Sono andato a trovarlo sul letto di dolorosa degenza.       Raccontava di sé, della famiglia, della sua casa.    In attesa di uscire, perché si sentiva bene.   E poi c’era quel viaggio da fare al santuario di padre Pio.      Ormai non ci credeva più, sentiva che era troppo tardi per andarci.    Ma se si fosse immerso nell’acqua miracolosa di altro luogo di devozione e di fede, forse gli sarebbe accaduto come a quella persona di cui gli avevano raccontato, che ne era uscita guarita.    Mi chiedeva certezze nel racconto minimalista del dolore addominale comparso negli ultimi giorni.   Lo nominava d’inciso tra i racconti del suo girare senza fatica, in corsia e nell’ospedale, e il salire le scale con meno affanno dei mesi scorsi.  Misi la mano di mestiere antico, accettata per quel motivo, sull’addome gonfio, ascitico, con il tumore che deformava i contorni e risvegliava dolore nel toccarlo.  Dissi, richieste, parole di conforto.     Sorrideva e gli brillavano gli occhi parlando dei suoi a casa.    Parole di rassegnata comprensione per quelli che in anni passati, prima del trapianto, forse non lo avevano curato bene.        Non sperava più in operazioni o nuove terapie, che erano state l’ossessione degli ultimi anni.     Era come volesse capitalizzare quello che aveva, lo stato di relativo benessere che dichiarava.      C’era da aspettare che sparisse la febbre che lo teneva ancora in ospedale e poi sarebbe tornato a casa.     E chi sa quel viaggio da Padre Pio….              Poi, dopo una settimana, mi arrivò una sua richiesta di amicizia su FB.     Non abbiamo avuto tempo per scriverci, non c’è più stato tempo sufficiente per scriverci.