficoltà ad intessere relazioni , o se intraprese, le caricava di aspettative eccessive che ne vanificavano la leggerezza, la spontaneità.

Carlo tornò alla finestra per controllare la macchina posteggiata in una piazzola a lato della via,dove lui e gli altri della casa dello studente  parcheggiavano le automobili.                                                                                                                                                                                                                                                                            Erano quasi tutte Fiat 500 ,la sua di colore blu, era stato il regalo della mamma, all’inizio del terzo anno di università.    Se l’erano potuto permettere perché  gli studi stavano andando bene  e gli consentivano di continuare a prendere il presalario, come allora si chiamava l’assegno di studio.      Una cifra importante: cinquecentomila lire l’anno, che si poteva scegliere di prendere in denaro o in servizi.  Marcello  aveva scelto i servizi, al di fuori di un anno, quando aveva deciso di prendere una camera  con un amico, ma non ne fu contento e così  l’anno successivo riprese i servizi.  Si trattava di avere una camera alla casa dello studente, i buoni pasto che comprendevano colazione, pranzo e cena da consumarsi alla mensa , i libri occorrenti per le materie del’anno , e diecimila lire al mese da spendere come si voleva.     Per mantenere il presalario occorreva dare tutti gli esami dell’anno in corso, con votazione alta.    Per questo la mamma si era potuta permettere l’acquisto della cinquecento e le diecimila lire mensili bastavano per la benzina , per qualche sigaretta e qualche cinema.   Se non fosse stato per l’impegno totalizzante dello studio ,per il timore di non farcela a dare tutti gli esami, di prendere voti alti per riconfermare il presalario dell’anno successivo, sarebbe stata una bella vita.   La sensazione di bastare a se stessi , di guadagnarsi  da subito il diritto di vivere nella societa’.  Ma c’era tutto il resto di sentimenti e impulsi coartati , il  desiderio di allontanarsi da quella storia familiare fatta di lutto e dolore , di rivendicare la libertà di scrivere una storia nuova senza l’ipoteca del passato.   Ma questo desiderio configgeva con il senso del dovere che era parte di sé e che sentiva come una limitazione.    Quella donna, sua madre, era rimasta vedova a 43 anni e la sua energia, l’amore, il motivo per continuare a vivere erano tutti concentrati in quel figlio rimasto con lei, l’altro più grande aveva preso la propria strada, aveva creato una famiglia propria, e pur rimanendo in qualche modo presente se n’era di fatto andato.   Carlo era consapevole di tutto questo e la comprensione delle dinamiche psicologiche che governavano quel rapporto acuivano il senso di disagio che la lotta tra il desiderio di libertà e la congerie di sentimenti che lo legavano a casa procuravano.    D’altra parte i sentimenti e i valori familiari erano parte di una visione della vita che sentiva vacillare nel mondo che lo circondava.      Tutto questo  colorava di ansia e insoddisfazione quegli anni di vita. Non per tutti era così, anche alla casa dello studente , che, per altro, era popolata da studenti come lui di  solida tradizione familiare, di  acuto senso del dovere e di forti legami familiari.      I calabresi soprattutto, che erano gli unici a non avere la cinquecento ma viaggiavano in  mini-minor  e lancia coupè, comunque vetture più grandi.    Loro sì, riuscivano a destreggiarsi tra gli studi e l’altra vita.    Raccontavano di avventure favolose con le straniere che, dal Nord Europa, scendevano a Perugia in primavera per i corsi  dell’Universita’ degli stranieri. Le andavano a prendere a Terontola dove arrivavano in treno, e per loro prolungavano la permanenza a Perugia anche in parte dei mesi estivi, quando ormai la nostra Universita’ era chiusa. Li  guardavamo con invidia noi  delle citta’ vicine a Perugia che non avevamo tutta quella liberta’ d’azione che loro dimostravano, forse favoriti dalla lontananza da casa che era un alibi  con  le famiglie che gli consentivano quella libertà e indipendenza.  Ma questi in fondo erano pochi, la maggior parte degli ospiti della casa dello studente erano solo studenti secchioni ,soprattutto quelli di Medicina che erano la maggior parte e  condannati a quello studio mnemonico disumano come per l’esame di Anatomia,  senza l’aiuto di ausili iconografici, atlanti e altro che sarebbero venuti solo dopo.  Era un mondo a se quello della casa dello studente, con le sue regole e i suoi codici d’onore.   Prendere poco ad un esame era, oltre che un rischio per il presalario, una diminuzione di credito presso gli altri, che ti guardavano dall’alto in basso.     La competizione ancora più si manifestava, quando voti alti venivano dati a chi non aveva fatto un esame brillante, e la cosa era ancora più  grave di aver preso un voto basso.    Era rimasta famosa la frase di Allegra che commentò l’eccessiva votazione, data a molti in un esame importante del IV anno, così “ questa università non è una cosa seria”. Allegra , Pascalizzi, Galanello erano un gruppo a sé ,ternani due , reatino l’altro . ma stavano insieme forse ricordando quando le due province non esistevano , e Terni e Rieti  erano parte della provincia di  Perugia.    Era stato il duce a creare le due province, si diceva per assicurare la montagna del Terminillo al Lazio,  dove i romani andavano a sciare, e per riconoscere l’importanza di Terni, che stava diventando un polo industriale importante.   Più di loro stavano sempre insieme  gli aretini, come li chiamavano i compagni di corso.   Anche loro erano tre.   Arrivavano la domenica sera, da Arezzo, su di una Ford Anglia  e se ne tornavano a casa alla fine della settimana.   Idini, Palazzi, Caremani.     Due di loro erano destinati a divenire medici dell’ospedale di Arezzo , che già frequentavano da studenti.     Alcuni mesi prima, per poter sostenere l’esame  c’era stato l’internato in Clinica Ostetrico-Ginecologica e Carlo era parte di un gruppo di sei studenti, di cui tre erano gli aretini, e due della zona del lago Trasimeno.  A parte i momenti della sosta pasto, quando si recavano alla mensa,  la giornata trascorreva in clinica dove avevano assegnato loro una stanza vicino alla scuola delle ostetriche. Assistevano ai parti ,alle sedute chirurgiche, al lavoro di corsia.     Soprattutto lanciavano occhiate alle ostetriche in erba.     La più avvenente era una ragazza della zona di Città di Castello , si chiamava Vincenzina.    Movenze e atteggiamenti disinvolti, sorriso accattivante, energia nervosa che emanava quanti di seduzione nei circostanti.  Ci fu una risonanza, in particolare di uno degli aretini, solo virtuale, ma bastevole perché venisse all’attenzione della direttrice della scuola.   I sei furono convocati dal direttore della clinica , presente la capo ostetrica, che li redarguì aspramente e li cacciò dall’internato.    Carlo che, se pur in disparte, aveva partecipato dei messaggi seduttivi ,  temette che l’esame che doveva sostenere sarebbe stato periglioso. Non così pensavano gli aretini ed ebbero ragione. L’esame passò con successo ma rimase in loro la nostalgia di quello scampolo di vita ospedaliera che avevano vissuto solo per poco, quel sentirsi dottori sul campo, bruscamente interrotto, che si auguravano fosse stato solo un assaggio di quello che li aspettava nella vita professionale futura.

Quella mattina non era ancora andato in portineria dove c’era il telefono a gettoni, per chiamare casa e sentire se tutto andava bene.

La madre stava a Roma, in Ospedale al Policlinico Gemelli.  C’era andata su sollecitazione di Tarquinio l’altro figlio che viveva a Roma.       La malattia non era grave, si trattava di  un’infezione urinaria ormai cronica, probabilmente conseguenza  delle alterazioni anatomiche della regione vaginale causate dai due parti particolarmente impegnativi  che aveva avuto .      Così pensava Carlo sulla base dell’esame di Ostetricia e Ginecologia  sostenuto di recente.    Se fosse rimasta a casa non sarebbe comunque venuta alla cerimonia che avrebbe visto protagonista il figlio quella mattina.      Carlo conosceva la madre più e meglio di qualunque altro, anche del fratello, sapeva che  nelle sue corde non c’era il presenzialismo , il bisogno di mostrarsi. Viveva le vicende dei figli, da casa , non si spostava volentieri da lì.      La morte del marito prematura e drammatica le  aveva caricato addosso la responsabilità della famiglia e della casa che era tutto quanto  era rimasto.    Con sacrifici indicibile era riuscita a far studiare i due figli.       Il più grande era ormai laureato e sistemato , l’altro aveva seguito l’esempio del fratello.   Carlo pensava che il ricovero proprio in quei giorni così importanti, aveva anche un significato scaramantico, e comunque rispondeva alla necessità di starsene in disparte , magari per pregare , per chiedere l’aiuto di Dio su quel figlio di costituzione gracile,  e al quale aveva in qualche modo imposto di raggiungere obbiettivi gravosi.      Quel pensiero in lei era sempre presente.    Ma d’altra parte che avrebbe dovuto fare , lasciarlo nell’indolenza del suo carattere , incamminarlo verso un lavoro manuale che non avrebbe sopportato fisicamente?. Dunque aveva investito sull’intelligenza visto che a scuola era sempre andato bene , primo o tra i primi.    Carlo sapeva che questi erano alcuni dei pensieri di sua madre per lui.    Fatto sta che quel giorno così importante  per il figlio e  per lei non c’era e di questo Carlo era contento , aveva l’abitudine, la necessità di vivere le sue cose, tutte e ancora più quelle importanti, da solo.      Una ritrosia , o una timidezza come in occasione degli esami, che cercava di dare quando c’era poca gente , da solo con i professori, e così riusciva a dare il meglio di sé.      E la madre lo sapeva, e forse anche per questo quel giorno  non era venuta.  Sarebbe arrivato il fratello, lei così aveva stabilito, ma Carlo non lo sapeva per certo, e così quella mattina si era potuto alzare dal letto senza il pensiero di dover aspettare o vedere quelli di casa, con l’inevitabile turbativa che avrebbero portato al programma di quel giorno.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           Andò al lavabo , si fece la barba prendendo una lametta nuova attento a non tagliarsi , senza risparmiare sul sapone da barba e usando il pennello grande quello da barbiere che aveva comprato insieme a Lucio nel negozio di Sigillo. I capelli erano lunghi.

 Capelloni li chiamavano quei ragazzi degli anni 70 , contestatori per moda o convincimento profondo, comunque capelloni i più, come segno distintivo, come messaggio di appartenenza.  Non erano ben rasati e vestiti, ed i capelli corti e curati  come quelli del Fuan,  gli universitari di destra che gravitavano intorno alla mensa di Agraria.      Giravano quelli  con belle macchine e belle ragazze, minoritari in quei primi anni 70 , ma tosti e strafottenti verso i coetanei di sinistra raccolti nell’Ugi e nelle formazioni extraparlamentari ancora sommerse a Perugia.  Alla casa dello studente erano o di sinistra o  non impegnati, non c’erano quelli del Fuan,  anche Carlo era di sinistra.   Non militanza politica, solo  adesione ideale, sostegno e condivisione delle lotte di quegli anni contro l’America in Vietnam e tutte le giaculatorie conseguenti.   La lotta politica non era per lui, tanto meno quando si colorava di violenza fisica, come il giorno, alcuni mesi prima, dell’arrivo di Almirante che avrebbe tenuto un comizio in piazza IV Novembre all’inizio di Corso Vannucci.   Avevano organizzato una contromanifestazione quelli di sinistra a piazza Garibaldi, Carlo ci andò insieme ad un amico:  comizio , slogan e corteo con molti che tirarono fuori da bustoni che portavano al collo,  caschi e  catene .    Il corteo si snodò per le vie intorno all’università e poi imboccò la strada che da piazza Grimana porta a piazza Morlacchi , una sorta, quel giorno, di terra di nessuno, deserta e incredibilmente silenziosa .   Quando svoltarono apparve uno schieramento compatto di celerini in assetto di guerriglia e Carlo e  altri lasciarono il corteo per evitare randellate.  Altre volte, la sera, dopo lo studio, con un altro amico andava in un vicolo nella zona di via dei Priori dove si riunivano aderenti al  movimento extraparlamentare di  Avanguardia Operaia.     C’era i capi molto motivati che tiravano fuori il capitale di Marx, e altri scritti di Mao  e discutevano e riflettevano sulla interpretazione della realtà politica attuale alla luce degli insegnamenti dei maestri.        Ma queste frequentazioni e adesioni ideali non inficiavano l’impegno dello studio.  Quello era al centro della sua giornata, aveva deciso così, o forse  se l’era trovato davanti  senza nemmeno sceglierlo , perché la libertà prevede alternative e lui non ne aveva. Se avesse fallito nello studio, non riusciva a vedere altro che precipitare  nell’accidia , il fantasma che aveva sempre accanto.   Quell’indolenza del carattere che lo avrebbe portato a non fare nulla , a guardare le ore passare senza niente che lo afferrasse per sottrarlo all’inedia.      Non aveva mai mollato , aveva sempre lottato contro quel pericolo, come un baratro dove poteva scivolare ogni momento.  Quella determinazione  gli veniva dall’educazione ricevuta, dalla sfida che gli piaceva ingaggiare con se stesso per raggiungere  obbiettivi importanti, e nel contempo dalla consapevolezza della sua fragilità. Concentrarsi su un unico traguardo era inevitabile,   se avesse abdicato  non  avrebbe trovato conforto in nient’altro.

I capelli erano lunghi, nonostante alcuni giorni prima fosse andato a farseli rifilare dal barbiere vicino alla mensa. Lunghi, coprivano il collo e si prolungavano davanti sulle lunghe bassette e sui baffi.     Li teneva puliti, ma ricci com’erano, facevano una massa importante sulla testa.                                                                                                                                                                                                                                                   Non gli importava se l’aspetto estetico ci guadagnasse o meno, e  d’altra parte li portavano così molti e quella cosa era per lui importante, non intendeva rinunciarci. Sicuramente era il tentativo di fare, in quel modo, da contrappeso alla vita seriosa che conduceva, una manifestazione di adesione al nuovo che nel suo caso non diventava una condotta di vita alternativa , di contestazione del sistema come si diceva con enfasi e retorica allora. Si dimostrava solo l’adesione di principio, la contiguità , senza la svolta radicale che quei principi avrebbero preteso.                            D’altra parte questo era il suo cruccio, per non dire il suo dramma , questa schizofrenia tra adesione intellettuale e prassi, tra retaggi etici , condizionamenti culturali e familiari e desiderio del nuovo, che allora appariva essere l’adesione a quei movimenti che promettevano una palingenesi . Quantunque   Carlo non si nascondesse che quel rincorrere idealmente utopie di moda, era una fuga , un rifugiarsi nel sogno per l’incapacità di vivere e affrontare più concretamente la realtà.  Ma questa era anche e da sempre la condanna dell’età adolescenziale e giovanile di ogni tempo e di ogni parte del mondo.   Per contro non si poteva negare che la storia veniva determinata in qualche modo da quei movimenti giovanili irrazionali e violenti.     Nei suoi capelli lunghi c’era un po’ di tutto questo, lunghi ma puliti e per quanto possibile ben messi, nonostante la loro natura ribelle di capelli ricci;  per questo i giorni che avevano preceduto quella mattina, aveva indossato, di  sera andando a letto, la retina: quella cosa  che usavano un tempo i vecchi la notte,  per avere i capelli apposto il giorno dopo.

Carlo si guardò a lungo allo specchio , cercò di sistemare il contrasto tra i capelli schiacciati all’apice del cranio e le parti laterali dove la retina non aveva potuto svolgere adeguatamente il suo lavoro.   Consultò l’orologio e decise che era ora di vestirsi: lo fece con accuratezza.    Indossò il vestito grigio che la mamma gli aveva preparato per tempo , la camicia azzurra e la cravatta a righe tipo regimental che gli aveva fatto pervenire la suocera del fratello, la signora Gina , come augurio per quel giorno importante. La giornata era calda per cui decise di tenere sbottonato il collo della camicia , l’avrebbe abbottonato poco prima di entrare.  Prese la copia del suo lavoro sotto braccio e mise in tasca i documenti che forse sarebbero serviti.  Con calma, per dominare l’emozione che avvertiva in petto,  scese le scale dell’edificio, e arrivò sulla strada in via Faina. Guardò la sua 500 posteggiata nello spazio antistante , quasi sola, perchè la maggior parte degli studenti erano partiti per le vacanze estive. Era ormai la fine di luglio, erano terminate da un pezzo le lezioni e anche le sessioni di esami , rimanevano i pochi che non sarebbero tornati a casa per le vacanze estive , o quelli impegnati a sostenere l’appuntamento di Carlo. Così oltre le macchine c’era poca gente in via Faina. Fatta la curva che portava a via dell’Elce prese verso il centro, da lì  guardando l’orologio vide che era ancora presto, così si girò riguadagnò la curva e proseguì nella discesa che portava all’Elce.    Dopo pochi metri passò davanti al suo bar dove andava a comprare le sigarette, usualmente le super con filtro, qualche volta le più costose muratti. Accanto alla scritta bar, da alcuni mesi era comparsa un’altra insegna con caratteri più piccoli: easy meeting.

Si riferiva a un angolo del locale più discreto dove ci si poteva sedere e consumare qualcosa.   C’era andato una sera con Sandro Giuliani e  due sue amiche, una si chiamava  Anna Laura era la sorella di un loro amico,  Moroni, mora e riccia come il fratello, studente di legge,  l’altra si chiamava  Luciana

Accadde:       Quel maggio profumato come le labbra e i capelli di Luciana,gli  esplose nel petto. C’erano  i quattro esami del VI anno da dare,  la tesi da terminare, e ora  Lei. Non pensò cosa sarebbe successo, se ce l’avrebbe fatta a non mandare tutto in malora, il pensiero non arrivava a livello della coscienza, lo stato di eccitazione lo ricacciava indietro.    Si erano guardati quella sera e tutte le altre dopo.        In giro per le strade di Perugia, in qualche bar a parlarsi con gli occhi, sulle panchine di piazza Italia, e sulle altre più appartate tra i vicoli del centro, appoggiati sul muro dell’acquedotto a guardare le ore passare, portate via dal movimento della luna.     Tenerezza rarefatta, corporeità sublimata.      Dopo, in giro per la stanza e per il corridoio deserto, a convincersi che stava accadendo a lui, ebbro di felicità e di attesa per la sera del giorno dopo.      E poi a studiare sino a tarda notte per recuperare  le ore della sera.     La prima sera erano andati al Modernissimo il cinema d’essey dalle parti di porta Pesa, c’erano tornati altre volte e anche alla fine di giugno alla vigilia della sua partenza.  Luciana tornava a casa, a Terni, terminate le lezioni, dalla famiglia che l’aspettava.

Aveva continuato a camminare giù per l’elce e poco dopo aver sorpassato il bar  si era ritrovato davanti al palazzone dove aveva la camera Luciana.                                                                                                    

L’accompagnava lì, la sera quando tornavano, e l’aveva accompagnata lì dopo il cinema, la sera prima della partenza. Si erano dati un bacio e si erano stretti in un abbraccio , lei gli disse l’indirizzo di una pensione a Roseto degli Abruzzi dove sarebbe andata in vacanza con i suoi per Agosto. Sperava di rivederlo là e se non fosse venuto doveva leggere quella lettera che gli infilò nella tasca della giacca, ma non prima di allora. 

Guardò l’orologio e vide che era quasi l’ora, tornò indietro e si diresse verso l’Università.    Dopo circa 100 metri arrivò davanti il cancello che dava accesso all’edificio della sede centrale.

Non troppo monumentale la facciata , classicheggiante,  in mattoni, che gli davano un sapore di Marche più che di Toscana, certamente poco di Umbria, l’Umbria delle pietre come il carattere della sua gente.  Rispetto agli altri edifici accanto, la sede centrale si distingueva per la presenza  di una nicchia con dentro la statua di Baldo, l’insigne giurista che aveva insegnato nell’Università appena fondata all’inizio del 1300, e la cui icona compariva da sempre in tutti i diplomi di laurea che la stessa rilasciava.  Ateneo antico questo di Perugia tra i primi ad essere fondato in Italia accanto a Bologna e Padova, e anche a ciò doveva la sua fama e il fatto che tanti studenti provenivano dalle regioni del sud, dalle Marche e comunque al di fuori dell’Umbria. E la città ne aveva tratto giovamento, il prestigio dell’ateneo aveva contribuito a legittimare il dominio che da sempre la città aveva sulle altre della regione, nonostante altra cosa fossero quel territorio e quella gente.  Perugia era stata etrusca e ne conservava vestigia possenti e quel suo essere etrusca gli veniva anche dalla geografia, quel suo stare alla destra del Tevere.  Il Tevere appunto che da sempre tagliava in due l’Umbria e quella posta a destra sapeva già di Toscana, mentre l’altra a sinistra era l’Umbria  antica . La pietra al posto del cotto marchigiano  o di quella via di mezzo che era la pietra serena toscana.   Anche la lingua era diversa, simile quella dei folignati, spoletini, ternani, diversa dal perugino e ancor di più da quella dei tifernati di Città di Castello. E naturalmente le genti si odiavano tra loro , con guerre sanguinose nel medioevo e dopo, sostituite più di recente dalle partite di pallone o altre competizioni.

Pensava a queste cose Osvaldo mentre varcava il grande portone e la cancellata, grande come gli androni e i corridoi e la lunga scalinata che sali per arrivare davanti l’aula MAGNA.

Li costruivano imponenti da sempre questi templi del potere , anche del potere intellettuale e scientifico, grandi per uniformare i giovani alla grandezza dei fini e dell’impegno , come un passaggio dal loro mondo per lo più dimensionato su una scala familiare di affetti e sussistenza, ad uno di grandi idee e obbiettivi e la maestosità degli ambienti dove tutto si doveva forgiare serviva allo scopo.  Più causticamente Carlo pensò che le facevano grandi e ricche per mettere in soggezione il popolo e poterlo così governare più facilmente, e non si nascose che quell’opinione potesse essere influenzata dalle sue frequentazioni del circolo di Avanguardia Operaia.  Si accorse che quelle continue elucubrazioni mentali  lo distraevano dall’impegno di quel giorno e in generale non era cosa buona per la vita che non consentiva troppe divagazioni se si voleva ottenere qualcosa. E così lui infatti aveva fatto in quegli anni ma d’altra parte non poteva rinunciare  a pensare che questo vedere e riflettere su tanti aspetti della realtà era anche una ricchezza della mente alla quale non senza sacrificio  poteva rinunciare.  D’altra parte il Baldo che poco prima aveva lasciato all’ingresso  parlava di una sapere universalista. Si era medici, giuristi, ingegneri,etc..  ma prima umanisti con tutte le altre discipline del trivio e del quadrivio.

Nella sala d’aspetto vide tre compagni di corso  e un’altro che aveva frequentato le lezioni del primo anno per poi scomparire, il padre era professore all’università e Carlo ebbe il sospetto maligno che per lui esami, e lezioni erano state una cosa privata, diversa, che comunque lo avevano portato lo stesso a quell’ appuntamento insieme agli altri che ci erano arrivati dopo grandi rinunce e sofferenze.  Riguardò i suoi appunti e non potè non notare che  quell’argomento del suo lavoro con la medicina c’entrava poco . Si parlava di territorialismo , di pulsioni sociali e individuali , dello sviluppo del genere umano e solo alla fine delle strutture neurologiche che erano alla base di quel discorso.

Il prof. Macchi aveva sottolineato la cosa quando aveva letto il lavoro alcuni mesi prima ed aveva suggerito di ampliare quell’ultima parte, per non incorrere in qualche imbarazzo da parte della commissione. Ma quel lavoro per Carlo era stato di grande soddisfazione, in qualche modo aveva a che fare con il suo desiderio di gettare lo sguardo ovunque, e così una tesi di Medicina era diventata anche sociologia, antropologia, storia ed etologia. Un lavoro ponderoso che aveva il suo ispiratore in Franco Federici, suo mentore, neurologo della clinica universitaria. L’aveva conosciuto all’inizio dell’Università, era il marito della sua professoressa di matematica al liceo. La chiamavano “dianzi” per via di quell’avverbio che intercalava con dovizia eccessiva nel suo parlare. Segaligna , non bella, ma signorile, perugina di famiglia buona, il fratello chirurgo al Policlinico, esponente politico di area di centro con incarichi regionali. Non doveva essere un grande amore tra lei e il neurologo perché lui ad un certo punto se n’era andato da casa , probabilmente con dolore, dopo vari tentativi di ricucire quel rapporto. La mancanza di figli agevolò quella separazione. Dopo un po’ di tempo, non tanto, da far venire il sospetto che la relazione durasse da tempo, si unì con una sua studentessa, poi collaboratrice, che Carlo conosceva bene. Era della sua città, poco più grande di lui.  Era stato male Carlo alla fine del primo anno degli studi: male di nervi, una malattia comune allora tra gli studenti universitari. Alla casa dello studente quando si vedeva girare qualcuno con le fiale di “biotassina” significava che le cose non andavano. Allora non erano ancora di moda gli psicologi e per gli studenti di medicina la pregiudiziale organicista era ancor più forte, dunque ci si aiutava con la chimica: la biotassina appunto e altri prodotti simili a base di vitamine del gruppo B.     Ma un vicino di casa di Carlo, che era  una sorta di padre putativo per lui e con la sua famiglia un punto di riferimento per sua madre, lo aveva mandato per un colloquio da Franco Federici.   Franco Benigni, questo era il nome del vicino di casa, era cattolicissimo e poi era un nevrotico che sublimava  i suoi problemi aiutando il prossimo,  così era a posto anche con la sua cristianità.  Conosceva Federici oltre che per i suoi problemi nevrotici, anche  perché era economo dell’ospedale e di un istituto religioso per ragazzi, la Casa del Ragazzo che preparava per un  mestiere di artigiano gli adolescenti che non avevano altre possibilità.   Federici veniva da Perugia  per consulenze e visite. Così da lui Carlo aveva trovato conforto farmacologico per le sue ansie e per i suoi disturbi somatici, poco più che placebo, avrebbe scoperto poi nel corso degli studi, ma che in quegli anni gli dettero la forza per affrontare quel disagio esistenziale che lo aveva colto e superarlo. L’ambiente di Perugia , la casa dello studente , la nuova realtà degli studi avevano fatto da detonatore. Riandava con la mente al mondo ovattato e protetto del liceo e quella nuova vita e quell’impegno oneroso gli mettevano paura. Ma Federici diventò anche il suo tutore intellettuale. Aveva lo studio-laboratorio in un edificio basso, discosto dalla Clinica, probabilmente un ripostiglio pregresso di attrezzi agricoli. Perché la Clinica Neurologica si chiamava ancora villa Massari, a ricordare un tempo non molto lontano quando era stata una residenza signorile con intorno orti e giardini. Era la prima periferia della città,  già campagna, lontano dalle mura antiche, tra la chiesa di Monteluce e più in basso quella di san Bevignate.  Una colonizzazione sulla natura circostante, fuori della roccaforte degli uomini, la città appunto, con il messaggio di Cristo e in mezzo quello più discreto delle attività gentili e quotidiane dell’uomo ,la villa appunto. La sera, prima della cena alla mensa, e dopo lo studio del pomeriggio,  Carlo andava a trovare Federici, accadeva ogni tanto, non con la frequenza che lui avrebbe desiderato, ma con quella che la sua ritrosia, e timidezza concedevano. Una lunga passeggiata che dalla casa dello studente di via Faina passava per la piazza dell’Università, e quindi su per via Fabretti sino allo slargo dove si affacciava l’Università per stranieri di palazzo Gallenga, e sfiorando l’ imponente arco etrusco proseguiva in via Pinturicchio sino a raggiungere Porta Pesa. Si costeggiava le mura antiche che nel primo tratto delimitavano la città dal dirupo che scendeva nella campagna sottostante di ponte Rio. Più avanti oltre Porta Pesa, via Brunamonti si snodava  in un tratto più dolce del rilievo collinare su cui sorge Perugia, da lì arrivati dinanzi alla chiesa e al policlinico di Monteluce  prendeva per via del Giochetto sino a Villa Massari. Era un entrare con pudore, pronto ad andarsene con una scusa se c’era altra gente, nonostante Federici fosse sempre accogliente e se c’era qualcuno si affrettava a presentarlo.  Ma per lo più a quell’ora della sera, era solo e allora cominciava per Carlo un happening fantastico , entrava in un mondo favoloso : i libri accatastati sul tavolo e le sedie, gli scritti dei lavori scientifici sparsi ovunque, una musica classica trasmessa dalla radio,  che si propagava in quel budello fatto di stanze una dietro l’altra, sempre più strette, a ricordare l’antica funzione di ripostiglio, forse legnaia, o rimessa degli attrezzi agricoli.  La musica era discreta e su tutto dominava l’affabulazione ininterrotta di Federici che si prolungava per tutto il tempo. Si raccontava la scienza , ma anche letteratura e psicologia e Freud e Jung . Nella stanza vicina si udiva lo squittio dei topi dentro gli stabulari, dove svolgevano i loro compiti comportamentali, aprendo i cancelletti collegati a sensori acustici e a una macchina che registrava le risposte. Ogni tanto Federici andava a controllare e continuava l’affabulazione, era un soliloquio che Carlo interrompeva con qualche osservazione, nello sforzo di essere all’altezza di quel volare alto , per il quale si sentiva chiamato. Riteneva che quella doveva essere la missione della vita, via dalla pazza folla, e quelle sere sognava un futuro da assistente del professore in quello studio- laboratorio e poi nella Clinica accanto, per vedere e curare i malati.   Pensava in un delirio di orgoglio e supponenza che per lui la professione dovesse riguardare lo studio e la cura del cervello, la parte più nobile del corpo umano, lasciando agli altri le frattaglie , le ossa ,il corpo vegetativo. C’era anche tutto questo nella scelta di quella tesi, e  per questo vi si era così fortemente  impegnato. Federici sembrava apprezzare e condividere gli interessi non monotematici di Carlo, che  non a caso al liceo era stato il migliore e in particolare sulle materie letterarie e filosofiche. In qualche modo quel laboratorio e quella tesi avevano a che fare con lo studio classico del trivio e del quadrivio. Quelle sere, ad ascoltare e parlare di Medicina e di massimi sistemi era un distacco dai problemi della giornata ,dalle preoccupazioni degli esami , dalla mancanza degli sfoghi dell’età.  Era dare significato a certe scelte inconsce che sentiva la sua natura lo portavano a realizzare.  C’era un mondo nobile delle idee , superiore , della fantasia , che si doveva privilegiare su tutto il resto.   Forse un rifugio nell’assenza del resto?    Poteva essere così, ma in quelle sere non gli importava, quella domanda sarebbe tornata fuori domani nello scontrarsi con la realtà della giornata. Però ci sarebbe stata un’altra sera per tornare da Federici ed essere felici.

Vide sfilare davanti a lui gli altri, secondo un ordine un po’ casuale, quasi volontaristico e la cosa era gradita a Carlo e, come durante gli esami, essere tra gli ultimi a sostenere il colloquio gli garantiva un numero ridotto di estranei.    Intanto i colleghi a mano a mano che uscivano dall’aula magna, chi emozionato per la prova, chi radioso per aver finito, si abbandonavano all’abbraccio dei parenti che aspettavano, e se ne andavano dopo un rapido saluto e un in bocca al lupo per coloro che dovevano ancora andare.  Carlo entrò, dopo aver passeggiato a lungo nel  corridoio sul quale si apriva l’aula magna.  La tachicardia dell’attesa aumentò, per poi placarsi quando fu dentro, al centro dell’emiciclo sui cui scranni stavano i professori in ermellino.  C’era il relatore, il prof. Macchi, che presento’ il suo lavoro e Carlo ne fece un sunto che aveva preparato e che avrebbe ampliato a seconda delle domande che avessero ritenuto di fargli. Queste ci furono , ma in numero contenuto ,così passò a presentare le tesine che in numero di tre bisognava preparare su argomenti diversi da quello della tesi. Si soffermò in particolare su una reazione chimica, la neoglugogenesi. Si trattava di una reazione biochimica di trasformazione di molecole proteiche in zuccheri  ad opera del rene. Qualcuno gli fece un’opportuna , ma malevola domanda, su quale fosse l’organo principale dove avveniva la razione prima e più del rene. Carlo non fu pronto nella risposta che era banale, si trattava del fegato e quando lo disse l’altro dette mostra che fosse arrivata in ritardo. Di lì a poco il tempo della sua esposizione sarebbe finito e lo prese il pensiero che quell’infortunio potesse compromettere l’esito dell’esame o meglio la votazione finale, perché il suo corso di studi rendeva ininfluente la discussione di quel giorno in quanto a promozione , lo era in quanto a voti . Così attese in ansia il risultato finale . Gli dissero che era laureato in Medicina e Chirurgia con 30/30 e lode.         Lo pervase una grande calma mentre scendeva l’ampio scalone.  Di sotto sulla piazza antistante, lo aspettava il fratello Tarquinio. Si erano invertiti i ruoli. Dieci anni prima, era andato lui ad aspettarlo fuori dell’università a Bologna, lui poco più che ragazzo con in tasca il denaro che la madre gli aveva consegnato, perchè lo desse al fratello per i festeggiamenti che avrebbe fatto con gli amici di lassù e quelli che da Foligno lo avevano raggiunto. Andarono al bar dell’Università,   presero un aperitivo rosso forse un Campari.  C’era poca gente in giro , Carlo salutò Bacoccoli il direttore della casa dello studente.  Un signore basso, grassottello, non particolarmente simpatico,  con cui in quei sei anni non aveva avuto molti rapporti. Ma quel giorno fu gentile, gli fece i complimenti e non mancò di decantare l’importanza della casa dello studente per l’ottenimento di questi risultati. Poi Tarquinio gli disse che lui tornava a casa a Foligno e lo avrebbe aspettato lì quando lui fosse tornato, così il giorno dopo sarebbero andati a Roma dove la mamma lo aspettava.  Immaginava Tarquinio, che suo fratello avesse da incontrare amici, forse ragazze per festeggiare , a cena fuori, e perché no ci poteva stare una nottata brava. Non gli chiese se avesse bisogno di soldi, forse non ricordava più anni prima, quando lui glieli aveva portati a Bologna per la sua laurea. Finirono l’aperitivo rosso , che sapeva di amaro e se ne andò, Carlo non aveva risposto alla domanda sui programmi della sua giornata , ma forse non glielo aveva neppure chiesto così chiaramente, né lui  sapeva cosa avrebbe risposto.  Era colmo di una calma olimpica, come un benessere dopo un mal di testa con cui aveva da combattere spesso. Ma ora quello stato d’animo  era arrivato senza farmaci, dopo che aveva terminato di parlare, senza nemmeno ascoltare l’ermellino che lo proclamava, in nome della Repubblica Italiana,  dottore in Medicina e Chirurgia. Ebbe voglia di tornare in camera sua e vi si diresse.  Ripercorse la strada che aveva fatto la mattina e arrivato in via Faina, a quell’ora deserta, guardò in alto la finestra della sua camera. Si commosse perché quella cosa era sua, ma non più dal giorno dopo. Era finita, la doveva riconsegnare, perché con la fine degli studi finiva anche il presalario e quindi il possesso di quella stanza.  Era sua , perché non c’era mai stato altro nella sua vita che non gli fosse stato dato da altri, come quelli di casa , sua madre. No quella camera se l’era conquistata con il suo studio e nessuno ci aveva messo mano . Le poche cose che c’erano là dentro ce le aveva messe lui , le poche cose , i ritagli di immagini di donne e di uomini famosi alle pareti , i libri, la radiolina.   Percorse le scale dei quattro piani, ando’ al bagno per urinare , si accorse di averla trattenuta per tutta la mattina,  e la vescica non smetteva di svuotarsi da quanta urina si era accumulata dentro. Poi entrò in camera e si distese sul letto.  Si addormentò di un sonno profondo per circa un ora, al risveglio guardò l’orologio e vide che erano le due. Pensò che forse la mensa era ancora aperta, nonostante si fosse alla fine della stagione delle lezioni e degli studi , i giorni a seguire avrebbero chiuso la maggior parte dei servizi per le ferie di agosto. Sarebbe rimasto solo un piccolo gruppo di camere accorpate nell’edificio vicino alla mensa che era quello storico , una palazzina di stile liberty di quando l’università era per pochi studenti , e questi potevano essere tutti accolti nella palazzina accanto alla sede centrale alla mensa , e al bar. Si vestì con gli abiti di ogni giorno,  uscì . La mensa era aperta,  entrò senza dover fare la fila degli altri giorni. Prese il vassoio e vi mise una pasta con pomodoro, una fettina di carne ai ferri e un contorno di verdura cotta , si concesse data l’occasione una bottiglietta di vino bianco. Consegno’ al cassiere il buono pasto, e pensò ai pochi altri che gli erano rimasti e che non avrebbe avuto più modo di consumare.

 Non era solito bere alcoolici , né mangiare fritti o pietanze con eccesso di sughi o spezie , lo faceva per proteggere il suo fegato, perché da ragazzo aveva avuto un episodio di itterizia come si chiamava allora , probabilmente un’epatite come aveva imparto dagli studi di clinica medica  e malattie infettive.  Comunque da allora stava attento nel mangiare e la mamma era particolarmente attenta in questo, perché il babbo di Carlo era morto per una malattia di fegato, lui bambino, senza una diagnosi precisa. Allora le indagini erano poche e carenti, non garantivano la certezza del tipo di malattia e della causa di morte:  per il padre  si era parlato di cisti di echinococco. Carlo studiando poi quella materia, si era persuaso che forse la causa della morte era da ascrivere ad una puntura del fegato che gli avevano fatto in Clinica Medica. Lo aveva mandato lì il dott. Minelli, suo medico curante, che non ci si raccapezzava più sull’evoluzione di quel malanno che lo aveva preso la notte di capodanno al paese ,Sigillo, dove era andato con la famiglia, come sempre nell’occasione delle feste comandate, per festeggiare con i parenti di là . Una colica di fegato tremenda a cui nei giorni successivi era seguita un’itterizia, che tra alti e bassi se la stava trascinando da due mesi . Quando arrivò in Clinica  stava bene,  poi gli avevano fatto quella puntura ed era entrato in coma e lo riportarono a Sigillo a morire nel letto materno dove era nato.  Luogo di gioia e dolore quel letto dove l’Angelina aveva partorito i suoi dieci  figli, e dove  tutti quelli che il destino si portò via ancora giovani,  erano tornati a morire,  vegliati dal pianto rappreso e dalle tremule carezze della mamma.  O forse era stata l’evoluzione di quella malattia.  Ma quando aveva studiato quell’argomento delle cisti d’echinococco e della pericolosità della puntura che poteva causare  shock anafilattico e  coma, pensò e non poteva togliersi dalla mente quel pensiero, che quella manovra era stata la causa di tutto.  Aveva avuto la tentazione di andare alla ricerca della cartella clinica, ma erano passati 15 anni , probabilmente non c’era più e comunque gliene mancò il coraggio.  In un verso o nell’altro la verità non avrebbe cambiato niente di quel destino infame , gli avrebbe dato un sentimento di risentimento, addirittura  di odio verso quei medici e ora che si apprestava a diventarlo anche lui , gli sembrava di cattivo auspicio.   Però ricordava una sera prima del ricovero in clinica del padre, quando  era venuto da Perugia un professore di quella clinica a visitarlo, un consulto che aveva richiesto Minelli e da cui ci si aspettava lumi e conforto. La mamma era angosciata dal costo della visita e aveva preparato una quantità di denaro cospicua, sulla base di quanto le era stato detto dal medico di casa. Al momento del pagamento non mancò di fare un accenno al difficile momento che la famiglia stava vivendo, anche da un punto di vista finanziario, forse per mitigare la richiesta. L’illustre clinico non rispose, prese il denaro che la mamma di Carlo porgeva e lo mise nella borsa . Da allora quell’immagine  gli si era messa in testa come cosa riprovevole , c’era del dolore in quella casa , c’era speranza di parole di sconforto e guarigione , c’era una condizione di indigenza, che c’entrava quel denaro in tutto questo.?  Era giusto che la  preoccupazione di trovare quel denaro con la paura che non sarebbe bastato avesse sopraffatto gli altri sentimenti?

RIPENSANDOCI ORA CAPI’ CHE NELLA PROFESSIONE CHE SI ACCINGEVA A FARE NON AVREBBE CHIESTO DENARO , NON AVREBBE POTUTO FARE LA LIBERA PROFESSIONE, AVREBBE POTUTO LAVORARE SOLO IN OSPEDALE CON UNO STIPENDIO DATO DALL’ISTITUZIONE NON DAI MALATI.    SI MISE A SEDERE SU UN TAVOLO VICINO ALLA VETRATA CHE DAVA  ALL’ESTERNO, SULLO SPAZIO LIBERO SISTENATO A GIARDINO SUL QUALE SI AFFACCIAVA L’EDIFICIO VECCHIO DELLA CASA dello studente .

Al piano terra aveva la camera Euro Stramaccia suo compagno di corso della stessa città.  Lui veniva dal Liceo Classico  e negli ultimi anni si era visto più poco. Probabilmente era rimasto indietro con gli esami e aveva perso il presalario.  Al piano di sopra aveva la camera Pio Buoncristiani, avanti a lui di un anno che aveva già finito gli studi e lavorava in ospedale.  Quando Carlo si era iscritto all’Università la goliardia era ancora in auge e lui con la piccola pattuglia di amici di liceo che avevano iniziato l’avventura di Medicina, si trovarono a dover girare guardinghi per Perugia in modo da evitare i blocchi che gli anziani facevano alle matricole come loro. Pio nella sua veste di fagiolo, cioè studente del secondo anno, il cui compito nella goliardia era quello di dare la caccia alle matricole per darle in pasto agli anziani , si era prodigato nel far loro avere dei lasciapassare che avevano però una durata sempre più effimera. Alla fine, o sinceramente o a trabocchetto, disse loro che per risolvere definitivamente il supplizio era opportuno che facessero una volta per tutte il papiro. Fare il papiro significava una sorta di esame da parte degli anziani titolati della Confraternita goliardica, con a capo il Grifone e dietro la sua corte che in cambio del pagamento di un lauto pranzo, avrebbe stilato una pergamena dove con la sua firma  e quella degli altri pluripotenziali  si dichiarava che il tal dei tali “minus quam merdam” era stato accolto nella libera confraternita della Goliardia e dunque era un adepto a tutti gli effetti e non doveva più subire nessun controllo o vessazione come  coloro che non  avevano ancora fatto la prova, o addirittura vi si erano  sottratti.   Pio non aveva detto loro che il pranzo sarebbe stato allietato da uno spettacolo di cui loro sarebbero stati gli attori, per il sollazzo e il buonumore dei commensali.  Non gli aveva detto la cosa e questa si rivelò terribile perché non avvezzi a quei costumi di trivialità , timorosi e introversi i più.  Anche dopo, negli anni a seguire tra loro che erano rimasti intimi e con gli altri con cui si vedevano più raramente non parlavano di quella infausta giornata . Carlo la  rivisitava di notte come un sogno maligno , quasi un incubo se non fosse che su di esso aleggiava l’attenuante della goliardia, della licenza studentesca , della tradizione secolare, dell’iniziazione  e questa per sua natura doveva essere dolorosa, per rinascere purificati dopo il lavacro del male. Quel pranzo licenzioso di cui era stato attore insieme ai compagni, aveva dietro tutto questo, ma allora come dopo ne sentiva solo il fastidio e il disgusto. Quell’anno  sarebbe stato uno degli ultimi nel quale si sarebbe celebrato il rito. Urgevano nell’aria altre suggestioni che  avrebbero spazzato via quel residuo ancestrale,  e gli esponenti di quel mondo goliardico. “Fancazzisti” per definizione, quasi tutti fuori-corso e gigioneggianti nei palazzi dell’università e per le strade di Perugia, si trovarono costretti a fare i conti con la realtà.  L’allontanamento dagli studi  per raggiunti limiti di età li consegnò a condizioni di disagio e  di difficile inserimento, meno i pochi che seppero riciclarsi. Per difesa dal nuovo mondo che si andava agitando, confluirono in politica su posizioni di destra , arroccati nella facoltà di Agraria o meglio nella sua mensa, luogo di incontro con i più tosti esponenti del Fuan, il fronte studentesco fascista. Carlo e gli altri della casa dello studente erano prevalentemente di sinistra e pur non esponendosi più di tanto per il prevalente impegno di studio, simpatizzavano con coloro che avevano fatto dell’azione politica il loro principale interesse. Carlo saltuariamente ospitava nella sua camera un compagno lucano che si chiamava Carbone, detto “carbonello” per via della bassa statura e dei lunghi capelli e barba, neri corvini. Quando si trattò di votare per il Parlamento  nazionale, Carlo gli confidò che avrebbe votato socialista per i trascorsi familiari e tutto il resto, “carbonello” di rimando, fece una faccia sbigottita, quasi schifita e poi con aria disperata e implorante gli disse che almeno avesse votato Psiup se proprio voleva votare e non poteva fare di meglio.                                                                                                                                                                                                                      Aveva finito di mangiare , raccolse nel vassoio le cose e lo riportò sul bancone.  Quel giorno non c’era più l’addetto alla funzione di spicciare i tavoli, veloce come il fulmine per velocizzare il ricambio degli studenti affamati.  Lucio, il suo amico dei primi anni lo chiamava “rame” per via dei capelli rossi e oltre alla mensa  svolgeva il suo lavoro nel bar sottostante dove si andava a fare colazione la mattina.  Alla cassa c’era uno nuovo che non conosceva,  gli sembrò segno di un mondo che stava cambiando senza di lui che, dal giorno dopo, non avrebbe più frequentato quei luoghi.  Gli consegnò il cartoncino dei buoni pasto e pensò che in camera ne erano rimasti altri, non avrebbe potuto più usarli , né regalarli, perché c’era sopra il suo nome.                                                                                                                                                                                                                                                                                  Fino alla settimana prima, alla cassa c’era Luana, una studentessa che dava una mano alla mensa, ricevendone in cambio dei buoni pasto. Non aveva il presalario, dunque non stava alla Casa dello studente posta sempre in via Faina, ma più in alto, lontano da quella dei maschi. Lei aveva una camera in un vicolo di porta PESA . Quella primavera quando aveva conosciuto Luciana, era comparsa anche Luana.      Si accorse dell’attenzione di lei quando le passava dinanzi,  lungo il bancone del self service.  Lo guardava e gli sorrideva, Carlo continuava a girarsi indietro perché non poteva credere che quell’attenzione fosse rivolta a lui. Ma era così e ne ebbe conferma una sera che lei gli cambiò sul vassoio un frutto che lui aveva preso a caso. Al suo posto  mise il più bel frutto dal cesto che aveva accanto. Era una mela rossa , dal colore invitante che si immaginava succosa al morso dei denti.  Lo sguardo di Carlo scivolò oltre i vassoio e il bancone e si fermò sul seno prosperoso e prepotente di lei. Gli sembrò che urgesse, smanioso di liberarsi della camicetta che lo nascondeva,  e l’appena accennato movimento degli occhi e delle labbra di lei, legittimava quella fantasia. Ebbe un’erezione immediata che dissimulò aggiustando con rapida mossa i pantaloni. E così le ore notturne dello studio e del riposo erano agitate dalla visione di quei seni che lei avrebbe offerto al suo desiderio quando, uno dei giorni a venire, si fossero incontrati, spinti da Eros, in un luogo appartato. Lì finalmente si sarebbe sbottonata la camicetta per il suo deliquio.   Una sera quella cosa accadde , ma non fu come aveva sognato. Lei capì anche perché lo aveva visto in giro con Luciana e da  quella sera in poi , alla mensa   riservò ad altri  le mele rosse e succose.

Uscendo, i passi sul selciato ghiaioso rimandavano il suono consueto di sempre , di tutti gli anni durante i quali lo aveva percorso tre volte al giorno, finito il pasto e diretto in camera per riprendere lo studio. Ma ora il passo era lento e con esso il rumore.  Non c’era fretta, non doveva andare da nessuna parte, non aveva più niente da fare di tutto quello che aveva riempito le sue giornate per sei anni. 

Ripensò a Lucio con il quale aveva fatto vita in comune nei primi due anni, erano stati insieme al liceo, e insieme con un altro compagno avevano iniziato quell’avventura. L’altro si chiamava Osvaldo.  Era serio Osvaldo, calabrese trapiantato in Umbria da ragazzo, a seguito del padre ingegnere, professore alla scuola per periti industriali della città. La mamma, chiamata in casa con il diminutivo di “tota”, parlava un dialetto calabrese duro e assoluto. Era molto più giovane del consorte, tornato dalla prigionia della guerra non più giovanissimo. Antica famiglia borghese  di Catanzaro città, lì avevano tutti i parenti che ogni tanto salivano in Umbria per una visita. Loro invece andavano raramente giù . Osvaldo ci sarebbe tornato di lì a qualche giorno per presentarsi ai parenti fresco di laurea e festeggiare con loro. Era metodico Osvaldo nello studio e nella vita , non brillante come fantasia. Carlo al liceo lo prendeva in giro, dicendogli che i suoi temi d’italiano erano semplicemente delle perifrasi  precise e puntuali, ma aride. Lui di rimando, se pur parlava poco, un giorno se ne uscì dicendo che ammetteva di essere inferiore a lui in italiano, ma non nelle materie scientifiche. Fatto sta che all’esame di maturità Carlo aveva riportato la media più alta di tutti. Ciononostante  la palma di primo, lui sapeva e lo aveva detto, apparteneva non a lui ma al “vecchio” al secolo Leonardo Macchioni . Intelligenza superiore in tutte le materie.  Il tema di matematica era svolto dalla classe secondo un metodo che portava il nome di un matematico francese, indicato e insegnato loro dalla professoressa Mancini, e non si andava al di fuori quel tipo di dimostrazione. Il “vecchio” oltre quel metodo svolgeva il tema in altri due modi, di cui uno che utilizzava curve sul piano costituito da ascisse e ordinate.  Carlo, com’era consuetudine, per preparare l’esame di maturità, andò a lezione dal professore Riggio, autorità indiscussa in città nel campo della matematica. Era stato suo professore alle medie,e lo preparò  anche insegnandogli quegli altri modi di svolgimento del tema che il “vecchio” sapeva fare da solo senza insegnamento. Si andava a lezione da Riggio perché la Mancini era avanti con gli anni e nonostante ricordasse sempre che era stata compagna di studi di Enrico Fermi, di fatto il suo insegnamento risentiva dell’età. Ma Leonardo negli ultimi mesi dell’anno della maturità era entrato in crisi e quando venne il giorno, non fece un esame brillante. Ciononostante, e come la sua intelligenza consentiva, si era iscritto alla facoltà di Ingegneria a Pisa, ma il disagio che lo aveva colto nell’ultimo anno di liceo non sparì e da quanto che si era saputo, aveva faticato negli studi , e non aveva brillato . Lucio invece al liceo , era un ragazzo in disparte, poco socievole.   Erano diventati intimi con l’inizio degli studi a Perugia.  I viaggi in treno , le lezioni,  e il resto della nuova vita, avevano creato tra loro una complicità. Era così anche con Osvaldo ma in modo diverso. Con lui Carlo studiava, preparava gli esami, ma Osvaldo era serio, quando era libero dagli studi stava con la ragazza che aveva dai tempi del liceo, e ora anche lei a Perugia alla Facoltà di Magistero. No con Lucio era diverso.  Li legava un’esigenza di irrazionalità ,di fantasie, di pulsioni  a cui non era facile dare un nome che non fosse riduttivo , come giovinezza o goliardia.  Era qualcosa di più: un modo di vivere la vita  seguendo le suggestioni della fantasia e dell’irrazionale, senza uno scopo , senza limiti, inseguendo le pulsioni del momento. Tutto questo in Carlo era combattuto e soffocato, per le scelte che l’educazione lo avevano portato a fare, e abbandonarvisi, se pur raramente, gli procurava un malessere psichico che diventava anche fisico , una specie di stanchezza che lo portava a ritirarsi nella sua camera , per rimettere a posto il confuso. In Lucio invece era un abbandonarvisi totalmente, rincorrendo senza freno emozioni e chimere sempre nuove.  Aveva preso alloggio presso i frati minori di Monte Ripido, e già quella scelta significava qualcosa . Chiariva che quel modo di vivere non era ascrivibile ad atteggiamento superficiale e leggero, godendo dei piaceri dell’età. No, non era questo. Era manifestazione di un disagio esistenziale , di un’anima delicata che non riusciva a dare una direttiva pratica alla vita , a stilare e realizzare i compiti della giornata.  Era una ricerca e un bisogno dell’assoluto che finiva per perdersi nelle fantasie e negli entusiasmi più vari, senza costrutto .  Lucio non riuscì a stare al passo con gli altri in tema di esami e dopo un po’ sparì a suo modo , senza che si sapesse dove era finito . Qualcuno raccontò che fosse in Toscana, trasferito in una Università di là. Solo ultimamente si era saputo che la città era Siena e lì aveva continuato gli studi di Medicina , ma con notevole ritardo rispetto ai compagni di Perugia con cui aveva iniziato. Carlo sentiva di avere un legame profondo con Lucio e sentiva che si sarebbero prima o poi rivisti e sarebbero stati di nuovo amici.

Quel giorno Carlo non  era voluto uscire dalla camera, aveva disertato le lezioni e la mensa. Lucio a bussare alla porta, a chiamarlo finchè non aveva aperto alla sua insistenza preoccupata. Era una giornata di disagio, di chiusura in se stesso che non era sfuggita al cuore dell’amico.    

Così per quello e per altre simili assonanze Carlo sentiva di avere un fratello in Lucio anche se non si vedevano ormai da anni. Un pò lo invidiava perchè aveva avuto il coraggio di rompere con il mondo da cui veniva , con i genitori ossessivi , una mamma delicata e angosciata accanto a quel marito logorroico e inconcludente ma con una vena artistica che Lucio aveva ereditato. Dipingeva quadri e Lucio pure e oltre quelli scriveva, pensieri e poesie. Quel giorno sarebbe stato il compagno giusto per vivere insieme la fine degli studi. Festeggiare sarebbe stato lasciare libero corso agli stati d’animo, senza ipocrisie, fossero pure malinconia o tristezza. Era stato così sempre tra loro e quel giorno lo sarebbe stato ancora e di più. Ricordava una volte che Osvaldo si era lasciato con la sua Fulvia, e aveva preso a girare con loro, desideroso di sperimentare con la libertà conquistata un nuovo modo di vivere. L’inconcludenza del loro agire e dei loro discorsi, il distacco dalla realtà lo convinse a ripercorrere le strade conosciute, ritornò da Fulvia.

Dopo il saluto con Tarquinio si sedette sul muretto della piazza.  Dopo un tempo indefinito ebbe voglia di tornarsene in camera. Rifece la strada della mattina, c’era meno gente in giro, alla casa dello studente praticamente nessuno. Quella calma olimpica che gli era calata addosso nell’aula magna alla fine della discussione della tesi si increspava, sembrava lasciare il posto ad una sensazione di vuoto.  Il non sapere che cosa avrebbe fatto quel lungo pomeriggio d’estate non diventava un pensiero , non era ansia , nè gioiosa aspettativa . Se così fosse stato sarebbe caduto nel tranello di sforzarsi a vagliare le possibilità. Probabilmente ne sarebbero venute solo aspettative deluse o frustrazione. L’animo si dispose a lasciarsi andare ai ritmi e alle cadenze della sua natura e dunque la prima cosa da fare era quella di ritornare in camera. Agile, come sgravato dal peso dei pensieri di quegli anni, la mente cercò altra occupazione,   e cominciò a pensare a cosa sarebbe stato della sua vita da domani. Entrò nella camera , c’era ancora il profumo del dopo barba che aveva messo il mattino , il letto era rifatto ,i libri ancora aperti stavano sul tavolo. Si accorse con stupore che quel posto dove aveva vissuto, era poco più di una cella monastica, o un luogo di reclusione. Così era stato , ma ora era finita . Solo che il pensiero della fine non gli dette una sensazione di libertà , né di conforto , lo sentì come una privazione  come un distacco doloroso. Quell’ultimo anno era stato formidabile: la stesura della tesi, gli esami delle cliniche ad ottobre, i quattro esami del sesto anno ai primi di luglio. A colorare tutto c’era il sorriso di Luciana e la breve fiammata di Luana.  Si  inorgoglì , ma  durò un attimo , si fece strada sino a prevalere e dominare completamente , il dolore per l’abbandono di quella stanza e della vita che lì si era svolta. Quasi che tutto il resto non contasse ormai più nulla . Si mise a riassettare le  cose ,  tante.  Vestiti, libri e tutto quanto era servito  per la vita di studente.    Cominciò a trasportare le cose nella macchina di sotto, con lentezza. Il senso di vuoto che era subentrato alla calma olimpica delle ore precedenti si colorò di commozione e questa diventò pianto. Pianse per le scale mentre trasportava la roba di sotto nella macchina, pianse mentre riapriva la porta della camera per prenderne altra e continuare quella processione . Ma la commozione e il pianto non erano tristezza,  erano liberazione dell’anima, era dare un sussulto a quella condizione rarefatta , e irreale che lo aveva preso  dopo la fine della cerimonia. Aveva messo la radio a tutto volume tanto non c’era nessuno nel palazzo e la musica accompagnò quel pomeriggio . Finì che il giorno volgeva al termine, di lì a qualche ora sarebbe scesa la sera di un’estate languida come gli occhi di Luciana, ma lei non ci sarebbe stata accanto a lui. Era lontana , nella sua città, forse già al mare con i suoi.  Scese in portineria e lasciò la chiave all’accaldato portiere che non vedeva l’ora di andarsene a casa. Era anch’egli uno nuovo, lì da pochi mesi , così non gli chiese niente , perché non sapevano niente l’uno dell’altro. Si limitò ad apporre la chiave al suo posto, sul gancio in alto, accanto a tutte le altre.  Se la riguardò dalla strada la finestra della sua camera, mentre avviava il motore della 5oo, tirando la levetta accanto all’altra dell’aria che aveva già alzato . Era diventata parte di sé anche quella macchina , si era sentito grande quando c’era salito per la prima volta con la paura di sgraffiarla. Era diventato bravo a guidarla, nel passare dalla seconda alla prima riusciva  ad evitare  la doppia debragliata, sentendo il momento adatto alla manovra, dal rumore del motore. Ora la sua 500 blu metallico con il paraurti posteriore a maniglia alle estremità, e l’antenna lunga saettante al vento ,ora fissata al perno sopra lo sportello  lo stava portando via da lì, diretto a casa, nella sua città.   L’avrebbe trovato, doveva trovarlo, un modo per ritornare lì, in quel mondo che ora stava abbandonando. Senza l’ossessione degli esami e dei voti poteva  abbandonarsi alle pulsioni e alle fantasie della sua età, almeno per qualche tempo, per recuperare il vivere trascurato di quei sei anni. Ne  aveva compiuti da poco 25 anni, in quegli ultimi mesi ne aveva vissuto come un’anticipazione, promessa di un dispiegarsi come di mare che rompe gli ostacoli. Aveva conosciuto gente nelle Cliniche, c’era Federici che gli piaceva credere che lo stesse aspettando.   Poter navigare in quel mondo , allargare i suoi interessi oltre la Medicina: la letteratura, la politica,  che in quei sei anni non aveva coltivato come avrebbe voluto.  Ma sul tavolo, accanto ai libri di medicina aveva tutti gli autori del novecento letterario europeo:  l’Ulisse di Joice prima di tutti.   DIO se avesse potuto trovare il modo di conservare la sua camera….                          Qualcuno gli aveva detto che per chi strappava una qualche forma di contratto all’università poteva essere possibile . Ma per tutto questo occorreva tempo e denaro,  e lui dal giorno dopo non poteva contare più su niente, doveva trovare un sostentamento , la mamma non avrebbe potuto mantenerlo , era riuscita a farlo in quegli anni coadiuvata dallo Stato con il presalario, ora non più , non c’erano introiti in quella casa, il fratello era sposato e aveva una sua famiglia , si viveva di una misera pensione di reversibilità del marito morto ,di un magro affitto del piano  sotto di casa e dei risparmi realizzati a seguito della dismissione del lavoro del marito , ma erano passati 15 anni da allora, e si erano esauriti per vivere , per far studiare il figlio più grande fuori casa , la mamma non lavorava, aveva fatto sempre la casalinga . Ebbe chiaro più di sempre che lui dal giorno dopo avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, la situazione imponeva questo. E lì all’università dove era stato quei sei anni non era possibile , per lo meno subito. Per i voti riportati e le conoscenze sviluppate prima o poi sarebbe venuto un posto di lavoro ma non subito e non aveva nessuno che lo potesse mantenere nel periodo che sarebbe occorso , in più c’era sua madre , si aspettava qualcosa da lui , di fare quel salto liberatorio dal bisogno e di riscatto sociale , per tutto questo capiva che la soluzione di un lavoro nella sua città sarebbe stato l’evoluzione più probabile,  e d’altra parte posti di lavoro in ospedali e condotte o da medico di famiglia era facile raggiungerli, poi c’era anche il militare che aveva rimandato per non interrompere gli studi che aleggiava nell’aria incombente.   Prese giù per Casaglia, passando davanti il cimitero, ricordò che quell’ala  prospiciente alla strada, malignamente l’avevano battezzata con il nome di un chirurgo che non era ritenuto molto talentuoso. Sulla porta dell’abitato di Casaglia, quattro case in fondo ad un viale con pergolato d’uva, vide il suo collega Lello Lapalorcia abbracciato alla fidanzata di lì , lo aveva visto pochi giorni prima , gli aveva detto che aveva fatto le carte per sostenere l’esame wqm per andare in America una volta laureato: si sarebbe laureato ad ottobre. Che ne sarebbe stato di quell’amore?.    Nella discesa a precipizio che la strada fa per arrivare a Ponte Valleceppi girò gli occhi verso il piano terra di una casa colonica, guardò la finestra che lì si apriva e dietro alla quale c’era sempre una giovane donna al lavoro su una macchina da cucire.   Quell’attività a domicilio  che le grandi ditte affidano a casa risparmiando sul lavoro di fabbrica.  Quando Carlo percorreva quella strada per venire a Perugia e doveva sostenere qualche esame, doveva vederla quella ragazza intenta a lavoro, altrimenti  era un brutto presagio e rifaceva il giro e passava di nuovo li finchè lei non compariva, era in qualche modo una suo amore in assenza di altri , quel giorno non la vide e non aspettò che comparisse chi sa perchè. Attraversò il ponte sul Tevere che immetteva nell’abitato di Pontevalleceppi, il fiume era già grande in quel punto e aveva pensato che tra le cose da fare nella vita futura ci sarebbe stata quella di arrivare a Roma su una canoa partendo da lì. Passò davanti all’ufficio postale , dove si fermava per fare il bollo della macchina, lì a Pontevalleceppi, non nella sua città, gli sembrava in quel modo di allargare i confini del suo abitat, cittadino di tutto il suo mondo, in attesa di quello più grande che avrebbe conquistato.  Oltre si stagliava la grande gobba del Subasio, vi vide i contorni del viso di Enrichetta , improbabile traduzione di un nome americano. L’aveva incontrata in via Fabretti pochi giorni prima , lui stava tornando in camera, lei usciva da palazzo Gallenga, l’università per stranieri, una calda giornata d’estate verso le una del giorno,  mitigata dalla  frescura della pietre in ombra , una sensazione di piacevolezza, che favorì l’incontro. Era a Perugia per il corso estivo di lingua, da due anni in giro per il mondo , sarebbe andata presto in Israele per scavi archeologici, gli disse di raggiungerla là. Oltre Ponte San Giovanni cominciò ad intravedere Assisi,   stava tornando a casa, lo aspettava il fratello, il giorno dopo sarebbero andati a Roma dalla mamma.