Il Viaggio

di Marcello Paci

A Roma
Era uscito di casa in via dei Pastini che ancora non albeggiava in
quel giorno d’autunno che sapeva quasi di primavera. Prese per
via delle Paste, da lì in piazza S. Ignazio e dopo pochi passi si
ritrovò in via del Corso. Lo percorse verso l’Altare della Patria,
passò davanti la chiesa di S. Marcello.
Lui non frequentava le chiese, non le aveva mai frequentate. Gli
anni dell’adolescenza non avevano previsto per lui l’oratorio, ma
i cantieri di lavoro del padre e dello zio Silvio. Di più, l’aria che si
respirava in casa in Umbria, non era certo clericale. Il nonno
Attilio era nato quando il Papa stava ritirandosi in Vaticano, a
seguito dell’ingresso in Roma dei bersaglieri del generale
Cadorna, che posero fine al suo potere temporale. E quando fu il
tempo di prendere coscienza delle condizioni della sua classe di
appartenenza di operai e proletari, aveva aderito al nascente
Partito Socialista. Negli anni a venire gli uomini della famiglia
avrebbero fatto tutti la medesima scelta. Ma quella mattina,
passando davanti la chiesa di S. Marcello, Zeno avvertì l’impulso
di entrare. Lì per lì scacciò il pensiero, ma il passo, senza volerlo
si fece più lento, e quasi contro la sua volontà si volse verso la
breve scalinata che dava accesso al tamburo dietro il portale.
Poca gente anziana nelle bancate, per lo più donne. A destra, in
una cappella laterale, vide numerose persone, inginocchiate
davanti un Cristo Crocifisso, circondato da dovizie di candele ed
ex-voto. Sulla balaustra, una scritta per visitatori occasionali,
ricordava che si trattava di un Crocifisso miracoloso.
Raccontava che i romani vi si rivolgevano singolarmente per grazie
personali, e la comunità tutta per avere sostegno nelle calamità della
natura, nelle pestilenze, nelle guerre e nei saccheggi: ultima difesa
dall’odio degli uomini. Nelle occasioni più nefaste veniva portato in
processione per le strade della città, e la preghiera e i canti
accomunavano tutto il popolo, magari anche quelli causa delle
calamità, com’era accaduto in occasione del sacco di Roma da parte
dei Goti di Alarico. In quel frangente si vide una folla di romani e
barbari dietro altro simulacro. Allora si trattò di una reliquia che una
monaca difese con la propria vita dalle manacce di un soldataccio
barbaro e questi, confuso da tanto coraggio, consegnò la suora e la
reliquia ad Alarico, perché decidesse del loro destino. Questi, per
risposta, fece portare entrambi in processione per le strade di Roma,
insieme e davanti ad un popolo in preghiera di barbari e romani, uniti
dalla comune fede, quasi a suggellare l’indecorosa fine di Romolo
Augustolo, nascosto a Ravenna, e con lui dopo alcuni anni dell’Impero
Romano d’Occidente.
Zeno si ritrovò a guardarlo quel Crocifisso, con meravigliata
intensità, sembrava che gli chiedesse qualcosa. Ma cosa? Non
preghiere, non ne conosceva e comunque sarebbero state
estranee al suo credo socialista. Gli avevano insegnato a rigettare
la religione, trappola per i poveri, inventata per far sopportare
loro i soprusi, con la promessa di un mondo migliore dopo la
morte. Ma quell’uomo in croce sembrava ancora soffrire dopo
duemila anni, somigliava ai manovali più sfruttati dei cantieri.
Non riusciva a sentirlo estraneo o peggio nemico. Se ne andò un
po’ scombussolato, ma con qualcosa dentro che sapeva di nuovo,
di una nuova frontiera da esplorare prima o poi Pensò che
doveva ricordarsi in futuro di quel Crocifisso e di quella Chiesa e
per intanto si disse che al prossimo figlio dopo il primogenito
Tarquinio, e sperava sarebbe stato maschio come il primo,
avrebbe dato il nome di Marcello. Così come una cosa nuova, in
contrasto con la tradizione di rinnovare i nomi di quelli di casa, o
della moglie Regina, che per il primo figliolo aveva rinnovato il
nome del padre, morto in guerra.

Riprese il cammino verso piazza Venezia, l’appuntamento era lì, a
sinistra della scalinata dell’altare della patria, accanto i ruderi di
quella che era stata una porta d’ingresso al foro, porta Rotumnea
o Fontanilis, in prossimità del miglio aureo della via Flaminia.
Un tempo la strada consolare passava di lì, veniva dal foro e
proseguiva diritta in quella che fu chiamata nei secoli a venire via Lata,
e attualmente via del Corso.
Ora non c’era più traccia dell’antico selciato che forse giaceva sotto
l’asfalto, ma molte cose raccontavano ancora la Roma di quel tempo.
Come gli ambienti sotto la chiesa di Santa Maria in via Lata, all’altezza
di palazzo Doria-Panfili, un tempo cantina dei principi, ma prima,
abitazione-prigione dell’apostolo Paolo nel suo soggiorno romano in
attesa del martirio.

A quell’appuntamento, Zeno si recava per incontrare Silvio, lo zio
paterno. Li univa, oltre il rapporto di parentela e la comune fede
socialista, il lavoro nei cantieri. In quegli anni nella campagna
romana a costruire gli edifici che avrebbero ospitato Expo 42.
Socialisti, come scelta di campo, come consapevolezza della
appartenenza di classe, di adesione ideale ai principi, ma non
prassi quotidiana di lotta e opposizione al regime. Non ne
avevamo il tempo, la necessità del lavoro per il sostentamento
delle famiglie era prioritaria, poi la loro natura era lontana dalla
radicalizzazione delle posizioni, lasciavano ad altri, a coloro che
per censo e cultura potevano permetterselo, l’impegno totale. La
loro missione era quella di fare il lavoro di artigiani nel quale
erano stati educati. Nonostante tutto questo, un rapporto dei
carabinieri del loro paese in Umbria li aveva segnalati come
oppositori del regime. Se n’era accorto Zeno, per le lamentele
della zia Romelia, presso cui appunto, in via dei Pastini aveva
preso alloggio con la moglie Regina e il figlio Tarquinio. La
Romelia e il marito di lei Bernardo, lavoravano entrambi con
funzioni diverse presso l’albergo Anglo-Americano che sorge
vicino a palazzo Barberini e a via Rasella. Costoro non si
interessavano di politica, quindi avevano scoperto con
apprensione crescente alcuni individui aggirarsi nella strada a
chiedere informazioni sui nuovi ospiti del loro appartamento. Si
trattava di poliziotti in borghese, poliziotti che furono visti
guardare le finestre dell’appartamento e parlare con i
commercianti della strada su quella famiglia che dall’Umbria
aveva preso dimora lì. Non c’era nulla da scoprire, oltre
l’adesione ideale ad un partito avverso al regime. Iniziative e
prassi rivoluzionarie erano possibili per pochi, coraggiosi
certamente, ma anche privilegiati, che potevano astenersi dal
lavoro ed avere in altro modo i mezzi di sostentamento per sé e la
famiglia. Era ignoto a costoro il peso delle “caldarelle” sulle
spalle, con le piaghe che causavano, o i geloni sulle mani e sui
piedi, d’inverno. Cosi era stato per un certo tempo anche per
Umberto, padre di Zeno e fratello di Silvio. Aveva fatto la sua
parte, poi dopo un incidente sul lavoro, aveva preso a zoppicare e
il bastone era diventato suo compagno inseparabile. Dunque
aveva prima diminuito, poi cessato di lavorare e si era potuto
dedicare alla politica nelle città dei cantieri e poi nel suo paese
dove si era ritirato. Complice in qualche modo l’Angelina, la
moglie silenziosa, proprietaria di due campetti al paese, che con
il suo lavoro procuravano il sostentamento alimentare alla
numerosa famiglia, quando la muratura non bastava. Così
Umberto poté dedicarsi al partito di Turati e poi di Nenni. Al
paese gli fu affidata la sezione del partito, che poi fu a lui
intitolata. Quando morì, alle esequie fu letto da un compagno,
Mondo il barbiere, il telegramma che aveva mandato la direzione
del partito da Roma, con sotto in calce la firma di Pietro Nenni.
Il mestiere di muratore Zeno l’avevo appreso dal padre Umberto
ma soprattutto dallo zio Silvio, che aveva solo figlie e con quel
nipote si legò d’affetto e se lo portò dietro, in giro per l’Italia, nei
cantieri che seguiva da assistente della grande impresa Costanzi.
Manovale prima, poi muratore, dopo capomastro, infine
assistente ai lavori, questa era la carriera nell’edilizia e questa
avevano seguito quelli della famiglia, muratori da generazioni.
Anche Zeno avrebbe percorso quella trafila e per la vicinanza con
lo zio Silvio, pur non avendo risparmiata la dura gavetta,
percorreva le tappe più celermente del normale. Lo aiutava
anche una disposizione del carattere, fatto di pazienza, di ascolto,
di empatia che favoriva il rapporto con gli ultimi arrivati. Erano
loro a legittimare il ruolo gerarchico che aveva acquisito con
l’esperienza maturata accanto a Silvio.
Zio e nipote nei contatti che avevano avuto nelle settimane
precedenti avevano deciso che era tempo di tornare al paese, ma
si era nel corso di una guerra, il viaggio sarebbe stato lungo e
pericoloso.
In più quelli erano giorni difficili, la guerra, sconfitta dopo sconfitta,
aveva fiaccato l’entusiasmo iniziale della gente o meglio di quelli più
sensibili alla propaganda del regime, o per sincera adesione o per
tornaconto personale di affari e carriere. Il popolo da sempre
rimaneva in disparte, avvezzo a ritenere che le guerre fossero per loro
una calamità. Ma Mussolini sembrava uomo della provvidenza, sino ad
allora gli era andato tutto bene, aveva acquisito prestigio personale lui
e con lui l’Italia. C’erano state riforme sociali, il fenomeno drammatico
dell’emigrazione si era ridotto, la grancassa del regime pubblicizzava
le nuove terre e le ricchezze che quelle conquiste coloniali
promettevano. Nuova terra per i contadini veneti e meridionali, oltre
quella della bonifica pontina e di alcune zone della Sardegna e della
Basilicata. Per i più acculturati l’Impero solleticava orgogli nazionali,
sepolti per duemila anni e ora riproposti con fantasmagoriche parate
lunga via dell’Impero, dove erano stati posti bassorilievi raffiguranti le
regioni del mondo sotto il dominio di Roma, che lo stato fascista, senza
dichiararlo apertamente, sognava di riconquistare. E queste cose
facevano breccia anche nei più semplici, ancorché a livello emotivo,
subcosciente. Li facevano sentire partecipi di qualcosa di grande che
loro non capivamo bene, ma che in ogni caso prometteva benessere.
Contribuiva il sistema poliziesco con il quale il regime controllava i
cittadini, strumento di dissuasione efficace per prevenire
manifestazioni e comportamenti non in linea con il pensiero
dominante di allora. Poi però la guerra si era messa male, le batoste in
Albania, in Africa, infine in Russia avevano fatto perdere il sostegno
del popolo. Morivano gli italiani al fronte, e ora anche sotto i
bombardamenti dei nemici.
Zeno lavorava alla costruzione dell’Expo 42 ma con la guerra i
lavori furono sospesi e lui fu richiamato sotto le armi. Carrista in
Albania per la guerra contro la Grecia.
Laggiù c’era anche un fratello, si chiamava Alceste, fante al fronte.
La Regina e Tarquinio erano tornati al paese in Umbria, a Sigillo,
dalla mamma di lei che era bidella della scuola elementare e
telefonista del paese. Poi Alceste morì in combattimento al
fronte. Gli dettero anche una medaglia alla memoria, per lo
sprezzo del pericolo con cui era andato all’assalto di una
postazione nemica. La medaglia era di bronzo, come si addiceva
ad un figlio del popolo, per il quale non ci si poteva sprecare più
di tanto. Poi quando cambiò il regime, non fu nemmeno più il
caso di ricordare quell’onorificenza. Quel soldato morto era solo
un disgraziato che aveva combattuto dalla parte sbagliata,
soldato della guerra fascista e di loro era meglio non ricordarsi.
Una “damnatio memoriae” che oltre i capi, spesso sopravvissuti,
colpiva anche gli sventurati che ci avevano perso la vita.
Comunque con la morte di Alceste, Zeno poté tornare in patria, in
virtù di una legge che tendeva a preservare le famiglie da
eccessivi lutti. Chi sa quali motivazioni?
Forse per evitare rivolte, o un affievolimento dello spirito
patriottico, o ragioni economiche: non togliere braccia e fonti di
reddito alle famiglie.
Tornò in Italia, lo misero di riserva in una caserma presso
Civitavecchia, dove lo colse l’otto settembre. Gli ufficiali della
caserma uno dopo l’altro si dileguarono nelle settimane
successive, seguendo l’esempio del re e dello Stato Maggiore delle
Forze Armate. I soldati rimasti in balia di loro stessi, se ne
andarono a gruppi o da soli, Zeno fu tra gli ultimi. Riparò dallo zio
Silvio che aveva ancora una responsabilità nel cantiere interrotto
dell’Expo 42. Ma da ultimo avevano deciso il ritorno a casa.
Quando Zeno raggiunse di sera via dei Pastini per preparare la
roba per il viaggio era ormai ottobre inoltrato. Fu accolto con
timore e malvolentieri dalla zia Romelia che temeva fosse
diventato un clandestino quel nipote che lei sapeva militare.
Dalla caserma aveva portato con sé delle armi: una pistola e due
bombe a mano, le aveva nascoste nelle tasche del pastrano. La
mattina, come detto, si era alzato di buon’ora, ed era uscito senza
salutare i parenti che ancora dormivano e che non si sarebbero
doluti della sua assenza. Arrivò al luogo dell’incontro, lo zio Silvio
era già lì.
Poca gente in giro.
Attraversarono velocemente la piazza, passarono sotto il
famigerato balcone da cui si erano celebrati i trionfi del regime,
sino all’ultimo della dichiarazione di guerra che avrebbe portato
lutti e distruzione alla nazione. Bisognava farsi vedere in giro il
meno possibile, potevano incappare in pattuglie di tedeschi che
avevano occupato la città. “Che ne sarà” pensava Zeno “delle
nostre truppe ancora in servizio per la scelta coraggiosa dei loro
comandanti?”.
Non seppe darsi una
risposta, solo brutti presentimenti.
Presero per il
Corso diretti a Piazza del Popolo. Camminavano veloci per
allontanarsi quanto prima dal centro. Una volta superata Porta
del Popolo, si sarebbero trovati fuori dalle mura aureliane. Da lì
avrebbero proseguito lungo la Flaminia a piedi e magari con
qualche mezzo di fortuna per duecento chilometri, sino ad
arrivare a Sigillo, il loro paese. Zeno avrebbe riabbracciato la
moglie Regina e il figlio Tarquinio, Silvio la moglie Serafina e le
tre figlie. Passarono sotto i portici della galleria Umberto, di
fronte c’era palazzo Chigi con davanti la colonna dedicata a Marco
Aurelio. Raccontava un’altra guerra, quella vittoriosa dei romani
contro i Marcomanni ed altre popolazioni di barbari che
insidiavano il confine nord-orientale dell’Impero sul Danubio. Gli
sconfitti erano rappresentati ancora più giganteschi e feroci di
quanto probabilmente fossero nella realtà, a maggior gloria dei
legionari che li avevano battuti. Costeggiarono il grande palazzo
della Rinascente e proseguirono sino ad arrivare a Piazza del
Popolo. Si fermarono sotto l’obelisco centrale, solo un attimo, per
tirare fuori un po’ di pane e companatico dalla gavetta. Quel
tascapane che oltre ai soldati lo usavano anche i muratori con
dentro il cibo della giornata di lavoro. Silvio l’aveva preparato la
sera, ne dette un po’ a Zeno, ne prese un po’ per sé, e mangiando
continuarono la loro strada.
Un tempo la piazza che
stavano lasciando ospitava la chiesa, le dimore, gli orti degli
agostiniani in Roma.
La chiesa di S. Maria del Popolo c’era ancora, ma tutto il resto era
scomparso, per la ristrutturazione che ne aveva fatto il Valadier nel
settecento con la creazione della grande piazza centrale e della
prospicente salita del Pincio. Era scomparso in particolare il lungo
loggiato che circondava lo spazio centrale tutto affrescato dal
Pinturicchio e dalla sua scuola. Erano scomparse le dimore dei frati,
dove aveva soggiornato per alcuni giorni l’agostiniano Martin Lutero,
venuto a Roma presso la casa madre del suo Ordine, e fuggitone dopo
aver realizzato di non aver trovato ciò che era venuto a cercare.
Tornato a casa in Germania elaborò e poi scrisse parole pensate a
Roma e rimaste in bocca senza nessuno che volesse ascoltarle. Le
chiamò tesi e cercò in Germania chi potesse ascoltarle, forse il vescovo
di Wittenberg, la città del suo monastero. Ma per primi le ascoltarono i
principi tedeschi. Gutenberg con quella cosa che aveva proprio allora
inventato, le stampò.
E fu Riforma.
Fuori dalle mura aureliane
Attraversarono la porta e furono fuori Roma. Lì la Flaminia
continua diritta continuando l’asse viario del Corso, e corre
all’incontro con il Tevere che raggiunge dopo alcuni chilometri.
Zeno si volse indietro a guardare la città, cinta dalle imponenti
mura aureliane che il magister militum generale Stilicone aveva
provveduto a rinforzare per difendere Roma dai barbari, al
tempo dell’imperatore Onorio. Non ce n’era stato bisogno sino ad
allora, perché dopo Brenno nessuno aveva più osato, o meglio era
stato in grado, di minacciare la città. Neanche Annibale con la
capitale in ginocchio si era azzardato.
Zeno non
conosceva tutte quelle antiche storie.
Si chiedeva invece con quali macchine avessero tirato su le
pietre, magari a mano, ché la mano d’opera non sarà mancata e
comunque le avevano fatte solide: resistevano da duemila anni.
C’erano voluti i Savoia per buttarle giù in alcuni tratti, dopo le
cannonate di Porta Pia.
Nelle nuove aperture ci fecero passare le strade che andarono
costruendo dentro la città, in modo da farle assumere le sembianze di
una città europea, con anonima impronta torinese. Per il resto le mura
conservavano le antiche porte che davano passaggio alle strade
consolari. Queste partendo dal Foro collegavano il centro dell’Impero
con tutto il mondo conosciuto. Quella che avevano attraversato dava
passaggio alla Flaminia, consolare che percorreva il Lazio, l’Umbria,
per terminare in un primo tempo a Fano, Fanum Fortunae, nelle
Marche, e successivamente a Rimini, Ariminum, in Romagna.
La percorrevano, un tempo, le legioni della Repubblica e dell’Impero,
per conquistare il mondo. Le calpestarono poi le orde dei barbari che
posero fine al sogno, e dopo di loro altri eserciti, a spartirsi quello che
rimaneva dell’antica bellezza. Pellegrini infine a visitare i luoghi della
fede e le nuove pietre che riedificavano la perduta grandezza. E fu la
nuova Roma dei Papi sovrapposta ai ruderi imponenti del passato.
Dopo furono i palazzi umbertini e i recenti monumenti del regime.
Un’accozzaglia di stili architettonici che seguono il succedersi dei
tempi, e invece di disturbare fanno l’incredibile bellezza di Roma.
Poche parole tra loro mentre camminavano di buon passo.
La via lasciava le poche case che ancora raccontavano la grande
città alle spalle e si consegnava alla campagna ricca di buona
terra che Zeno aveva imparato a conoscere da bambino quando
seguiva la madre nei campi del lavoro.
Si fermarono a bere su una fontana sul ciglio della strada. Ce
n’erano lungo le vie consolari, da secoli, raccoglievano e
distribuivano l’acqua delle colline e dei monti intorno, servivano
per ristorare i legionari in marcia e poi i pellegrini che andavano
a pregare sulla tomba di Pietro e a ricevere la benedizione dal
Papa.
Silvio e Zeno indossavano
abiti da viaggio di velluto pesante con un pastrano sulle spalle
per la pioggia e la notte, scarponi militari Zeno e nelle ampie
saccocce le armi che aveva portato con sé. La folta capigliatura di
entrambi, che era un tratto genetico di quella famiglia, si
muoveva al vento che spirava da sud e minacciava di portare
pioggia. Corpi asciutti, muscolosi per via del lavoro, procedevano
agili lungo il ciglio della strada. Zeno precedeva lo zio Silvio,
gocce di rugiada bagnavano i suoi baffi. Piaceva alle ragazze,
Zeno, con i suoi baffi e il modo di camminare. E i calli sulle mani
di muratore non confliggevano con l’eleganza dei suoi modi e del
parlare. Per questo non si era sottratto a qualche avventura in
giro per le città d’Italia dove arrivava per il lavoro dei cantieri.
Poi aveva conosciuto la Regina e si era mantenuto fedele, anche
perché la consorte era donna gelosa e tosta, non sarebbe passata
sopra ad eventuali debolezze.
In un’occasione corse un serio pericolo. Erano arrivati in paese i
fratelli di una ragazza con cui Zeno aveva discorso in quel di Pisa
e sembra che lei soffrisse troppo, perché loro non si andassero ad
accertare delle intenzioni del quel fantasma umbro che era
transitato nella loro città. Capirono e se ne tornarono da dove era
venuti. Era comparsa già la Regina nella sua vita anche se non
erano ancora sposati. E comunque lei non ne seppe nulla e fu
meglio così, altrimenti di Tarquinio e del possibile Marcello non
se ne sarebbe fatto nulla, una pratica non esperita.
Ogni po’ incontravano uomini in bicicletta che andavano a Roma
per lavoro. Poche automobili con il peso sul tetto del gasogeno
che sostituiva la benzina. Passò anche una colonna di camion
militari tedeschi, diretti a Roma. Non si occuparono di loro,
transitarono oltre. I due si guardarono senza parlare, e tirarono
un sospiro di sollievo. Continuarono lungo la strada ed
arrivarono al Tevere.
Lì la Flaminia attraversava il fiume su un ponte rimasto lo stesso dai
giorni della battaglia tra Massenzio e Costantino: ponte Milvio.
Un tipaccio Massenzio, superbo e pieno di sé, aveva dalla sua il Senato.
Si era insediato da tempo a Roma, con la potente guardia pretoriana a
difenderlo. Si sentiva l’unico, il vero capo dell’Impero. Non così
Costantino, più concreto, riflessivo, lungimirante. Senza idee di
grandezza dichiarate o ostentate, ma quando fu il tempo le avrebbe
tirate fuori e che idee!
Da cambiare il mondo, meglio e più di quanto era riuscito a fare prima
di lui Diocleziano. Il regolamento di conti non andò bene a Massenzio.
Costantino ne fece strage e come raccontano di Annibale contro
Flaminio sul Trasimeno, da cui le acque del lago rosse per giorni del
sangue dei legionari, così fu del Tevere per il sangue dei pretoriani di
Massenzio.
Attraversarono il ponte e proseguirono lungo la strada che per
un lungo tratto correva lungo la sponda del gran fiume. Quando
furono nella zona del Foro Italico si imbatterono in un
camioncino dove stavano finendo di caricare legna tagliata nei
boschi circostanti. Si fermarono e chiesero al conducente
indaffarato se gli occorresse un aiuto, in cambio la richiesta di un
passaggio per il tratto che avrebbe fatto nella direzione del loro
camminare. Questi era diretto nella zona di Grotta Rossa.
Doveva portare legna ad un casale lungo la via. Salirono sul
camion, dietro, in mezzo alla legna, ché, davanti, accanto al
guidatore, non c’era posto. Era uno di quei camioncini a tre ruote
con la parte posteriore più ampia, aperta, dove si caricavano le
cose da trasportare, e davanti un abitacolo piccolo ricavato sopra
il motore che poteva ospitare il guidatore e poco più.
Così, solo un po’ occultati, erano comunque contenti, per il riposo
del corpo e la minore visibilità rispetto al camminare a piedi
lungo la strada. A destra il Tevere aveva smesso di correre,
perché si allargava in una sorta di lago artificiale a causa della
diga che avevano eretto poco più a valle. Vi si formava una grande
riserva d’acqua, che era anche una difesa della città in caso di
piene, come sovente era accaduto nei secoli passati prima della
costruzione dei muraglioni. A sinistra la strada correva a ridosso
di una rupe che si estendeva per chilometri in lunghezza. Era
evidentemente una scelta costruttiva degli ingegneri romani,
come a cercare un supporto roccioso cui ancorarla, infatti anche
in Umbria e nelle Marche si ritrovava quella cosa. Ma lì appena
fuori Roma la rupe era crivellata di anfratti e caverne che
lasciavano pensare ad un loro più antico utilizzo come ripari o
addirittura abitazioni di popolazioni primitive. Forse il selciato di
pietre cubiche della strada consolare ricopriva un tratturo
preistorico, via di comunicazione di quella antica gente.
Arrivati su un rettifilo comparve in lontananza un grosso casale
di tufo con altre costruzioni annesse che proiettavano la loro
ombra sulla rupe vicina. Il camioncino si fermò lì.
Nel casale di Grotta Rossa
Dal casale uscì un uomo basso e tarchiato che salutò il legnaiolo e
con l’aiuto di loro due presero a scaricare la legna e ad
accatastarla in una caverna che fungeva da ripostiglio. Avevano
guadagnato quel passaggio dando una mano al camionista e ora
al locandiere a sistemare la legna. Così furono invitati ad una
sosta per un po’ di ristoro. Seduti tutti e quattro intorno ad un
tavolo posto vicino al bancone che governava la locanda bevvero
vino e mangiarono pane con salsicce secche. L’oste era più
anziano di loro e mentre mangiavano prese a raccontare della
grande guerra che aveva combattuto da soldato. Raccontò delle
sofferenze, delle privazioni, dei morti intorno a lui. Si era salvato
fortunosamente, ed era tornato a casa scheletrito per la fame e il
freddo che aveva sofferto. Si era trovato nella rotta di Caporetto.
Gli austriaci con i tedeschi che erano venuti a dar manforte,
avevano attaccato con furia incontenibile dopo un
bombardamento micidiale dell’artiglieria. In qualche settore gli
italiani avevano provato a resistere, poi si verificò uno
sbandamento generale. Furono raggiunti, si difesero con le armi,
molti morirono colpiti dal fuoco ravvicinato, altri, tra cui lui,
furono fatti prigionieri. Li avevano portati in campi di
concentramento in Austria, erano centinaia di migliaia. Lì
continuarono a patire, come e più della trincea: fame e
privazioni. Trattati male dai carcerieri, e soprattutto dalla patria
che li considerava imbelli, e traditori. Così si proibiva ai familiari
e anche alla Croce Rossa di inviare pacchi viveri e altri generi di
conforto. Quelli che in qualche modo venivano mandati erano
fermati alla frontiera italiana. Morirono migliaia di uomini in
quei campi, prima che la fine della guerra consentisse ai
sopravvissuti di tornare a casa, malvisti dalle autorità. L’Oste
parlava e le parole uscivano con ardore come di ferita profonda
non guarita. Continuarono a raccontare di guerre, di quella
ancora in corso, di politica, che poteva essere cosa non prudente,
ma anche l’oste era socialista, così si abbandonarono a sognare il
futuro prossimo, ormai in pace, dove i loro ideali di pacifismo, di
fratellanza tra i popoli si sarebbero dovuti per forza realizzare.
Fumavano sigarette coloniali a buon prezzo, e la stanza si riempì
dell’odore profumato del tabacco. L’oste non sembrava voler
porre fine a quel cenacolo, era mattino, oltre le consuete faccende
di riassetto non aveva altro da fare e non c’era da preparare un
gran che in cucina, perché i clienti della locanda si erano rarefatti
in quel torno di tempo periglioso. Quando l’oste ebbe finito di
parlare, i due aspettarono in silenzio senza aggiungere altro, non
sembrava loro opportuno e gentile alzarsi, ringraziare ed
andarsene, se questi avesse avuto ancora voglia di stare con loro.
Passò qualche altro istante, l’oste si alzò dalla sedia e si mise a
riordinare il tavolo dove avevano mangiato, e mentre era intento
a questa faccenda disse loro che forse era opportuno che si
rimettessero in viaggio. Nel frattempo se n’era andato il
camionista che doveva tornare a Roma per altre incombenze.
Così anche loro si accomiatarono, ringraziando per il ristoro e
rimandando ad altra occasione, a Dio piacendo, quella gradevole
conversazione.
L’oste li salutò, chiese se volessero portare con loro qualcosa da
mangiare, ma questi rifiutarono. Avevano già profittato troppo
della sua gentilezza. Si salutarono da compagni socialisti, con la
speranza di un tempo migliore, quanto prima.
Lungo la Flaminia alla volta di Sacrofano
Ripresero la strada, accanto correva la ferrovia. Vi passavano
trenini della linea Roma-Viterbo che partivano dalla stazione di
piazzale Flaminio. Servivano ai pendolari che dal territorio
laziale si recavano il mattino a Roma per fare ritorno a casa, la
sera. La linea ferrata era stata costruita ai primi del novecento,
poi ammodernata negli anni successivi.
In ampi tratti i costruttori avevano utilizzato come basamento
dove stendere le rotaie il selciato della Flaminia, che si rivelò
essere di buona fattura e in grado di sostenere il traffico dei treni,
come ulteriore prova del valore degli ingegneri romani. Presero a
camminare sul ciglio della strada, il sole era ormai alto nel cielo e
le ore del mattino correvano, bisognava allungare il passo.
Quando sentivano rumori di camion in arrivo lasciavano la
strada e proseguivano per la campagna intorno.
Il paesaggio era piacevole a vedersi, l’avrebbero sentita e goduta
di più quella sensazione, se non avessero avuto da camminare
con passo alacre e con la preoccupazione di brutti incontri.
Dovevano anche essere pronti ad approfittare di qualsiasi
occasione che gli si fosse presentata per proseguire il viaggio con
altro mezzo che non fosse le loro gambe. Forse il treno che ad
intervalli regolari vedevano transitare vicino a loro, o una
vettura di qualsiasi tipo, magari come quella che li aveva
trasportati la mattina. Sarebbero passate anche delle corriere,
ma discorrendo di questa possibilità decisero che sarebbe stato
pericoloso salirci, più soggette quelle a controlli nelle fermate
canoniche. I tempi erano difficili con i tedeschi che stavano
calando in Italia dal Brennero ad aggiungersi a quelli già presenti
che si erano affiancati ai nostri per contrastare lo sbarco in Sicilia
e le altre possibili offensive sulla penisola. In più si sentiva
parlare di una ricostituzione del partito fascista e quelli che
aderivano avevano vendette da consumare e assoluta
intransigenza con coloro che avevano aderito al governo del sud
di Badoglio e del Re, o che comunque non si mostravano
entusiasti della ristabilita alleanza con i tedeschi. Nonostante
questi discorsi e i pensieri preoccupati che generavano non
potevano fare a meno di ammirare il lavoro nei campi ai quali i
contadini erano intenti. Raccoglievano l’uva ancora sui tralci
dopo l’iniziale vendemmia di fine agosto, erano grappoli maturi,
alcuni sbeccati dagli uccelli. E si sentiva nell’aria quando
passavano vicino ai casolari, il profumo del mosto che si
spandeva dalle cantine. Immaginavano le grosse botti di quercia
che cominciavano a ribollire e prima il gran lavoro dei contadini
sull’uva appena colta. A Zeno veniva in mente la figura silenziosa
della madre in cantina, intenta a riporre nell’ampio vascone l’uva
raccolta nel campo della Dorìa e in quello del Rosciolo, i due
campetti che le avevano lasciato i suoi come dote, quando si era
sposata con Umberto. Testarda nella scelta, nonostante le
avessero preferito il figlio di un possidente che la voleva in
moglie. Silenziosa, rispettosa ma testarda, e non ci fu niente da
fare, si prese il suo Umberto e ci mise al mondo dieci figli. Li vide
scomparire molti, uno ad uno, chi ancora bambino, chi in guerra,
gli altri a fare i muratori in giro per l’Italia. Chi poté venne a
morire sul letto della madre dove erano nati, e lei silenziosa li
accolse uno ad uno come quando erano venuti al mondo. Non
lacrime sul suo viso, ma schianti dentro che non facevano
rumore, solo aggiungevano una ruga in più, sino all’ultima
quando se ne andò anche Umberto. Sul far dell’alba continuò ad
andare nel campetto del Rosciolo quello più vicino al paese, sino
alla fine, quando le forze l’abbandonarono e rimase in casa in
attesa di ricongiungersi con i figli e Umberto di lì a poco.
Ma Zeno non sapeva tutte le cose che sarebbero accadute e che in
gran parte non avrebbe visto. La vedeva allora in quel giorno di
ottobre ancora giovane in cantina a pestare con i piedi nudi l’uva
raccolta nel vascone. Da un pertugio usciva il liquido colorato che
si raccoglieva in recipienti preparati lì accanto. Poi sarebbe stato
versato nelle grandi botti dove il mosto sarebbe andato
riempendosi di vita. Bolliva di felicità il mosto per sé e per il
conforto che avrebbe dato agli uomini. Una volta pronto sulle
loro tavole, avrebbe accompagnato il cibo, e nelle lunghe sere
d’inverno sarebbe sceso come balsamo nelle viscere, regalando
un tepore al cuore e alla mente che li avrebbe accompagnati al
breve sonno prima di iniziare il giorno dopo, la stessa fatica di
ieri. Zeno era il primogenito, il più amato, anche se l’Angelina non
lo lasciava vedere e quell’amore Zeno se lo portava addosso come
una coperta, sempre. Se lo portava addosso le mattine d’inverno
con la “caldarella” sulle spalle che lacerava la pelle, in guerra su
quei carri che i generali chiamavano armati ma erano poco più
che scatole di latta.
Una volta arrivato a Sigillo sarebbe passato da lei, dopo aver
abbracciato la Regina e il figlio, avrebbe salito le ripide scale che
portavano al cucinone, l’avrebbe trovata lì accanto al fuoco del
camino con quel lungo tubo di ferro forato in punta, con cui
soffiando attizzava il fuoco.
Lui l’avrebbe chiamata: “mamma come state?”, lei l’avrebbe
guardato e sottovoce, come un mormorio: “sei tornato!”.
Dentro, ad entrambi si sarebbe sciolto come un grumo di dolore,
il dolore della vita che in quel momento trovava ristoro.
Attraversarono Labaro e Prima Porta, costeggiarono il grande
cimitero sorto da poco tempo che raccoglieva i defunti non più
tumulabili nel cimitero monumentale del Verano.
Da quando avevano lasciato le mura aureliane, erano passati
davanti a due case cantoniere. Erano queste, postazioni dell’Anas
succedentesi qualche decina di chilometri l’una dall’altra che
ospitavano un cantoniere con la sua famiglia, a guardia e
manutenzione del tratto di strada affidata. Ricordavano le
mansiones di duemila anni prima che con analoga o forse
maggiore efficienza svolgevano lo stesso ruolo. Allora saranno
stati schiavi invece di stipendiati dello Stato.
Da un po’ la strada aveva abbandonato la rupe sotto la quale
aveva corso in quei primi chilometri e si affacciava sulla
campagna aperta circostante. Un territorio pianeggiante mosso
da bassi rilievi, non ancora colline, con casolari sparsi da cui i
contadini muovevano per il lavoro nei campi. Non grandi paesi o
città in quel territorio del Lazio che guardava a nord-est, come se
la vicinanza con Roma avesse impedito nei millenni la
costruzione di qualcosa che potesse competere o rivaleggiare con
la metropoli. E se ci avevano provato mal gliene incolse.
Bisognava arrivare a Civita Castellana parecchi chilometri più
avanti, per incontrare un centro abitato con dignità di cittadina.
Per intanto Silvio e Zeno continuavano a camminare alacremente
lungo la via e dopo meno di due ore arrivarono a Sacrofano
Malborghetto.
Sul treno della linea Roma-Viterbo
Avevano percorso in tutto venti chilometri dall’uscita di piazza
del Popolo. Non avevano incontrato nessuno lungo la via oltre a
qualche carro agricolo trainato da buoi e sopra contadini che si
recavano al lavoro nei campi. Quando sentivano a distanza il
rumore di mezzi meccanici, camion o autovetture, lasciavano la
strada prima del loro apparire. Ora arrivati a Sacrofano decisero
di fermarsi per riprendere fiato e pensare come proseguire.
Di lato alla strada correva la linea ferroviaria, e oltre, un
monumento dall’aspetto di un imponente casale. Non era un
casale ma una costruzione romana del IV secolo a.C., più
esattamente un tetrapilo, un arco tetra fronte, come l’avevano
battezzato gli archeologi. Un tempo al di sotto degli archi si
incrociavano due strade: la Flaminia e la Veientana. Poi nel corso
dei secoli, il monumento era diventato chiesa, poi residenza degli
Orsini in alternanza con i Colonna. Ancora, stazione di posta,
osteria, fino al suo recupero originario di pochi anni prima. Era
mattino inoltrato, Zeno e Silvio si fermarono a ridosso del
monumento per riposarsi un po’ e pensare a come proseguire il
viaggio. A pochi metri c’era la stazione ferroviaria, i treni
passavano sull’unico binario nei due sensi, alternandosi con
brevi soste nelle stazioni. Si avvicinarono alla stazione e
studiarono la situazione. C’era poca gente in giro, non militari o
chiunque altro avesse titolo per chiedere chi fossero e dove
stessero andando. Non erano malfattori, ma Zeno formalmente
era ancora un militare che indossava abiti civili. D’altra parte
quale era in quel momento l’autorità cui far riferimento? Il re se
n’era andato a Brindisi con tutto lo stato maggiore. Il Duce aveva
proclamato la Repubblica al Nord, e in Italia scorrazzavano
tedeschi e truppe alleate in guerra tra di loro. Così quelli che
avevano potuto, dismessi gli abiti militari, se ne stavano
tornando alle loro case.
Fortunati coloro che si trovavano nel territorio nazionale,
potevano trovare il modo di tornarsene o almeno provarci. In
quella generale confusione c’era il pericolo dei tedeschi che si
sentivano traditi e in più occasioni avevano dimostrato di non
essere teneri con i camerati di ieri, ora diventati traditori ai loro
occhi. L’editto di Badoglio era suonato oscuro su come le nostre
truppe si sarebbero dovute comportare. Era già arrivata qualche
voce su rappresaglie in Iugoslavia e nelle isole greche a danno
delle nostre truppe. E fresco era il ricordo di quanto era successo
poche settimane prima a porta san Paolo, con il sacrificio di un
distaccamento di nostri soldati con in testa i Granatieri di
Sardegna. C’erano anche un numero minore di Carabinieri,
Lanceri di Montebello, cavalieri del Genova Cavalleria e soldati
della Sassari oltre a civili. Si erano opposti all’ingresso dei
tedeschi in Roma. Alla fine dopo una battaglia strenua dovettero
soccombere Per tutto questo i nostri erano guardinghi, e poi
oltre i tedeschi, c’erano in giro sbandati e fuorilegge che in tempi
perigliosi proliferano. Le armi che Zeno portava con sé davano
loro un qualche conforto, un accenno di sicurezza, la possibilità
di un’estrema difesa, in caso di pericolo. O anche per qualcosa di
più importante. Videro passare il treno diretto a Roma, portava
poca gente nelle altrettante poche carrozze. Balenò nella loro
mente un pensiero: poca gente sul treno, una linea ferroviaria
secondaria, locale.
Si comunicarono il pensiero con gli occhi prima che con le parole.
Ci si poteva provare……
L’ora del mattino era tarda, chi doveva andare a Roma per lavoro
o altro era già partito da tempo. Aspettarono di vedere arrivare il
treno proveniente da Roma diretto a Viterbo. Avrebbero dovuto
aspettare perché il binario era unico e i treni sostavano nelle
stazioni per alternarsi.
Arrivò dopo circa un’ora.
A quel punto Silvio e Zeno si avvicinarono. La stazione era
piccola, un edificio basso con due aperture, una verso la strada,
l’altra verso i binari. Nella stanza una panca per il riposo degli
umani e su una parete un’apertura con davanzale, dietro stava il
bigliettaio. Oltre loro, nella stazioncina c’erano altre tre
persone, fecero con loro il biglietto dal casellante che fungeva da
cassiere e controllore del traffico, coadiuvato da un assistente
che si incaricava di abbassare le sbarre su una strada da presso
che attraversava il binario. Fatti i biglietti si sedettero sulla panca
mentre gli altri uscirono all’esterno ad aspettare il treno
arrivare. Dopo un po’ arrivò sferragliando, annunciato da una
campanella elettrica posta sotto la pensilina, gentile riparo per i
viaggiatori dal sole e dalle intemperie. Si aprirono le porte delle
tre carrozze, Zeno e Silvio salirono su quella di mezzo.
Nello scompartimento su un breve corridoio centrale si aprivano
quattro settori, in ognuno quattro posti.
Si sedettero, oltre loro due c’erano altre due persone, non
insieme, uno con una valigetta tipo quelle che portano i
rappresentanti di commercio e l’altro anonimo, dal volto tirato e
pallido. Dopo alcuni minuti si sentì il fischio del casellante che si
era avvicinato ai bordi del binario. Aveva indossato il cappello
rosso segno di autorità e del ruolo che lo accomunava agli altri di
tutta Italia che chiamiamo capistazione, e tutti si mettevano quel
copricapo quando si trattava di far partire il treno.
Quasi che il berretto rosso avesse come un potere autonomo, il
solo che poteva regolare il movimento dei treni e da esso
discendesse la dignità e il prestigio per coloro che erano chiamati
ad indossarlo. Semplici esecutori di una funzione stabilita
altrove, di cui il berretto rosso era il demiurgo. Così quando il
treno era partito e loro rientravano nella guardiola, si toglievano
il capello e lo riponevano con cura, pronto ad essere ripreso per il
nuovo treno in arrivo. Tutto era come la liturgia di una nuova
religione che aveva costruito i treni, le ferrovie, le locomotive a
vapore e poi elettriche: una religione laica della ragione, dello
sviluppo, delle realizzazioni umane progressive e mai dome. Ma
siccome il sacro che buttiamo dalla finestra della ragione, deve
rientrare perché radicato nell’anima dell’uomo, ecco che si
ripresenta con il rito. E quello del capostazione era un rito, e lui
un officiante, e quelli intorno, comunque coinvolti, i fedeli. E alla
fine di tutto il treno può partire come se avesse ricevuto una
benedizione. Filarono via tra campi e boschi bagnati da una
pioggerillina che cominciò a scendere da un cielo nuvoloso, con
ampi squarci di sereno. Nella carrozza si stava bene, non faceva
freddo, Zeno e Silvio posarono il pastrano sui sedili liberi e
presero qualcosa da bere e mangiare dalla gavetta, poi fumarono
sigarette. La ferrovia correva, per ampi tratti, accanto alla strada
che avevano lasciato per salire sul treno. Dal finestrino videro
passare alcuni camion militari diretti a Roma: erano tedeschi!
Dopo una decina di chilometri il treno si fermò in un posto
chiamato “la rosta”.
L’edificio della stazione era una costruzione massiccia tipo
fattoria di quelle che si incontrano nella campagna romana,
ingentilito da fiori sulle finestre, intorno non c’erano altre case.
Sporgendosi dal finestrino videro che al di là della stazione, dalla
strada principale, si dipartiva un percorso secondario per un
paese che non appariva alla vista: “Riano”. Non scese nessuno dal
treno, e nessuno salì. Il treno riprese ad andare, non un gran
correre, poco più di una passeggiata veloce. Era così, per le tante
curve, per la motrice costruita per il passo del podista, per il
tracciato che non sopportava velocità. Così chi aveva fretta si
innervosiva, altri no, contenti del trascorrere del tempo che li
liberava dall’impegno: come una vacanza dall’assurdità del fare.
Il territorio intorno era una “pianura mossa”, cioè non variava di
molto l’altitudine del percorso, ma questo si svolgeva in un
ambiente caratterizzato da continui rilievi collinari. Procedendo,
sempre più vicino appariva il profilo del monte Soratte,
imponente pur non essendo altissimo, perché intorno su quella
pianura c’era solo quella montagna a svettare verso il cielo.
Raccontavano che pochi mesi prima, Mussolini di ritorno da
Feltre dove aveva incontrato Hitler per un esame delle sorti del
conflitto, a bordo dell’aereo che dicevano guidato da lui, ma le
malelingue aggiungevano “sotto lo sguardo attento di un asso
dell’aviazione!”, appena sorpassato il Soratte, ebbe la visione di
un fumo in lontananza che saliva sul cielo di Roma. Nella testa gli
balenò un pensiero che divenne presto certezza: gli alleati
avevano per la prima volta bombardato Roma, nonostante il
Papa. Dissero poi che sbiancasse in volto, e forse fu allora che in
cuor suo pensò di abbandonare il fardello di quella situazione
insostenibile in cui si era cacciato. Di lì a poco avrebbe indetto la
riunione del Gran Consiglio del Fascismo che lo avrebbe
dimissionato e lui non fece niente per evitarlo.
Lasciata la località “La Rosta” il treno proseguì la corsa, arrivando
dopo pochi chilometri a Castelnuovo di Porto. Lì una nuova
fermata, e di nuovo in marcia sino a Morlupo. Erano salite altre
persone in quelle stazioni e sulla loro carrozza accanto ai due
saliti con loro a Sacrofano, ora sedevano una donna e davanti un
ragazzo, ciascuno estraneo all’altro. Sulla giacca del ragazzo
troneggiava un gagliardetto fascista. Il giovane, appariva
tranquillo, seduto composto, un po’ lontano ma difronte a Zeno e
Silvio. Portava con sé uno zaino pesante a giudicare dall’impegno
che aveva messo nel toglierselo e deporlo nel sedile accanto.
Faceva pensare ad un viaggio importante, forse lontano, con la
necessità di portare con sé il necessario per una autonomia di
non pochi giorni, come di uno che tenta altrove la fortuna della
vita. Egli abiti indosso puliti, i calzoni stirati con cura,
probabilmente dalla mano di una madre premurosa, i capelli ben
pettinati, con una riga da un lato, sì che quelli della parte più
lunga scendevano morbidi sul viso e lui ogni tanto li aggiustava
con un movimento della mano, come una carezza delicata. Tutto
parlava di una buona condizione familiare, di sentimenti con
quelli di casa. Dunque dove era diretto da solo, con quello zaino
pesante che sapeva di cosa dissonante da tutto ciò che traspariva
dalla sua persona?
Una donna da raggiungere, un lavoro
lontano da Roma, una sede universitaria, un viaggio?
Sedeva davanti alla donna che era salita come lui nella stazione di
Morlupo. Lei era una signora di mezza età, che si rivelò da subito
chiacchierina. Infatti cominciò a dire ad alta voce del tempo, della
pioggia, dei brutti momenti che si stavano vivendo, dei…
La carrozza era piccola, erano in sei persone lì dentro, anche se in
scompartimenti diversi, così le parole erano un invito ad una
risposta da parte degli altri, ma solo il ragazzo che le era seduto
davanti si sentì obbligato a rispondere con segni del viso
atteggiato a contenuti sorrisi e ad un leggero fastidio che
l’educazione non permetteva di palesarsi oltre il consentito.
Cosi appariva. Silvio e Zeno se ne rimasero tra di loro, così gli
altri due, ascoltavano senza parlare. Lei raccontava che doveva
recarsi a Viterbo da una figlia, sposata lì con il maresciallo dei
carabinieri della stazione locale. La figlia aspettava un bambino e
lei andava ad assisterla per il parto imminente. Ebbe sorrisi di
partecipazione anche da parte degli altri, ma evidentemente non
bastavano alla sua necessità di rapporto e avendo davanti a sé il
ragazzo cominciò a chiedergli dove fosse diretto lui, così giovane
con quello zaino. Non disse niente del gagliardetto sulla giacca
che forse non aveva nemmeno notato e che invece i nostri
avevano subito visto e la cosa li aveva resi più guardinghi. Alle
domande della donna, all’inizio il ragazzo rispose educato, ma a
mezza bocca, poi dietro le insistenze di lei rispose ad alta voce
udibile da tutti: “vado a raggiungere Mussolini a Salò”. Scese il
gelo nella carrozza, Silvio e Zeno fecero finta di non aver sentito,
così gli altri due, la donna fece un volto preoccupato e rimase in
silenzio. Lui continuò come parlando tra sé, come una
confessione, anche se a seguito della domanda della donna. “Vede
cara signora, sono diretto a Civita Castellana, mi devo incontrare
con un gruppo di amici tutti diplomati al Liceo Visconti. Ognuno
con mezzi diversi e da soli per evitare di dover rendere conto a
chicchessia. Confluiamo lì e poi andremo al nord dove il duce dopo
la liberazione dalla prigione del Gran Sasso, ha ricostituito il
partito fascista e ha fondato la Repubblica Sociale.”
Continuava a parlare pacatamente, come una dichiarazione
rivolta ai presenti che era ad un tempo riconferma per sé della
decisione presa. Ma il viso era triste, non c’era fanatismo o
entusiasmo, come se quel passo fosse frutto di una scelta
razionale, più che del cuore. Una cosa che andava fatta anche se
non ci si credeva fino in fondo, come una scelta morale, ideale,
senza un fine, senza la speranza di cambiare le sorti del conflitto.
Continuò rivolto alla donna che lo ascoltava un po’ sgomenta
senza la forza di dire alcunché. “Vede signora noi siamo stati
educati ai valori della famiglia, della patria, dell’onore, del
coraggio. Abbiamo visto con emozione crescente il nome e la
fortuna d’Italia tornare in alto al pari delle altre nazioni: queste
finalmente ci rispettavano. Abbiamo allargato i confini del paese,
la gente ha cominciato ad emigrare di meno in giro per il mondo,
spinti dal bisogno e dalla povertà.
I contadini hanno
potuto coltivare nuove terre sottratte al secolare abbandono,
oppure in quelle vergini d’Africa. È cresciuta una nuova gioventù,
con più entusiasmo, e fiducia nel domani.
Poi è arrivata la guerra e le cose sono arrivate a questo punto. È
crollato tutto, gli americani ci bombardano e ci invadono, i
tedeschi stanno occupando da nord il paese, il re ha tradito ed è
fuggito al sud a chiedere protezione a coloro con cui eravamo in
guerra. La gente sta perdendo tutto: le cose, i valori, la dignità, la
vita. Credo che sia il tempo per i giovani di prendere coscienza di
quanto accade e di scelte radicali. Noi abbiamo fatto un
giuramento di fedeltà e coerenza, non ce la sentiamo di rinnegare
quello in cui ci hanno educato e in cui abbiamo creduto, di
abbandonare quest’uomo che ci ha guidato nel bene e nel male,
osannato fino a ieri da tutti, ed ora da tutti vilipeso, noi restiamo
fedeli alla parola data. Altri nostri compagni di scuola hanno fatto
la scelta di andare sui monti e combattere dalla parte degli alleati,
hanno scelto così e a loro va il nostro rispetto, ci troveremo gli uni
contro gli altri ed eravamo tutti fratelli”.
Disse queste cose con tristezza, come consapevole della
inevitabilità di una scelta qualunque fosse. Per lui era di andare
dalla parte che ogni giorno che passava, si mostrava perdente, ma
a vent’anni si va a cercar la bella morte se quello è il nostro
destino. Scese un’atmosfera pesante nella carrozza, nessuno si
azzardò a dire nulla, più di tutti la donna dirimpettaio che
appariva quasi sconvolta, nemmeno il suo cuore di mamma
poteva muoverla a dire, così fu per gli altri. Il treno intanto
continuava il suo percorso alternando i tratti di contiguità con la
strada a quelli di inabissamento nei boschi circostanti. Arrivati in
prossimità di Rignano Flaminio riapparve il nastro d’asfalto con a
lato, per lungo tratto, il lastricato di pietre della originaria via
Flaminia, e l’asfalto spesso debordava a ricoprire quelle sante
testimonianze. Quasi metafora dei nuovi barbari che dal cielo e
dal mare del sud gli uni, dal Brennero gli altri, stavano invadendo
il nuovo ed effimero impero orgogliosamente e infelicemente
ricostituito, e di cui le parate militari di via dei fori imperiali
avevano celebrato i trionfi. La stazione successiva sarebbe stata
S. Oreste, poco oltre l’abitato. Da lì il treno dopo una decina di
chilometri sarebbe arrivato a Civita Castellana, il posto
dell’incontro dei giovani fascisti.
Nei pressi della città la Flaminia incrociava la Cassia.
Probabilmente quei ragazzi l’avrebbero percorsa per
raggiungere la Toscana e da lì il Nord.
Zeno e Silvio pensarono che avrebbero potuto trovare molta
gente in quella stazione. Ritennero che fosse più prudente
scendere a S. Oreste e una volta scesi ragionare su come
procedere.
Alla stazione di S. Oreste
Così fecero e con loro il giovane pallido che era salito con loro a
Sacrofano. Quando il treno ripartì, loro ancora sotto la pensilina,
videro lo sguardo del giovane fascista che li fissava, come un
saluto.
A Zeno sembrò di
vedervi espresso un dubbio, come un ripensamento, forse il
pensiero che sarebbe potuto scendere con loro e poi tornare a
casa.
Dopo Civita Castellana non ci sarebbe stato più tempo per
tornare. Zeno pensò, mosso dalla pietà per quel giovane, che
aveva sbagliato a stare zitto, avrebbe dovuto dire parole, tentare
di scalfire quella determinazione che non poteva essere granitica.
Magari era solo una infatuazione giovanile, una fascinazione che
avrebbe avuto vita breve.
Ma non lo aveva fatto, aveva avuto timore di non riuscire ad
entrare in sintonia con quel ragazzo così diverso da lui per
educazione e censo e tante altre cose. Era andata così, ormai non
si poteva fare più niente. Provò nel cuore una pena tenace, pensò
che non si sarebbe dissolta.
Il terreno era ancora bagnato,
ma il sole riapparso tra le nuvole brillava i prati di luce. Vicino si
ergeva la mole massiccia del monte Soratte, di cui la stazione di S.
Oreste era il riferimento ferroviario. Forse S. Oreste era il paese
che si intravedeva in alto tra le falde della montagna. Intorno
dominava la vista una campagna coltivata, a tratti collinare, in
continuità d’aspetto con quella che avevano fin lì percorso. La
presenza dell’uomo era discreta, non invadente, come rispettosa
del creato dove Qualcuno lo aveva posto. Non era ancora il tempo
della liberazione dalla colpa di aver mangiato l’infausta mela.
Quell’affrancamento sarebbe venuto dopo, ne avrebbe risentito
anche quell’angolo di mondo. C’era un viottolo immerso nella
vegetazione che si dipartiva dalla pensilina. Si capiva che era
parte della stazione, conduceva ad un servizio per le necessità dei
viaggiatori che erano scesi o che aspettavano il treno. Non cattivi
odori, grande civiltà, nonostante l’essenzialità della cosa: una
turca nel casotto che aveva un fermino metallico sulla porta
all’interno per l’intimità della persona. Un rubinetto che
immetteva acqua nel buco della turca per la pulizia dopo i
bisogni. Un sacco con polvere di soda bianca forse, o altro, per
cospargere il pavimento da usare dagli addetti.
Oppure da viaggiatori educati? Fatto sta che l’ambiente era pulito
e non maleodorante. La luce proveniva da una mini finestrella
chiusa sopra la porta, un’altra senza vetri in prossimità della
turca lasciava circolare aria nell’ambiente. Fuori una vaschetta
ad altezza d’uomo con un rubinetto per lavare le mani, reduci da
faccende necessarie ma non celebrabili. Davanti al casotto ma ad
una certa distanza un tavolo di pietra con intorno sedili sempre
in pietra, sopra un pergolato da cui pendevano grappoli d’uva
nera. A pensarci l’eden non doveva essere molto diverso da
questo luogo, nascosto in un anfratto, immerso nel verde della
natura, di lato ad un’anonima stazione di campagna. Anche se
molti, tutti, avrebbero detto, se gli fosse occorso di vederlo, che si
stava parlando semplicemente di un cesso. Lo avevano percorso
quel viottolo Zeno e Silvio, seguiti dal giovane pallido, intuendo
che alla fine della stradina avrebbero trovato qualcosa che aveva
a che fare con l’astinenza dal mattino dei bisogni corporali. Dopo,
si sedettero sul tavolo di pietra per ragionare e godere l’amenità
del posto e il cibo gratuito che i grappoli pendenti sulla testa
garantivano. Tirarono fuori dalle gavette ciò che era rimasto del
cibo, l’acqua la presero dal rubinetto a lato. Colsero l’uva e
misero tutto sulla giacca di Silvio posta amò di tovaglia sulla
pietra: il pasto era pronto.
Il giovane pallido che li aveva seguiti con discrezione, chiese di
sedersi con loro e mentre arricchiva il desco con parte delle sue
provviste, si presentò: “mi chiamo Domenico Ettorre, sono
studente di Medicina a Roma, la mia famiglia è di Leonessa di Rieti,
ho uno zio vescovo a Nocera Umbra, sto andando da lui.” Raccontò
che lo zio oltre che essere vescovo, era, o meglio era stato, un
personaggio importante della Chiesa, segretario dell’azione
cattolica nazionale, intimo di alti prelati del Vaticano, esponente
di una famiglia benestante. Nella sua missione o carriera, se si
vuole, era incappato nelle conseguenze del Concordato tra Stato e
Chiesa, che aveva inaugurato un nuovo rapporto tra l’Italia e il
Vaticano sino ad allora in conflitto. Era nota al regime la sua
vicinanza ai circoli antifascisti curiali, e la contiguità con il
partito popolare di don Sturzo. Fu chiesta dal governo la sua
testa, il cardinale Gasparri la concesse e zio Ettorre decadde dalle
sue cariche, in particolare da quella di segretario generale della
azione cattolica che di fatto fu soppressa e fu esiliato in periferia
a ricoprire il ruolo di vescovo nella diocesi di Nocera Umbra.
Nella nuova sede comunque continuò a segnalarsi per la coerenza
con i suoi principi che lo avevano allontanato da Roma. Domenico
era diretto lì, fuggiasco da una cartolina precetto che era arrivata
a casa dei genitori. Gli ingiungeva di presentarsi al distretto
militare di Rieti per essere arruolato. “Ma dove?” si era chiesto
Domenico” in quale esercito mi manderanno, in questo momento
in cui si sta sfaldando tutto? Arrivano i tedeschi dal nord, gli alleati
dal sud, il re fuggito con tutto lo stato maggiore a Brindisi,
Mussolini a Salò con la Repubblica Sociale.”
Così aveva
deciso di raggiungere lo zio vescovo a Nocera a chiedergli
consiglio e intanto nasconderlo nell’episcopio, sino a quando
fosse più chiaro cosa era bene fare. Era salito sul treno a Tor di
Quinto e dopo quel bel tratto di strada aveva deciso di scendere a
s. Oreste e proseguire a piedi. Era stato anche troppo imprudente,
non si fidava a continuare a farsi vedere sui mezzi pubblici,
temeva che qualcuno lo denunciasse, era un renitente alla leva.
Sapeva che in tempi di guerra poteva incorrere nella pena di
morte. Si sarebbe tenuto anche lontano dalle strade, aveva con sé
nello zaino delle provviste bastevoli per alcuni giorni, quanti ce
ne sarebbero voluti per raggiungere a piedi o con qualche mezzo
di fortuna Nocera. La fatica non lo spaventava, né le avversità del
tempo. Era giovane, si sentiva forte, d’estate amava camminare
per i monti dell’Appennino. Dunque: si poteva fare! Si era
confidato con loro, perché avevano l’aspetto di brave persone e
anche loro gli sembravano in fuga da qualcosa. Gli offrirono di
proseguire insieme, perché la strada da percorrere era la stessa,
ma egli declinò l’invito. Pensò che il suo passo era più celere
rispetto al loro, lo stare insieme avrebbe rallentato il suo andare
e da solo avrebbe fuggito meglio eventuali pericoli. Inoltre
credeva che da solo avrebbe dato meno nell’occhio. Queste cose
pensava e dopo essere rimasto a consumare il pasto, prese
congedo e se ne andò.
Zeno e Silvio finirono
di mangiare, stettero ancora un po’, poi decisero anche loro di
rimettersi in marcia. Zeno si voltò ad imprimere nella mente quel
luogo, vi aveva provato un senso di pace, come una pausa dai
pensieri che si agitavano nella mente, riguardavano i pericoli del
viaggio, le necessità alimentari e del riposo, e arrivati a casa, se
tutto fosse andato bene, cosa avrebbe trovato?
Negli ultimi mesi aveva potuto dare e ricevere poche notizie. Per
certo sapeva che in paese si era costituito un presidio di tedeschi,
e i giovani in età da cartolina di precetto si nascondevano per
evitare di essere arruolati e inviati a Nord nel costituendo
esercito della Repubblica di Salò. In paese si aspettava l’arrivo
degli americani che insieme agli alleati stavano risalendo la
penisola da Sud, dalla Sicilia dove erano sbarcati con Mussolini
ancora a Roma al comando, e da Salerno dove erano sbarcati il
giorno della dichiarazione dell’armistizio.
Infine avevano saputo che la gente del paese era in animo di
sfollare in montagna per evitare bombardamenti e rappresaglie.
Ma in quel breve momento di sosta si era dissolto tutto…
loro due, quel giovane con loro, il pergolato che offriva riparo dal
sole e cibo per il corpo, quel tavolo di pietra bianca che sapeva di
solidità resistente al tempo, come un messaggio di immortalità.
Cambiava colore e temperatura al volgere delle ore, come avesse
una sua vita, da quando qualcuno lo aveva tirato fuori dal fianco
della montagna dove dormiva. Quella fatica dell’uomo era poi
diventata arte nel sagomarlo e imbellirlo, togliendone le
impurità. Fu come averlo sottratto dal mondo inorganico e
consegnato al mondo dei viventi. Inserito in quel minimo angolo
di mondo, nascosto ai più, era come un gioiello che ingentiliva la
natura intorno.
Zeno aveva
sentito dentro di sé come uno sciogliersi di nodi, una sensazione
di benessere, come altra cosa, pausa, dal vivere quotidiano. Il
cuore e i sensi placati, il bisogno di lasciarsi andare al circostante
che ci avvolge, ci compenetra come in un abbraccio d’amore. Era
stato così al primo incontro d’amore con la sua Regina, o
nell’abbraccio con i compagni di sventura salvi da una granata
esplosa contro il loro carro armato, o quando aveva issato per la
prima volta il tricolore sul tetto della casa costruita. A Zeno
frullavano in testa quei pensieri, appena abbozzati, non aveva gli
strumenti per descriverli compiutamente, aveva fatto studi sino
alla sesta che era una specie di scuola media di oggi. Era stato
bravo, intelligente, il migliore di tutti, aveva compreso che c’era
un mondo di idee e sapere che lo attirava, ma estraneo alla sua
vita, alla sua condizione. Ciononostante la sua mente era pronta a
ricevere suggestioni, a cimentarsi con quelle, ad entrarci dentro
percorrendo tragitti propri.
Dunque si chiedeva se la sensazione provata in quel luogo e le
altre simili della sua vita erano semplicemente uno stato di
soddisfazione, la felicità di un momento, la liberazione da uno
scampato pericolo. Avvertiva che si trattava di qualcosa di più,
come un uscire dalle faccende della vita di ogni giorno, come
diventare altro da sé. Come liberarsi dalla gravità che ci schiaccia
sulla terra, sentirsi parte del tutto, animato dall’amore che
muove ogni cosa. Intuire che al di là della mente, era quello stato
d’animo la via da percorrere per la conoscenza.
Sulla strada verso località Sassacci
Da lì, dalla stazione di S. Oreste, la strada, per un lungo tratto correva a
ridosso della ferrovia, in qualche tratto quasi a sovrapporsi ad essa.
L’avrebbe abbandonata all’altezza di Civita Castellana. Per intanto si
rincorrevano come due amanti, in quel tratto di campagna viterbese.
Rari, massicci casolari di tufo nella campagna coltivata a cereali,
uliveti, vigneti e piante da frutto. Il nocciolo predominante tra tutte.
Intorno ai casolari isolati, pini dall’alto fusto con la chioma ad
ombrello, come si vedono a Roma, celebrati dalla musica di Ottorino
Respighi. Non ancora i pini d’Arizona che avremmo importato
dall’America a guerra persa insieme alla sovranità limitata e
controllata dagli americani. Come sarebbe stato della lingua, delle
canzoni, della musica, dei film. È sempre successo così il vincitore
vince con le armi, poi consolida la vittoria con la cultura, i costumi, e
tutto il resto, sovrapponendosi e poi emarginando quelli autoctoni.
Non così si comportavano i romani che infatti durarono un arco di
tempo millenario. Imponevano il latino come lingua ufficiale ma dove
trovavano una cultura avanzata consentivano l’uso della lingua locale
come il greco per l’Oriente. Lasciavano gli usi e i costumi, la religione,
le leggi dei conquistati. Addirittura assimilavano le divinità straniere
nel loro Pantheon. Anche per questo dominarono il mondo per così
tanto tempo. Dopo Rignano Flaminio Zeno e Silvio non incontrarono
per chilometri altri paesi. Quel tratto di territorio appariva deserto di
insediamenti umani oltre ai casolari della campagna. Il terreno era
leggermente rilevato rispetto al precedente come si trattasse di un
basso altopiano. Che’ infatti la strada sarebbe andata in discesa
quando più avanti avrebbe raggiunto il primo paese: Borghetto. Poco
movimento lungo la strada, i treni della linea Roma-Viterbo si
alternavano con saltuaria frequenza. Quando sentivano avvicinarsi il
rumore di camion o altri veicoli pesanti prendevano per la campagna e
si sottraevano alla vista. Spesso erano camion militari tedeschi. Si era
fatto pomeriggio inoltrato quando arrivarono al bivio per Civita
Castellana. Lì la Flaminia correva diritta verso nord-est passando
sotto un ponte della ferrovia che in quel punto si dissociava dalla
strada per raggiungere Civita e da lì Viterbo. Però nel luogo della
separazione, come un saluto, si distaccava dalla consolare un
diverticolo che seguiva per un tratto la linea ferrata per raggiungere
poi le case di Civita che si intravedevano sulla rupe di tufo che le
sorreggeva. Oltre proseguiva diretta all’incontro con la Cassia diretta
in Toscana sino a Siena e Firenze. Che meraviglia l’antico reticolo
viario disegnato dai romani!
Collegava l’Urbe con tutto il mondo conosciuto. Intersezioni viarie che
univano genti diverse, commerci e culture che si confrontavano e
integravano sino a formarne una sola che tutte riassumeva nel nome
di Roma. Dopo un paio di chilometri dal bivio arrivarono in località
Sassacci. Lì si fermarono presso una locanda a ridosso della strada. Era
scesa la sera, erano stanchi, i piedi gonfi dentro gli scarponi militari,
chiesero al locandiere se poteva ospitarli per consumare un pasto, si
accontentavano di quello che aveva.
Li fece entrare.
Il locale era ampio, delimitato da mura di tufo, grossolanamente
scialbate. Alcuni tavoli senza un preciso ordine, panche al posto delle
sedie, un bancone in un angolo, accanto una porticina che
presumibilmente dava su una cucina retrostante. Due finestre ai lati
della porta d’ingresso da cui filtrava il buio della sera che urgeva
dietro i vetri a catturare la fioca luce della penombra del locale. L’oste
giudicò che era ormai opportuno accendere un lume per rischiarare la
stanza, dette fuoco con un fiammifero allo stoppaccio che alzò sino a
raggiungere la lampada a gas che pendeva dal soffitto. Una luce
azzurrognola si diffuse per la stanza e ne ebbe sollievo l’umanità
raccolta e il mondo esterno che si riempì di speranza all’apparire della
luce trasmessa attraverso le finestre. La luce illuminò sulla parete
opposta all’ingresso una scala in legno che conduceva ad un piano
superiore. L’oste indicò loro una panca più lunga delle altre,
all’estremità della quale sedeva un altro avventore che dava mostra
anche lui di essere in cammino. Evidentemente l’oste non voleva
utilizzare altri posti che mostravano di essere stati già rassettati
pronti per l’indomani, vista l’ora che lasciava prevedere non altri
avventori per quella sera. Si rifocillarono mangiando pane e formaggio
e una zuppa di legumi, bevendo con parsimonia vino bianco. Il
compagno di tavolo era un giovane dalla carnagione scura, capelli
ricci, naso prominente, un’età poco oltre i vent’anni. Mangiava e
beveva silenzioso in quell’angolo del locale. Sorrise timidamente
all’arrivo dei due. Oltre loro non c’era altra gente nella locanda
trattoria. Zeno per natura estroverso gli rivolse parola e questi mostrò
come una gratitudine per quell’attenzione. L’oste viaggiava tra la
cucina e il bancone e da lì portava il cibo preparato per i nuovi clienti.
Era uomo, l’oste, basso e tarchiato con il volto rubizzo e una grande
pancia come di chi si abbandona all’abitudine del vino e di cibi
generosi. La campagna circostante era evidentemente generosa
dell’uno e dell’altro e forniva materia prima per quel negozio posto su
una strada di grande passaggio.
Pertanto era da presumere un
lavoro cospicuo, forse un po’ diminuito in quei tempi pericolosi, ma
bastevole per viverci bene. Poi non aveva a subire le minacce dei
malintenzionati, perché il regime tra i vari meriti che lui riconosceva,
si era mostrato meno tollerante con le devianze, e decisamente
repressivo con quelle delinquenziali. Era solito ripetere questa cosa
quando si parlava di politica e la suffragava con l’esempio del suo
esercizio al quale non erano mai occorse disavventure da parte di
gente che veniva a rapinare, o che, consumati i servizi, se ne andava
senza pagare. C’era cresciuto e ci si era invecchiato in quel posto il
locandiere, entrato lì da ragazzo come garzone. Si era fatto benvolere
dal padrone, lui nato in una famiglia numerosa nella campagna nei
pressi di Borghetto. Passo dopo passo lo aveva sostituito nel lavoro,
sino a diventare lui proprietario quando questi dopo una breve
vecchiaia era scomparso.
Non era sposato, viveva lì, dormiva al piano di sopra, in una stanza
accanto ad altre due che riservava per la sosta notturna dei clienti.
Aveva qualche donna del posto che gli dava una mano in cucina e per
le pulizie e anche per i suoi bisogni sessuali. Quest’ultimi si esaltavano
quando accadeva qualche accidente al passaggio delle quindicine in
transito per Roma o da Roma. Talvolta accadeva che si dovessero
fermare lì e lui offriva ospitalità in cambio dei loro favori. Erano
proprio una bella cosa, giovani e profumate rispetto alle villane con
cui aveva a che fare normalmente. Si innamorava pure ogni tanto di
qualcuna, e una volta una di quelle gli disse che avrebbe lasciato il
mestiere per poi venire a vivere con lui nella locanda. Giuseppe, così si
chiamava, le mandava regali del suo orto e della campagna vicina, nel
casino di via della stelletta, nei pressi del Pantheon. Con tutto quel ben
di Dio ci mangiavano tutte, la sua amata e le compagne, negli intervalli
di lavoro. Poi Lisa, questo era il suo nome, ebbe pena di lui. Quel suo
dire che avrebbe lasciato il mestiere e lo avrebbe raggiunto lassù a
Sassacci era una bugia. L’aveva pensata spinta da un moto di
gratitudine e tenerezza per quell’uomo. E dopo l’aveva anche detta la
bugia, per farlo contento. Ma ora le sue compagne, parlando tra di loro,
lo prendevano in giro, lo trattavano da gonzo e non bastavano i regali
che mandava regolarmente a rabbonirle ad essere meno infami. Lisa
ebbe pena di lui e gli scrisse che non doveva più mandare niente, che
tanto lei non sarebbe mai andata da lui. Lo scrisse e mandò la lettera
ma sentì come un dolore nel petto. Ritirare la sua mano da quella,
aperta e in attesa di lui, che aveva provato un sentimento per lei. Un
sentimento nato come un fiore nell’oscurità. Lo aveva donato quel
fiore un uomo rozzo, non bello, mosso dal bisogno sessuale. E una
volta era accaduto che, consumata la voglia, sul viso di lei, inaspettata,
la mano di lui si era mossa in una carezza. Quella carezza era
un’offerta d’amore. Ora lei aveva stracciato quel sentimento e si era
preclusa la possibilità di una vita diversa. Pensò che non avrebbe
dovuto scrivere quella lettera, ma ormai era fatta, non doveva pensarci
più. E così fece.
Il giovane che sedeva in fondo al tavolo fu invitato ad avvicinarsi a
loro. Dopo i convenevoli di rito, rapidamente s’instaurò un’atmosfera
amichevole che diventò occasione di comunione. Così Davide, era il
suo nome, prese a raccontarsi. Veniva da Rodi, era riuscito ad
imbarcarsi sull’ultima nave che riportava in patria parte della
comunità italiana dell’isola. Questa constava di circa ventimila
persone, oltre un terzo dell’intera popolazione. Gli italiani erano
cominciati ad arrivare nel 1911 dopo la guerra vittoriosa con l’impero
turco, che assegnò all’Italia le isole del Dodecaneso oltre Rodi. Poi il
regime fascista aveva promosso una campagna di italianizzazione che
portò altra gente nelle isole e programmi di grande sviluppo agricolo e
civile, con messa a cultura intensiva dei grandi latifondi sottratti ai
turchi, eliminazione della malaria, riforma del catasto, scolarizzazione
ed altro. Ora diffusasi la notizia dell’armistizio dell’otto settembre, si
temeva l’ostilità dell’alleato tedesco tradito, cosi chi poté s’imbarcò.
Era rimasta una guarnigione militare, in attesa di ordini che all’inizio
vennero contradditori e poi più nulla, come per i più numerosi
commilitoni della divisione Aqui a Cefalonia, e per quelli a Corfù e
nelle altre isole. Tutti dovevano affrontare le medesime incognite. La
sua famiglia ebrea aveva un commercio esclusivo di articoli per uffici e
scuole e a seguito di questo privilegio o per sincera fede politica erano
sostenitori del regime fascista. Una condizione comune a molti della
comunità ebrea locale e nazionale d’Italia, che si sentiva legata al
paese per la quale aveva combattuto con sacrificio ed abnegazione
nella Grande Guerra . Le leggi razziali del trentotto avevano solo
scalfito la fede. Pensavano e dicevano tra di loro, che il Duce le aveva
dovute promulgare per accontentare l’alleato, ma da noi non sarebbe
successo niente per la gente comune. Sarebbe bastato comportarsi
bene e non sarebbe successo nulla. Non era stato così: le scuole
proibite, i professori allontanati, e infine le deportazioni.
Sopportarono tutto, d’altra parte cos’altro potevano fare?
Molti pensarono che in fondo stavano peggio gli ebrei in Germania e
negli altri paesi d’Europa, anche quelli in Francia che se potevano
fuggivano dai tedeschi e dai francesi di Vichy e riparavano in Italia,
l’Italia fascista di Mussolini dove trovavano un riparo più sicuro.
Raccontava queste cose Davide e aggiunse che era diretto ad Ancona
città di antica accoglienza per gli ebrei. Al tempo del Papato quando fu
deciso di raccogliere gli ebrei dello stato pontificio nei ghetti di Roma
ed Ancona, alcuni della sua famiglia si erano stabiliti lì e lì erano
rimasti. Dopo tanti secoli i discendenti di quella famiglia erano ancora
in Ancona e lui intendeva raggiungerli per avere riparo. Non era
sposato, i suoi anziani genitori non avevano affrontato il viaggio, non
se l’erano sentita. D’altra parte si pensava che data l‘età avanzata non
avrebbero avuto a soffrire dai tedeschi se questi si fossero sostituiti
agli italiani nell’isola e nelle altre del Dodecaneso. E poi gli alleati
avrebbero vinto la guerra in poco tempo quindi non c’era da temere
molto. Comunque fosse andata, il mondo nel quale lui era cresciuto era
destinato a finire. Chi sa che ne sarebbe stato degli italiani e dei loro
privilegi in quelle isole?
Era bene che Davide costruisse la vita altrove, i genitori l’avevano
convinto a partire per raggiungere i parenti ad Ancona.
Non doveva pensare a loro, se la sarebbero cavata in qualche modo.
Così gli dissero, ma altri foschi pensieri non diventarono parole.
Arrivarono comunque al cuore di Davide che salutandoli ebbe la
certezza che non li avrebbe più rivisti.
Dominò la commozione e solo quando la nave si staccò dal molo e loro
diventarono progressivamente due punti indistinti, si lasciò andare ad
un pianto irrefrenabile.
Era sceso il buio sulla locanda, per quella giornata il cammino era
arrivato al termine, occorreva il riposo della notte per ritemprare il
corpo alle fatiche del nuovo giorno.
Zeno e Silvio si erano alzati all’alba avevano percorso a piedi, con il
camioncino e il treno, un bel tratto di strada, ora erano stanchi ma
contenti che tutto fosse andato bene. Chiesero all’oste un posto per
dormire e cosi Davide. Fu data loro una camera con tre lettini al piano
di sopra. Andarono a dormire, si sarebbero alzati alle prime luci
dell’alba.
Cantò il gallo quando era ancora buio, dopo, una pallida luce filtrò
dalla finestra della camera. Era l’alba, Zeno era già sveglio, si accinse a
svegliare gli altri. A turno raggiunsero il bagno in fondo al corridoio,
c’era un lavandino e una specie di buiolo per i bisogni corporali.
Uscirono di lì dopo essersi lavati il viso e rassettati i capelli.
Controllarono che la barba non fosse troppo lunga da ingenerare
sospetti in occasionali incontri con militari o polizia. D’altra parte si
limitarono a constatare, perché non avevano nulla con loro di arnesi
da barbiere. Una volta vestiti, Zeno si affacciò dalla finestra.
Silenzio intorno, cielo coperto, minaccia di pioggia, nessuno lungo la
strada. Scesero da basso, l’oste preparò per loro del formaggio e del
latte, a parte, un orzo scuro appena filtrato con i fondi galleggianti
nella tazza. Pagarono il conto, ognuno di alcune decine di lire, uscirono
in strada.
Verso il ponte sul Tevere
Poche case intorno, basse, ad un piano, ognuna con un giardinetto
davanti e un orto dietro. Presero a camminare. Dopo cento metri
trovarono una deviazione che indicava il raccordo con la Cassia,
proseguirono lungo la loro strada. La pioggia fine prese a scendere e
progressivamente rese il selciato fangoso, gli scarponi si ricoprirono
ben presto di un induito grigiastro dato dalla terra bagnata. Si
coprirono il capo con un cappellaccio che tirarono fuori dallo zaino. Di
lato alla strada incontravano, ad intervalli irregolari, dei capanni,
grandi come un’edicola che l’Anas aveva approntato come deposito di
materiali. Si riparavano e sostavano lì per un pò, quando la pioggia si
faceva più fitta. Giusto il tempo per accendere un fuoco in un angolo
del locale adibito a braciere, per asciugare loro e gli abiti prima di
riprendere il cammino.
Invece a più lunghi e regolari intervalli, avevano incontrato il giorno
precedente e anche quella mattina, subito dopo aver lasciato Sassacci,
le case cantoniere con le mura dall’intonaco rosso.
Si cominciavano a vedere già a distanza le case cantoniere, e i colori di
rosso pompeiano e bianco travertino riecheggiavano passate grandezze,
forse anche per questo erano stati scelti quei colori. Sovente, sul
davanti, pini alti con una larga chioma, di quelli che si vedono nei parchi
di Roma, accanto, un garage per il riparo dei mezzi meccanici. Dietro la
casa, un forno, un orto e un pollaio per gli animali da cortile. Servivano
alla vita del cantoniere che con la sua famiglia viveva lì, quella era la
sua casa. Stavano lungo le strade d’Italia le case cantoniere. Sul muro
era disegnato un rettangolo bianco dove si leggeva il nome della strada,
il numero della statale cui quella corrispondeva, la distanza in
chilometri da Roma. Su tutto troneggiava la scritta Anas, l’ente che
sovraintendeva la gestione delle strade statali e che aveva eretto quella
costruzione. La semplicità della forma e l’assolutezza del colore
comunicavano un senso di forza, di sicurezza, di autorità severa, ma
anche vigile e protettiva. Rimandava al viaggio di uomini affrancati
dalla barbarie, che nella loro scoperta di sé e del mondo, trovavano sul
cammino i segni di altri precedenti passaggi: pietre accatastate per
delimitare uno spazio di sosta o di preghiera o per porre fine al viaggio
con un ultimo respiro. Un testimone, qualunque significato esso avesse,
che dava a quelli che sarebbero seguiti, forza per proseguire il cammino,
e placare l’angoscia dell’inconosciuto. Lo avevano raccolto quel
testimone generazioni dopo generazioni e lo avevano portato oltre. Le
case cantoniere raccontavano tutto questo e anche altre infinite cose,
quante albergano nella mente e nel cuore degli uomini. Prima delle
attuali c’erano state le mansiones e le mutationes romane. Anche
allora c’era un ente che governava le strade dell’Impero. Dalla Gran
Bretagna al deserto libico, dal Portogallo all’Armenia e a tutte le terre
poste dai romani sotto l’impero del diritto e della civiltà. Tutto era
cominciato all’alba della nostra storia con le strade che partendo dal
Foro raggiungevano le città della Sabina, poi dell’Italia, infine del
mondo conosciuto. La Flaminia, l’Appia, la Cassia, l’Aurelia, l’Emilia, la
Valeria, e tutte le altre, pavimentate le più, con pietre di basalto, levigate
dai passi dei legionari e delle genti, con profondi solchi ai lati per
l’infinito passaggio dei carri. Le case cantoniere raccontano anche
questo, e accarezzano il desiderio di fermarsi per rinfrancarsi, prima di
riprendere il viaggio della vita. Ora giacciono abbandonate e cadenti su
strade non più percorse. La vita è esplosa altrove. Nei momenti di
stanchezza del vivere ripercorriamole, ci racconteranno le favole delle
veglie notturne nascoste in qualche parte della memoria.
Dopo circa un’ora di cammino arrivarono in prossimità della località
Borghetto, la strada era in leggera discesa e abbandonato il bosco fitto
di querce nel quale era immersa, si apriva ad una grande pianura dove
scorreva magnifico il Tevere. ll paese di Borghetto sorgeva ai margini
della pianura dove finiva il rilievo boscoso.
Quasi a giustificare una funzione di guardia della strada e di quanto
accadeva in lontananza nella pianura. Sull’ultima asprezza della
collina, a dominare il paese e la strada si ergeva una rocca in rovina,
ma con le mura perimetrali in parte intatte e che secoli addietro
doveva apparire maestosa e un po’ sinistra. Forse nella fantasia di
viaggiatori acculturati avrebbe potuto rievocare la dimora
dell’Innominato di manzoniana memoria di quella parte del Lazio. Il
paese sottostante, una decina di case in tutto, delimitava a destra la
strada che a sinistra aveva, in alto sulla rupe, la rocca.
I tre stavano quasi arrivando alla prima casa, quando, dietro la curva,
videro, non visti, soldati tedeschi. Tornarono indietro e decisero di
salire per un tratturo, nascosto tra le piante, sulla rocca. Si
appollaiarono dietro un muro che presentava delle fenditure, dalla più
piccola di queste, in modo da guardare e non essere visti, scrutarono
cosa succedeva. Prima di riuscire a rendersi conto della situazione,
pensarono che poteva trattarsi di un posto di blocco, o di truppe di
passaggio che si erano fermate nello spaccio a fare provviste.
Quando riuscirono a vedere bene, notarono una decina di camion
militari fermi sulla strada, di questi, uno si era portato nel piazzale
davanti allo spaccio del paese. Intorno, una ventina di soldati che
armeggiavano sul camion, forse a riparare un guasto. C’erano anche
alcuni civili, probabilmente locali, che i tedeschi trattavano con modi
bruschi e autoritari. Avevano aperto il cofano motore, da quello saliva
del fumo bianco, i civili si alternavano a portare stracci ed acqua.
Dopo circa un’ora il guasto sembrò essere stato riparato e la colonna
militare si mise in viaggio verso Roma. Avrebbe ripercorso la strada
che loro avevano calpestato poco prima. Chi sa come sarebbe andato
l’incontro se non avessero avuto il tempo di tagliare per la campagna?
Davide, a quel pensiero sentì correre un brivido lungo la schiena.
Ma forse non sarebbe successo nulla. Quei soldati sembrava avessero
fretta, magari, poveracci anche loro, correvano all’appuntamento con
la morte. Probabilmente erano diretti al nuovo fronte che si era aperto
in Italia contro gli anglo-americani e i loro alleati. Neozelandesi,
australiani, canadesi, indiani, marocchini: quest’ultimi sarebbero
diventati tristemente famosi. Tutti a risalire la penisola verso il nord. I
tedeschi dovevano anche fare i conti con la popolazione, con la sua
reazione dinanzi all’invasione che stavano attuando. Si erano già
verificate le prime sacche di resistenza ad opera di militari regolari,
com’era accaduto nei giorni successivi all’armistizio. Il più drammatico
e simbolico, la difesa di Roma consumatasi a Porta San Paolo.
Sbarrarono il passo ai tedeschi che si accingevano ad entrare nella
capitale. Cosa li avrà spinti al gesto eroico, destinato all’insuccesso,
isolati e abbandonati dagli alti comandi, dal re, e dal nuovo governo
presieduto da Badoglio?
Loro lì per obbedienza alla bandiera e all’onore, e quegli altri fuggiti a
Brindisi. Dicevano per organizzare il nuovo stato, o forse e più
semplicemente, per salvare la pelle.
Quelle mura erano state violate una sola volta nella millenaria storia di
Roma, ad opera di Brenno e dei suoi Galli Senoni, la volta successiva
dopo ottocento anni erano stati i Visigoti di Alarico a penetrare nella
città e porre fine all’impero romano di Romolo Augustolo. Poi ci
sarebbero stati tutti gli altri da Totila a Carlo V, sino all’ultimo, il
nonno del Savoia fuggito a Brindisi.
Come redivivi centurioni romani, i granatieri e i loro commilitoni si
opposero all’ex alleato, senza più la forza di gettare oltre le linee
l’insegna per sbaragliare gli attaccanti nel tentativo di riprenderla. Ma
il gesto servì per salvare l’onore di un popolo sconfitto e sbandato.
Ma Zeno ebbe un moto di commozione anche per quei soldati tedeschi,
alcuni dai visi ancora imberbi. Questi erano stati i più arroganti con i
civili costretti ad aiutarli: chi sa perché?
Forse l’educazione ferrea di quel regime dispotico li aveva resi
fanatici, oppure il timore di non essere all’altezza di un compito non
adatto alla loro età, di più la paura inconfessata della morte. Loro non
avrebbero saputo dire, non potevano, e poi non avrebbero avuto
tempo e modo: sarebbero caduti i più, sui campi di battaglia che
avrebbero ancora calcato prima dell’armistizio finale. Non sapevano
che la storia li avrebbe condannati all’ignominia, al marchio di
torturatori, tutti, anche quei ragazzi imberbi, anche quelli, che due
anni dopo si sarebbero opposti, adolescenti, ancora più imberbi, alle
armate russe che avanzavano nel centro di Berlino. Si sarebbero
immolati nell’estremo sacrificio intorno al loro duce, asserragliato nel
bunker della cancelleria. Di lì sarebbe uscito un’ultima volta per
passarli in rassegna e gratificarli di una medaglia e di una carezza, per
poi suicidarsi in modo da sfuggire alla cattura e uscire alla grande dal
teatro della storia. Quell’epopea di lutto, distruzioni ed immani
sofferenze avrebbe avuto il marchio del male assoluto, e in quella
condanna non si sarebbe salvato nessuno, né i carnefici dei tanti
olocausti, né i condottieri delle tante battaglie vinte, ma mai esauste.
Ce n’era sempre un’altra da ingaggiare, senza fine, sino al delirio e alla
catastrofe finale. “Got mit uns” recitavano i soldati tedeschi sui campi
di battaglia d’Europa, d’Asia e d’Africa, e così in altra lingua e per un
Dio diverso i camerati giapponesi dell’estremo Oriente. Quella
bestemmia cosmica avrebbe decretato la loro fine. Ma come sempre
nella storia, l’assolutezza di quel delirio di conquista che aveva
mutuato dal superomismo nicciano la sua linfa, ebbe termine nel
Valhalla finale, punto d’arrivo di quella storia di morte e distruzione.
Ma quel fuoco è destinato a propagare intorno un bagliore nefasto che
non si dissolve, che suona condanna, ma diabolicamente esercita un
fascino perverso che sta lì, pronto a storicizzarsi di nuovo, non si sa
quando o dove. Perché potrà accadere che le conquiste e il benessere
della ragione sarà offuscato dalla tormenta dell’indicibile,
dell’irrazionale. Appariranno di nuovo angeli fiammeggianti in cielo
ad invocare nuove vittime ed olocausti al dio della guerra.
Non così gli italiani, estranea loro, quella determinazione luciferina a
rincorrere un’idea di onnipotenza e dominio sugli altri. Forse eredi di
un passato glorioso, diluito e ammorbato dai secoli frapposti, senza
più il vigore e la fame di chi si affaccia da breve tempo alla ribalta della
storia. Appagati da tanta antica grandezza e frustrati dai tentativi
infruttuosi di riproporla nei secoli a seguire.
Ora il fascismo ci aveva di nuovo provato, ma usciti dal cortile di casa,
le parole roboanti si erano scontrate con l’acciaio dei mezzi e degli
uomini contrapposti, ed era stato disastro.
Zeno, Silvio e Davide, partiti i tedeschi, ripresero il viaggio. Circospetti
scesero dalle mura del castello e raggiunsero il paese sottostante di
Borghetto. Alcuni del posto avevano fatto un crocicchio nello spazio
antistante lo spaccio di generi alimentari e merceria. Discutevano dei
tedeschi di poco prima, c’era ancora paura mista a soddisfazione
perché non era successo nulla di grave. Qualcuno azzardava dei
commenti politici, visto che il pericolo era passato. Condanna per i
nuovi invasori, ma non mancavano quelli che aderivano al partito del
tradimento da parte nostra, che in qualche modo legittimava
l’invasione.
Zeno pensò che con quelle premesse si annunciavano tempi ancora
più bui data la tendenza degli italiani a dividersi in fazioni spesso
violente. Tempi bui oltre la guerra in corso e i tedeschi.!!
Nello spaccio trovarono un sapone e anche un pennello, Silvio aveva
con sé un rasoio, dunque ora c’era l’occorrente per una rasatura al
bisogno. Di roba alimentare poco, presero del pane, un pezzo di lonza
e mezza forma di formaggio pecorino che il negoziante tirò fuori da un
cassetto e fece pagare con i prezzi della borsa nera.
C’era anche del vino sfuso con cui riempirono una borraccia. L’acqua
non era mancata e non sarebbe mancata lungo il viaggio, perché lungo
la Flaminia, oltre le case cantoniere, si trovavano ad intervalli quasi
regolari, se le falde del terreno circostante consentivano, fontane di
acqua sorgiva. Un piccolo monumento di grande utilità, realizzato del
regime, di cui si fregiava con regolamentare fascio littorio e anno
inciso sulla pietra bianca a partire dalla rivoluzione fascista. Come le
case cantoniere, le fontane si riconoscevano a distanza, quelle per il
colore rosso pompeiano, queste per il bianco della pietra. Alte come
una persona, facevano bella mostra di sé in uno spazio ricavato a lato
della carreggiata. Servivano per bere e rinfrescarsi dalla calura estiva,
per le abluzioni e la toilette dei viandanti, per ripristinare l’acqua nel
radiatore dei mezzi a motore, per le necessità degli animali. Lo
sgorgare dell’acqua era perenne, non c’erano ancora quei fastidiosi
bottoni che avrebbero messo anni dopo, per limitare lo spreco,
avrebbero detto. Accadde quando l’acqua cominciò a servire per
l’aumentata popolazione, per le attività dell’uomo, per le fabbriche e
l’agricoltura intensiva, per le megalopoli razziatrici di beni di
consumo, per le multinazionali che si accaparrarono le sorgenti, da cui
la creazione del business delle acque minerali. Allora ancora no,
risorsa di una natura benigna che dispensava agli umani con
abbondanza, quanto serviva per i bisogni essenziali della vita.
Oggi, come le case cantoniere, le fontane sopravvivono ignorate,
spesso prosciugate, altre ancora orgogliosamente funzionanti a
dispetto dei tempi e della loro supposta inutilità.
Ripresero il cammino, dopo qualche centinaio di metri la strada
s’immetteva su un lungo ponte sospeso sul Tevere che in quel tratto
disegnava grandi volute nell’ampia pianura circostante. Non case
intorno, terreno propizio per le colture data la prossimità con il fiume
e l’esposizione senza ostacoli ai raggi del sole dall’alba al tramonto.
File di alberi delimitavano il corso del fiume lungo la vasta pianura
delimitata ad est ed ovest da rilievi collinari boscosi. Oltre quei rilievi,
a levante si scorgevano le alte cime degli Appennini. Un paesaggio
assoluto, gli eventi geologici nei millenni lo avevano modellato a quel
modo, sarebbero occorsi in futuro altri rivolgimenti della natura a
stravolgerlo, ma quel giorno agli occhi dei tre uomini in cammino, quel
mondo appariva concluso, immutabile nella sua soavità, come se i
sovvertimenti passati fossero stati guidati ad un fine di bellezza ed
armonia come in quel momento appariva loro. Ancora sul ponte e
subito dopo averlo attraversato si volsero ad ammirarne la fattura. Un
manufatto antico di centinaia di anni con un’edicola nel punto di
mezzo ricca di ornamenti in pietra sormontati dallo stemma pontificio
con una scritta in latino che loro non erano in grado di tradurre.
L’avevano costruito il ponte, in pietra e cotto, quel materiale bianco ed
ocra innalzava muri tra i grandi spazi che i grandi quattro archi
delimitavano. Sopra due muretti laterali delimitavano la carreggiata
costruita a schiena d’asino, sì che si andava in salita nel primo tratto,
per poi ridiscendere superata la sommità. Ampio il passaggio da
permettere il transito di carri e vetture, forse anche nel doppio senso
se non si temeva di raschiare la spalletta laterale. Lo ammirarono da
addetti a quel mestiere, ma non sapevano che da lì a poco aerei della
grande armata anglo-americana lo avrebbero bombardato, nel
tentativo di ostacolare la ritirata dei tedeschi. Questi dopo la strenua
resistenza a Cassino avrebbero cercato di raggiungere un punto più a
nord della penisola italiana dove contendere al nemico l’avanzata
verso la fortezza germanica. A nulla sarebbero servite le imponenti
fortificazioni scavate sul monte Soratte, per ordine del generale
Kesserling. La grande battaglia consumatasi a Cassino dove i
germanici avrebbero sacrificato un’intera divisione di paracadutisti, li
avrebbe spinti a ritirarsi dietro la linea gotica, per organizzare lì una
nuova resistenza.
Lungo la valle del Tevere sino ad Otricoli.
Ma in quel giorno il bel ponte era ancora in piedi, era un ponte
importante, uno dei pochi che permettevano l’attraversamento del
fiume non solo in quel tratto, ma anche a nord, dove i ponti di epoca
romana di Gallese ed Orte erano crollati, e a sud, dove si doveva
arrivare a ponte Milvio per trovarne un altro. Fu papa Sisto V nel XVI
secolo che prese la decisione di costruire un nuovo ponte nella località
di Borghetto. La leggenda narrava che lui, giovane francescano in
viaggio da Loreto a Roma, arrivato lì, per attraversare il fiume, si
rivolse ad un barcaiolo che svolgeva quella funzione. Questi,
vedendolo non particolarmente florido nell’aspetto e temendo che non
l’avrebbe pagato, pretese il breviario come cauzione. All’arrivo
sull’altra sponda il frate disse al barcaiolo che quando sarebbe
diventato Papa avrebbe costruito lì un ponte, così gli avrebbe tolto
prima il lavoro, poi lo avrebbe fatto impiccare sotto i piloni del ponte,
una volta costruito. Ed ancora al tempo che stiamo raccontando sotto
il ponte si vedevano dei ferri che si voleva segnassero il punto dove si
era verificata l’esecuzione.
Lasciato il ponte, percorsero il tratto di strada che correva diritta per
alcuni chilometri, sino a raggiungere l’altro lato della pianura,
raggiunto il quale, la strada piegava a sinistra a ridosso dei rilievi
collinari. Da che avevano lasciato Borghetto non avevano incontrato
nessuno lungo la strada. In lontananza si vedevano contadini intenti ai
lavori d’ottobre sulla campagna reduce dal riposo estivo. Aravano in
alcuni tratti, iniziavano la semina in altri, già preparati e pronti a
ricevere il prezioso seme. Stormi di uccelli vaganti nell’aria
picchiavano sui campi per quel pasto a buon mercato, prima che la
terra avesse tempo di nasconderlo alla vista. Altri uomini erano intenti
a raccogliere dalle piante da frutto le primizie della stagione. Ogni
tanto il silenzio era rotto dagli uomini che si davano alla voce con
quelli distanti, per dirsi cose, per un bisogno di comunione, tra loro,
con la terra che lavoravano, con gli alberi che accudivano.
I tre si trovarono a rallentare il passo per la fatica che si andava
accumulando ed anche per godere della quiete del paesaggio.
Si avvicinarono ad una radura in riva al fiume che in quel tratto aveva
frenato la sua corsa, sì che appariva a occhi non attenti, immobile. Si
fermarono. Erano lontani dalla guerra che imperversava poco
distante. Il cielo nuvoloso lasciava filtrare in qualche angolo raggi caldi
di sole. Si tolsero le scarpe e immersero i piedi e le gambe nell’acqua
del fiume. Un freddo discreto, refrigerante, benefico, su piedi abusati
dal cammino. Lo sciabordio dell’acqua sulla pelle era piacevole,
avrebbe spinto ad immergere tutto il corpo nel fiume sacro se fosse
stata la stagione propizia.
Dopo un tempo ripresero il cammino per dirigersi alla volta di
Otricoli la romana Ocriculum.
Da basso, in prossimità del Tevere sorgevano i resti della città romana.
Resti imponenti di edifici pubblici: l’anfiteatro, le terme, un tempio. E
poi edifici modesti, dirupati, diffusi in una ampia area, e in mezzo il
selciato della via Flaminia che passava di lì. Tutto a riconfermare
l’opulenza della città posta sulla consolare e lungo il fiume sacro. Tito
Livio racconta che dopo la battaglia di Mevania, l’attuale Bevagna,
dove furono sconfitti gli Umbri, solo gli abitanti di Ocriculum, non
avendo questi partecipato allo scontro contro i romani, da quelli
ebbero il titolo di amici dei romani. Grazie anche a questo, oltre alla
favorevole posizione, la città divenne con il tempo centro commerciale
importante con un porto sul Tevere e una statio sulla Flaminia per la
raccolta e la vendita dell’olio prodotto sulle colline circostanti.
Divenne presto anche un centro per la villeggiatura dei ricchi romani.
Vi aveva una villa Tito Annio amico di Cicerone, e Pompea Celerina, la
suocera di Plinio il giovane. Donna ricchissima dai grandi
possedimenti terrieri. Dunque città dedita all’agricoltura, al turismo,
ed anche industriale con la fabbrica di coppe a rilievo dette coppe di
Popilio, accanto a fabbriche di tegole e mattoni. Nel suo territorio si
svolse nel 412 d.C. la grande battaglia tra l’usurpatore Eracliano
l’africano, e Marino, il generale dell’imperatore Onorio che uscì
vincitore. Le cronache del tempo raccontano che sul terreno si
contarono cinquanta mila morti. Ocriculum fu poi distrutta alla fine
del VI secolo dai longobardi e la città fu abbandonata per essere
ricostruita sul colle antistante dove è ancora oggi.
Alla volta di Narni
La strada che stavano percorrendo era in leggera salita, lasciava a
destra i resti della città romana e a sinistra si intravedevano le case di
Otricoli sulla collina. Per andarci bisognava prendere una deviazione
che si distaccava dalla Flaminia e dopo un breve tratto arrivava al
paese. I nostri continuarono lungo la consolare. Questa saliva lungo un
profilo collinare, sospeso a sinistra sulla pianura dove sempre più
lontano scorreva il Tevere, e a destra sopra un vasto territorio
delimitato in lontananza dai rilievi pre-appenninici. Non case o paesi
in quell’angolo di mondo, solo qualche raro casolare, boschi e in alcuni
tratti terreno coltivato. Percorsero alcune decine di chilometri con
passo regolare ma lento, data la strada in salita. Fitte boscaglie di
alberi a foglia caduca che avevano cominciato a mutare il loro colore
dal verde verso i toni del marrone. Accanto, isolati o raccolti in gruppo,
pini che in alcuni tratti delimitavano la strada, sempre lussureggianti
nonostante il volgere delle stagioni. Qualcuno caduto rovinosamente a
terra, quasi una punizione del loro essere cicale, in confronto alle
querce che mostravano di non temere nulla, con i loro tronchi
possenti, ma umili da accettare la spoliazione nella stagione fredda per
poi rinascere più vigorosi all’arrivo della primavera. Forse per questa
forza che esprimono, le querce e le loro foglie appaiono nelle
decorazioni degli ufficiali di alto grado. Arrivati in cima alla salita, la
strada procedeva pianeggiante per alcuni chilometri sino ad arrivare
ad un bivio. A destra riprendeva a salire in direzione di Narni, a
sinistra scendeva per gettarsi in una vallata stretta, boscosa di
sempreverdi soprattutto lecci. In fondo scorreva il fiume Nera che
continuando la sua discesa si sarebbe gettato nel Tevere presso Orte.
Da Otricoli la Flaminia era entrata in territorio umbro, e il terreno
collinare e boscoso l’annunciava. Il distacco dagli spazi ampi delle
pianure laziali era deciso, raccontava anche il carattere diverso della
gente umbra che più ci si allontanava da Roma più diventava chiuso, a
tratti scontroso. Chiusi nelle loro città di pietra, gli Umbri hanno visto
fluire la storia lungo la consolare Flaminia che attraversa la regione da
un capo all’altro. Se n’erano tenuti in disparte per quanto avevano
potuto. Ma se molestati s’erano fatti sentire, come fu per Annibale ad
opera degli spoletini. Questi, reduce dal trionfo del Trasimeno, si fece
sotto le mura di Spoleto, per proseguire alla volta di Roma, ma ne fu
impedito dagli abitanti della città e costretto a cambiare itinerario.
Quasi una vendetta degli spoletini per la strage da lui perpetrata sul
console Flaminio ed i suoi legionari. Così con il Papa, quando, in anni
più vicini a noi, i perugini si rifiutarono di pagare l’aumento della tassa
sul sale che il Pontefice aveva deliberato. Ma l’atto di ribellione costò
loro la distruzione dei quartieri occidentali della città dove sorgevano i
palazzi dei Baglioni signori di Perugia, che finirono in quella occasione
il loro dominio, e sulle rovine fu edificata la rocca paolina a vigilare e
reprimere altre rivolte.
Superarono il bivio e presero per Narni, la strada diventò subito salita.
Da quando avevano lasciato Sassacci all’alba, avevano percorso circa
venti chilometri. C’era stata la breve sosta nelle acque del Tevere, ma
escluso quel tempo, avevano camminato ininterrottamente per quasi
quattro ore. I tratti in salita ne avevano rallentato la marcia. Decisero
di fermarsi, spostandosi sotto un grande leccio discosto una
cinquantina di metri dalla strada, un poco nascosti alla vista di coloro
che transitavano, mentre da parte loro avevano un a sufficiente
visuale.
Silvio tirò fuori dallo zaino quanto
avevano acquistato a Borghetto e, fatto della sua giacca una tovaglia,
apparecchiò per lo spuntino mattutino: pane, formaggio, e fette di
lonza. Silvio sentiva su di sé la responsabilità di quel viaggio, nei
confronti del nipote e ora anche di quel ragazzo che si era unito a loro.
Non più giovane sentiva la fatica più degli altri ma non lo dava a
vedere, anche se sulla salita il suo passo diventava più lento e gli altri
erano costretti a rallentare. In più era gravato da pensieri che lo
turbavano. Quella decisione di rientrare a Sigillo era sofferta, lo
spingeva la preoccupazione della famiglia: in particolare della
consorte con le due figlie. Queste avevano lasciato Roma da alcuni
mesi e non sapeva come si fossero sistemate nel paese. C’erano il
fratello Umberto e il padre Attilio che certamente avevano provveduto
alle loro necessità, ma mancava la sua presenza. Poi c’era il grande
cantiere nella campagna romana dove aveva portato anche il nipote
Zeno. L’attività si era interrotta da tempo, da quando il progetto
dell’Expo 42 o E42, come veniva chiamato, a causa della guerra, si era
interrotto. Lui, capo cantiere, aveva avuto la responsabilità di
controllare la vasta area dei lavori, pronto a riprendere l’attività se le
cose fossero andate in un certo verso. Le grandi statue, in attesa di
essere collocate tra le colonne e le nicchie del Colosseo Quadrato e
degli altri edifici completati, giacevano abbandonate per terra e queste
e altro materiale erano soggette a continui saccheggi. Per quanto
aveva potuto, aveva svolto l’incarico di vigilare, affidatogli
dall’ingegnere Costanzi, il titolare dell’impresa che aveva avuto
l’appalto di quell’enorme lavoro. Si trattava di costruire una nuova
Roma nella campagna acquitrinosa in direzione del mare, aperta verso
il Mediterraneo e oltre verso il mondo. Desiderio di un nuovo e
prestigioso ruolo della nazione italiana. Nostalgia di un passato
imperiale e speranza di un futuro radioso. Non era stato cosi e
l’interruzione dei lavori ne fu il simbolo. Ora anche Costanzi e le
maestranze si erano dileguati e Silvio, a malincuore se ne tornava al
paese, senza abbandonare l’idea di un ritorno, per riprendere in
qualche modo il lavoro più entusiasmante della sua vita. Ricordava le
albe dorate in sella alla bicicletta dal Quadraro, la nuova borgata
romana dove aveva casa, sino alle mura aureliane. Lì all’altezza di
porta ardeatina aspettava Zeno che arrivava anche lui in bicicletta da
via dei Pastini nei pressi del Pantheon, e insieme salivano su un
camion dell’impresa accanto ad altri muratori prelevati prima.
Percorrevano la via Imperiale, che li portava al cantiere per la
giornata di lavoro.
Ma ora era tutto
finito, però forse non tutto era perduto, pervicacemente qualcosa
glielo suggeriva. Sarà stato il fascino che Piacentini e gli altri architetti
del progetto esercitavano su di lui, e che gli facevano pensare che in
qualche modo avrebbero completato l’opera maestosa. D’altra parte
tutti questi erano vicini al regime e per lui socialista la cosa creava
qualche conflitto interiore. La stima e il rispetto che aveva per loro lo
aveva portato ad una minore acredine nei confronti di tutto quello che
era opera del governo. In particolare per le opere costruttive che
realizzava. Lui non se ne rendeva conto, non l’avrebbe mai ammesso,
ma chi gli stava vicino lo notava.
A Narni
Guardò con affetto i compagni di viaggio, per primo Zeno, quasi un
figlio per lui. Gli aveva insegnato il mestiere, aveva limitato al
massimo, per quanto aveva potuto, il periodo di fatica brutale della
manovalanza: a caricare sacchi sulle spalle e caldarelle colme di
cemento, o a picconare, e spalare. Ora lo aveva fatto assistente ai lavori
accanto a sé. E un sentimento provava anche per quel giovanotto,
unitosi dal mattino a loro, che aveva l’aspetto di un ragazzo poco più
che imberbe. Lontano com’era dalla famiglia e dal suo mondo, diretto
ad Ancona verso un futuro oscuro. Ebbe un moto di commozione
misto a rabbia.
Le cose per la sua famiglia e in generale per tutti non erano così male,
se pensava a tutti quelli che in anni precedenti se n’erano dovuti
andare in America a cercare fortuna. C’era il regime si, per lui
socialista non andava bene, ma erano stati fatti progressi in molti
campi, soprattutto si stavano rimarginando le ferite dell’immane
disastro della grande guerra. E poi le cose sarebbero cambiate anche
in politica. C’era un movimento operaio internazionale che guardava
alla Russia con grandi speranze, qualcosa sarebbe successo.
Malauguratamente successe qualcosa, ma non quello che si sarebbe
sperato!
Scoppiò la guerra!
All’improvviso il disastro, quell’altro nipote morto in Grecia, Zeno
richiamato in Albania, il lavoro compromesso, il futuro incerto. Si
scosse e invitò gli altri ad alzarsi e riprendere il cammino.
Davide si mise davanti a fare l’andatura sulla salita, che a tratti
diventava impegnativa. Camminava e pensava, ed alcuni dei suoi
pensieri li comunicava ai compagni di viaggio. Gli accadeva raramente
di essere così loquace. Per di più, per tutto il viaggio da Rodi a quel
tratto di Umbria che stavano percorrendo si era astenuto da ricercare
compagnie occasionali con cui condividere timori o sostegno. Aveva
evitato persone e luoghi affollati, anche sulla nave che lo aveva portato
a Civitavecchia.
Da lì, a piedi e con qualche mezzo di fortuna
era arrivato sino a Sassacci. In quella locanda, la bonomia dei due
aveva da subito sciolto la sua naturale diffidenza ed ora si trovava a
raccontare loro di sé. Nelle parole e nelle espressioni del viso
rappresentava Il timore della partenza, il dolore di lasciare i suoi, la
preoccupazione per il domani. Non c’era traccia del brivido fascinoso
che accompagna l’avventura del giovane che si apre al mondo, per
quanto funesto questo possa apparire. Raccontava la sua vita a Rodi, il
rapporto con la madre un po’ ossessiva, che vigilava da vicino sui suoi
progressi scolastici ed anche sulle avventure amorose. Se lei trovava
quest’ultime inadatte per condizione sociale e per il futuro che
immaginava per il figlio, riusciva sempre ad intervenire, in maniera
occulta ma con successo. Lui non si angustiava troppo, perché quelle
storie erano transeunti e l’intervento materno non faceva altro che
aiutarlo a liberarsene e dunque renderlo disponibile per una nuova.
Gli piacevano le ragazze locali, brune, non alte, formose, e allegre
soprattutto. Le vedeva e ammirava in giro per le strade della città o al
mare dove scoprivano i loro corpi sinuosi e invitanti. Lui non
propriamente bello, e timido il giusto, riusciva a farsi valere dopo il
primo contatto difficile. Era un narratore e le storie che raccontava,
tratte dai film visti o dai libri letti o semplicemente da sue fantasie,
affascinavano le ragazze. La fascinazione che accendeva gli animi di
chi ascoltava, quando funzionava, era per lui già una conquista, non
finalizzata necessariamente a qualcosa di più. Bastava a rafforzare la
sua autostima. Poi il di più, quando accadeva, gli toglieva serenità,
come di cosa non controllabile che lo prendeva, al di sopra di
sentimenti, pensieri, educazione. Alla fine diventava schiavo del
desiderio, ed era sensazione sgradevole da cui liberarsi.
Zeno e Silvio lo ascoltavano sorridendo, e guardandosi comunicavano
l’un l’altro il pensiero che Davide era un giovanotto fortunato. Loro
non avevano avuto tutto quel tempo per gli svaghi e le cose dell’amore.
Queste si erano risolte più semplicemente in una cosa che si chiamava
famiglia.
Dopo alcuni chilometri di salita arrivarono in località Testaccio, un
gruppo di case che segnavano il termine della salita e l’inizio di una
discesa che oltrepassata Narni sarebbe terminata nella pianura di
Terni. La strada in quel tratto era circondata da boschi di lecci e mano
a mano che scendeva si incuneava in una gola tra due alti rilievi che
percorreva addossata alla montagna, quasi sospesa sul ciglio della
roccia sotto la quale sprofondava il burrone. In fondo correva il fiume
Nera e la gola era la parte terminale della Val Nerina, disegnata dal
fiume omonimo che nasceva in alto e in lontananza sugli Appennini e
scavava la roccia sino a questa gola finale, prima di gettarsi nel Tevere
poco oltre, all’altezza di Orte.
Percorsa la discesa per sette
otto chilometri, cominciarono ad intravedere Narni, che da un lato si
affacciava con le case a precipizio, sulla gola del Nera, e davanti sulla
vasta pianura dove si intravedeva in lontananza Terni. Traversarono
la porta che dava accesso alla città. Attorno alla Flaminia, diventata
Corso cittadino si ammassavano due file ininterrotte di edifici in
pietra, quelli posti a sinistra che si affacciavano pericolosamente sul
burrone sottostante. Fu Davide che, fresco di studi, raccontò loro che
si trattava di città nobile e antica, esistente sin prima della conquista
romana, quando gli fu cambiato il nome in Narnia, termine che
evocava il fiume Nera sottostante. La città era diventata florida dopo la
costruzione della via consolare e si ricordavano personaggi illustri, cui
Narni aveva dato i natali. Tra tutti l’imperatore Nerva, ultimo
imperatore italiano e nel Medioevo il condottiero e capitano di
ventura conosciuto con il nome di Gattamelata. La città attuale era
d’impianto medioevale ed aveva subito il dominio dei longobardi di
Spoleto. Infine additò loro l’imponente rocca dell’Albornoz che
dominava dall’alto l’abitato. Questi nel XIV secolo aveva costruito nei
centri maggiori attraversati dalla Flaminia, rocche di difesa e controllo
sul territorio. Quella di Narni venendo da Roma era la prima che si
incontrava. Grande personaggio l’Albornoz. Era stato militare al
servizio del re di Spagna nelle guerre contro gli arabi. Poi si era
conquistato benemerenze anche presso la Chiesa, tanto da meritare la
porpora cardinalizia al tempo dei Papi Avignonesi. In quegli anni il
potere temporale pontificio sulle terre appartenenti alla Chiesa si era
andato perdendo per effetto dell’usurpazione da parte di signorotti
locali, nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e in Romagna. L’Albornoz
ebbe l’incarico dal Papa di tornare in Italia e riconquistare le terre
sottratte. Lo fece nel corso di anni. Fu una lotta dura e difficile che
vide anche la sua lungimiranza politica nel dare riconoscimenti
formali agli sconfitti per consolidare le conquiste fatte, nonostante la
perplessità dei pontefici. La sua operazione militare si concluse con
l’edificazione di una serie di rocche lungo i territori conquistati e posti
di nuovo sotto l’autorità della Chiesa, che a buon diritto ancora oggi
vengono denominate rocche albornoziane.
Silvio e Zeno lo
ascoltavano con piacere perché Davide raccontava con passione, dava
vita alle cose che raccontava, come se partecipasse agli eventi
descritti. Era un modo di essere della sua natura che tendeva a
ripiegarsi sul passato. Il profondo interesse per i fatti della storia era
come una ricerca di conforto, di protezione, un riconquistare
un’identità sempre in bilico nel fluire del vivere, un’ancora, certezze
cui appoggiarsi. L’immobilità degli avvenimenti passati, consegnati
all’accaduto, erano immutabili. La sua anima sentiva il bisogno di
avvolgerli, quasi proteggerli, addirittura plasmarsi su di quelli, per
prendere forza, e con quella gettarsi nella mischia del presente, del
fluire tumultuoso della vita.
Procedettero con passo tranquillo lungo la via. C’era gente in giro, in
quell’ora di tarda mattina quando le persone cominciano a rientrare
nelle case per il desinare. Camminavano un po’ discosti l’uno dall’altro,
come mossi dal desiderio di mimetizzarsi meglio, di dare meno
nell’occhio.
In prossimità della piazza che era semplicemente uno
slargo della via, gli edifici diventavano più alti rispetto ai circostanti.
Pietra scura, che dava un senso di tetro, di oscuro, di Medioevo duro,
con le viuzze strette che si dipartivano e salivano e scendevano come
rivoli nel ventre dell’abitato. In un lato della piazza una grande
fontana, e in cima ad una gradinata si ergeva la chiesa.
S. Giovenale c’era scritto su un’insegna, doveva trattarsi del patrono di
Narni. La gente in giro aveva cominciato a diradare. La strada lasciata
la piazza girava sulla destra e poco oltre si intravedeva la porta di
uscita della città. Quando la via svoltò del tutto, in prossimità della
porta, videro quattro uomini armati. Gli sembrarono fascisti, dalla
divisa e dal copricapo. Ricordarono di aver sentito alcuni giorni
prima, che si stava ricostituendo la Guardia Nazionale nell’ambito
della Repubblica di Salò, sorta dopo l’otto settembre con Mussolini
liberato dalla prigione del Gran Sasso. E l’Umbria, con gli anglo
americani ancora lontani, faceva parte della Repubblica. Videro i militi
cento metri più avanti a guardia della porta, e quelli videro loro. Non
c’era altro da fare che procedere tranquilli senza far trasparire il loro
timore.
Forse potevano fuggire?
Ma dove?
Dove altro potevano andare?
Si vedeva che erano forestieri in viaggio.
E poi sarebbe stata un’ammissione di colpe da nascondere. Non
rimaneva che andar all’incontro e in quei cento metri prepararsi a
cosa dire. Silvio avrebbe parlato per tutti: avvertì gli altri con uno
sguardo. Pensò che per loro due, ci stava il dichiararsi lavoratori del
grande cantiere dell’EXPO 42. Un ritorno a casa temporaneo, in attesa
di una nuova chiamata, appena il cantiere avesse ripreso i lavori. Lui
aveva un’età non compatibile con il servizio militare. Più problematica
la cosa per Zeno che aveva 31 anni, ma con sé aveva la licenza di
quando era stato richiamato in patria dall’Albania per la morte del
fratello al fonte. Quelli non potevano sapere che poi era stato di nuovo
arruolato e si trovava sino a pochi giorni prima in una caserma a
Civitavecchia. La preoccupazione era per Davide, giovane, in età di
militare. Che ci faceva lì da Rodi come attestavano i documenti che
portava con sé? Quanto meno c’era da temere che sarebbe stato
trattenuto per essere arruolato nelle forze armate della Repubblica
che si stavano organizzando al Nord. Tutto dipendeva dal
comportamento che avrebbero tenuto quei militi, del loro essere
fanatici esecutori di ordini o interpreti svogliati degli stessi.
Mano a mano che si avvicinavano, Silvio notò che si trattava di ragazzi
dall’aspetto non aggressivo, o così li volle vedere.
Arrivati, quelli intimarono l’alt.
Silvio si fece avanti e raccontò di loro due quanto aveva
precedentemente pensato e in cui percorrendo quei cento metri si era
confermato. Di Davide disse che si trattava di un loro nipote che i
genitori avevano mandato per far visita ai parenti nel paese d’origine.
Parlò tranquillo, con calma, abbozzando un sorriso che sapeva di
paterno nei confronti di quei ragazzi vestiti da soldati, e il sorriso non
era una finta.
Quasi il timore per sé e i suoi configgeva con la pena che sentiva per
quelli, intrappolati in un’uniforme che prometteva sciagure, per loro e
gli altri. Mentre si accingeva a mostrare i documenti che avrebbero
convalidato il racconto che aveva fatto, gli balenò improvviso in mente
il ricordo delle armi che Zeno portava con sé nella tasca del pastrano.
Lo portava sulle spalle il pastrano con atteggiamento disinvolto, forse
sarebbe stata la prima cosa che avrebbero perquisito se avessero
deciso di non fidarsi. Fu atterrito dal pensiero, dunque decise che si
trattava di sviarli da quell’ulteriore verifica, dopo i documenti e le
parole. Così prese a cianciare del tempo, della campagna, dei
meravigliosi monumenti che avevano costruito a Roma, della bella
città di Narni che stavano attraversando. E per trasformali da uditori
in colloquianti, il che avrebbe catturato più la loro attenzione e sviato
la mente da altri pensieri, per loro pericolosi, chiese se erano di Narni
o erano venuti lì da fuori. Quelli risposero. Dissero che venivano da
Terni. Lì dopo lo shock di settembre era stata riaperta la Casa del
Fascio e molti ragazzi della loro età erano stati arruolati, chi
nell’esercito che si stava ricostituendo al Nord, chi nella Milizia a
livello locale: a loro era toccata questa. A parte uno che appariva più
determinato, gli altri sembravano essere non molto entusiasti di
quell’arruolamento, come se non avessero potuto sottrarvisi.
La cosa non si metteva malissimo, fu il pensiero che prese corpo nella
mente dei nostri.
Quei ragazzi sembravano ben disposti, c’era una ragionevole speranza
che non avrebbe effettuato controlli severi, probabilmente si
sarebbero accontentati dei documenti.
Nel mentre che in testa giravano quei pensieri, che fluivano parole da
una parte e dall’altra, e nell’attesa di un via libera, o peggio di altro che
pervicacemente avevano eliminato dalla mente, si avvertì il rombo di
aerei che si stavano avvicinando. Un rombo spaventoso e in un attimo
li videro passare sopra di loro, bassi quasi da vedere la carlinga e le
eliche girare. Venivano da sud. erano decine e decine, forse centinaia.
Ci fu un fuggi-fuggi di tutti, della poca gente in giro, dei militi, di loro
per i quali il fuggire diventò liberarsi dal controllo, e guadagnare il
passaggio della porta. Corsero fuori della città fino a fermarsi accanto
ad un imponente momento ai caduti della grande guerra, che
sembrava offrire un rifugio dagli aerei e dagli uomini. Attesero la fine
del passaggio degli aerei che grazie a Dio non avevano Narni come
destinazione. La meta era Terni con le sue acciaierie e le altre
industrie. Se ne accorsero perché udirono prima, e poi videro dall’alto
dove si trovavano, le bombe cadere sulla città. Erano rumori e bagliori
delle esplosioni e poi fiamme quando ad essere colpiti erano i depositi
di benzina e di altro materiale infiammabile. Nel mentre che il
bombardamento su Terni andava avanti e la gente di Narni cominciava
ad uscire dalle case, ormai tranquilla di averla scampata, e con la
segreta voglia di assistere allo spettacolo, i nostri decisero di lasciare il
rifugio e proseguire il viaggio.
Oltre il ponte di Augusto verso la stazione di
Narni scalo
Presero giù per la strada che con ampie curve abbandonava il colle su
cui si ergeva la città, sino ad arrivare ad un bivio. A destra si
impegnava in un lungo rettilineo che dopo una decina di chilometri
arrivava a Terni, a sinistra voltava per raggiungere Narni scalo, un
gruppo di case sorte intorno alla ferrovia dove era posta la stazione
della città. Per arrivarci si trattava di attraversare un lungo ponte
sospeso sopra il Nera. Il ponte mostrava segni di un recente
bombardamento, ma appariva ancora solido e percorribile. Accanto si
ergeva il ponte romano detto di Augusto crollato nella parte centrale,
con le enormi volute laterali ancora intatte. Non erano state le bombe
a farlo crollare, ma il tempo, con i terremoti e le altre avversità della
natura, poi gli uomini avevano fatto il resto con l’incuria e la
depredazione del materiale. Ne soffrì Goethe alla fine del settecento, in
viaggio per l’Italia a vedere, disegnare, raccontare la romanità. Ne
soffrì perché era tra i ponti più maestosi che aveva incontrato. Se pur
diruto lo fece ritrarre ugualmente dal pittore che lo accompagnava nel
viaggio. Quel ponte franato stava lì anche per rinfocolare le polemiche
tra i cultori di cose romane, in particolare sulla consolare Flaminia. Il
ponte di Augusto era la chiave di volta per decidere sulla querel
riguardo la primogenicita’ tra i due tracciati. Quello che tira dritto
verso Terni e l’altro che impegnandosi sul ponte quando era in piedi,
andava verso ovest. La maestà del ponte ci stava per assegnare la
priorità a quello diretto ad ovest, ma l’importanza delle città che
attraversava, Spoleto in primis, ci stava con l’altro. E comunque
entrambi i tracciati si ricongiungevano all’altezza di Foligno. Dunque
una questione di lana caprina? Forse, ma di queste cose vive la ricerca
storica e non solo quella. Alla fine i soliti accademici tedeschi avevano
concluso che la strada primitiva era quella che attraversava il ponte di
Augusto e non a caso l’imperatore lo aveva fatto restaurare con la
tassa che impose all’aristocrazia romana in favore dei ponti della
Flaminia.
Da lì la strada si inoltra nella campagna umbra attraversando località
che ancora oggi ne conservano memoria come Carsulae a poca
distanza da Narni e dopo circa quaranta chilometri Bevagna, la
splendida città romana Mevania circondata da mura ancora oggi
intatte. Poi dopo altri dieci chilometri arrivava a Foligno dove si
ricongiungeva con l’altro tracciato. Quest’ultimo finì per prendere la
supremazia nei secoli, perché sul suo percorso attraversava Terni, e
scollinando sul rilievo della Somma arrivava a Spoleto importante
città romana e poi longobarda.
Attraversarono il ponte nuovo e dopo circa un chilometro arrivarono
in prossimità della stazione di Narni-scalo. La piccola stazione era
pressoché deserta, i tre si sedettero su una panchina sotto la pensilina.
Si era fatta quasi sera, il sole se n’era andato dietro i monti che
nascondevano Amelia, rimaneva una luce ottobrina che muoveva il
cuore alla dolcezza. Annunciava tenebre che sarebbero scese su una
natura gravida di vita matura, destinata presto a corrompersi, come
per i frutti degli alberi ormai pronti per la raccolta, doverosa, perché
altrimenti, caduti a terra, sarebbero diventati natura marcescente. Di lì
a poco anche le foglie, ancora verdi ma screziate di marrone e giallo,
sarebbero cadute, annunciando l’incedere dell’inverno. La misteriosa
macchina nascosta nelle viscere della pianta che trasformava anidride
carbonica in ossigeno rallentava la sua corsa, si placava il flusso di
linfa lungo le arterie, che trasportava cibo ed acqua dalla terra sino
alle foglie. L’albero si sarebbe addormentato, ritratto in sé stesso, con
rami scheletriti, a difendersi, a resistere all’acqua, al vento, ai fulmini,
alle ferite inferte dagli uomini. Avrebbe sopportato tutto nell’attesa del
nuovo sole. Ma ogni anno per lui e gli altri dei boschi la vita diventava
più difficile, anche a causa dell’uomo. Millenni prima lo avevano visto
arrivare con curiosità. Benevolmente gli avevano offerto protezione
sui rami, tra le fronde, a riparo dalle bestie feroci che lo attentavano.
Avevano tollerato il sacrificio di qualche compagno: legna per i fuochi,
e per la fabbricazione degli utensili. Ma poi gli uomini erano diventati
sempre più numerosi e arroganti. E gli alberi e gli animali con loro,
avevano dovuto sopportarne la prepotenza. Una convivenza difficile e
molti avevano cominciato a lasciarsi morire nelle città degli uomini.
Troppo asfalto e cemento a coprire le radici, a cingere il fusto. E
quell’aria ammorbata dai fumi, le esalazioni, i miasmi
dell’inarrestabile progresso. Non era vita quella, lontani dai boschi
dove erano sempre stati. E prima di morire si producevano in
un’ultima rigogliosa gettata di boccioli e foglie: quasi un ultimo atto
vitale, un grido al mondo, prima di precipitare nel nulla.
Ce n’erano due di alberi ai lati della stazione, due grandi platani che
con i rami e le foglie davano ombra durante il giorno alla pensilina. Più
di lato due pini dalla chioma sempre verde, che mandavano un odore
di resina intorno, e per loro il ciclo delle stagioni sembrava non
esistere.
Si erano alzati presto il mattino in quella locanda a Sassacci, avevano
percorso il tragitto solo a piedi, ad occhio saranno stati tra i trenta
quaranta chilometri, con varie pause e pericoli. Era andata bene, ora si
trattava di trovare da dormire per riposare, dopo aver mangiato
qualcosa. Di lato alla stazione passava la strada diretta ad
Acquasparta, si trattava del primitivo tragitto della Flaminia, loro non
l’avrebbero percorsa l’indomani. Erano venuti lì per la presenza della
stazione, per vedere se avessero potuto prendere qualche treno in
sicurezza. Sarebbe stata preoccupazione della mattina. Se non il treno,
avrebbero di nuovo guadagnato il bivio prima del ponte e si sarebbero
diretti verso Terni. Pensavano di trovare più possibilità, anche se più
pericolo. Ma l’altra strada era un buco nero, non la percorreva più
nessuno, dunque meno pericolosa, ma di contro con meno risorse,
come il cibo che avevano quasi esaurito, e anche mezzi di fortuna con
cui procedere più agevolmente. La scelta era fatta, quella stazione per
la notte e dopo, se non il treno, verso Terni di nuovo a piedi o con
qualche mezzo.
Dopo aver consumato il pasto residuo del giorno, si sistemarono sulle
due panchine per il riposo notturno. Chi steso, chi semi-seduto,
occuparono lo spazio disponibile, coperti con i loro pastrani. Con il
buio era sceso su di loro un freddo umido. Ne soffrì Silvio più degli
altri. Le sue ossa e articolazioni, provate da anni di lavoro nei cantieri,
ne avevano pagato lo scotto, ed ora in età matura reclamavano riposi
più accorti, che quella nuda panchina non garantiva. Ma così era, per
quella notte e forse altre ancora. Passò qualche treno nelle ore sempre
più buie che seguirono, nessuno di questi fece sosta nella stazione,
forse erano treni militari. Loro nel dormiveglia non si mossero al loro
passaggio, scommisero che non si sarebbero fermati ed ebbero
ragione. La stazione appariva deserta e buia all’infuori di un cabinotto
che sporgeva dal resto dell’edificio, in direzione delle rotaie, forse per
averne una visione migliore. Lì era sistemato l’addetto al controllo, e lì
la luce rimase sempre accesa, ma nessuno ne uscì. Il cielo a tratti
mandava giù una pioggerellina ottobrina che condensava l’umidità
dell’aria ed era piacevole a sentirsi, per chi come loro non era caduto
in un sonno profondo e continuava in quel dormiveglia a percepire
quello che i sensi trasmettevano. Quello stato di sonno-veglia
mescolava percezioni sensoriali con pensieri ed immagini che si
accavallavano nella mente. Ricordi, paure, ragionamenti appena
abbozzati senza una conclusione. Era la coscienza obnubilata dal
sonno, ma ancor desta, che si muoveva in libertà senza la gabbia della
ragione, e così i sogni si mescolavano con le immagini della giornata
trascorsa, le aspettative del domani, i volti delle persone care. Si
facevano sentire anche gli ormoni maschili che si esprimevano con
diversa intensità, in relazione all’età dei tre. Inibiti durante il giorno,
aspettavano l’appuntamento con la notte per pungolare la carne e
prepararla in un’atmosfera mielosa alle esigenze della conservazione
della specie. Proponevano le sembianze delle donne amate, ma più
subdolamente e spesso con più efficacia quelle delle ragazze dei casini
che con diversa frequenza tutti avevano frequentato. Sublime
mistificazione della natura che incoraggia con il piacere il
perseguimento del fine. Ma il mezzo tende a diventare predominante
rispetto all’obbiettivo, sino progressivamente ad oscurarlo. Accade
nelle civiltà evolute dove il mezzo finisce per soppiantare del tutto il
fine, diventa assoluto, concluso in sé stesso. Il fine che la natura aveva
stabilito viene rimosso. Lo si vede nel declino dei grandi imperi della
storia, con la popolazione sempre più anziana, infiacchita dal
benessere e dai piaceri, e bassa natalità. Alla fine inevitabile preda
della forza vitale di popoli nascenti.
Così trascorse la notte nel riposo agitato da pensieri e immagini che
l’oblio sconfitto non riusciva a mascherare.
Poi il cielo prese lentamente ad illuminarsi, e con loro anche la
stazione sembrò svegliarsi se pur ancora deserta. Si alzarono dalle
panchine e si accinsero ad affrontare la nuova giornata sotto un cielo
diventato sereno. Prima che arrivasse gente si diressero verso la fine
dell’edificio, presso una fontanella ai piedi di un pino e vicino al
casotto dov’era la turca. Fecero i loro bisogni, si rassettarono i capelli,
ci fu anche tempo per sbarbarsi. Poi uscirono dalla stazione per
mettere uno iato tra loro della notte e quelli del mattino, come gente
nuova che, uscita di casa, si recava alla stazione a prendere un treno, o
ad aspettare qualcuno che doveva arrivare. Entrarono e si
informarono dalla gente e dal personale ferroviario sull’orario dei
treni diretti ad Ancona. Seppero che avrebbe fatto sosta a Narni scalo
il treno delle nove proveniente da Roma. A momenti sarebbe
transitato un treno militare proveniente da Nord che traportava
soldati e armi dalla Germania verso il fronte nei pressi di Salerno, dove
erano sbarcati gli alleati alcune settimane prima. In un angolo della
sala d’ingresso della stazione c’era un punto di ristoro. Si serviva al
costo di pochi centesimi una bevanda calda che era un surrogato
d’orzo, e fette di un ciambellotto fatta in casa. Servì l’uno per
riscaldare lo stomaco e l’altro per dare un minimo di energia
mattutina, in attesa di trovare qualcosa di più sostanzioso prima di
riprendere il viaggio. Non ci fu tempo per parlare ancora o ragionare
sul da farsi, perché il treno militare, con sorpresa di tutti, si fermò. Ne
era stato annunciato solo il passaggio e invece dalle carrozze i militari
presero a scendere. Loro non riuscirono a guadagnare l’uscita, perché
quelli erano già lì, confusi con loro, e l’andarsene in fretta poteva
essere cosa non buona. Erano militari tedeschi, insieme a loro anche
italiani. Silvio pensò che per quest’ultimi si trattava di coloro che
avevano risposto alla leva fatta alcune settimane prima dal
maresciallo Graziani che era diventato il ministro della guerra della
repubblica di Salò. Loro rimasero lì, confusi in mezzo al clamore delle
voci di tutti quegli uomini. I gesti e le parole, se pur di non facile
comprensione, sembravano lasciar intendere che la causa della sosta
era dovuta al danneggiamento dei binari nei pressi di Orte. Il treno era
riuscito a passare Terni, nonostante il bombardamento del giorno
prima, ma forse nel loro avvicinarsi alla città gli aerei americani
avevano colpito la linea ferrata a sud di Narni, ed ecco la ragione di
quella sosta. Però i nostri ricordavano dei treni passati durante la
notte, dunque doveva trattarsi di una causa, bombardamento o altro,
occorso nel mattino. Comunque fosse, i ferrovieri della stazione,
parlando con i soldati italiani che chiedevano, dissero di aver avuto
comunicazione che i lavori di riparazione erano a buon punto e
dunque tra breve sarebbero potuti ripartire.
Tra i volti dei tanti che affollavano la sala d’attesa della stazione, a
Zeno parve di riconoscere in divisa uno del paese, di Sigillo.
Lo chiamò: “ Emilioooo”.
Questi, udita la voce, cercò con lo sguardo, ed individuato il viso amico,
si diresse verso di lui, agitando la mano in segno di gioia e arrivato, si
abbracciarono. Poi parlarono e si chiesero l’un l’altro cose del paese,
delle famiglie, di loro stessi.
La famiglia di Emilio era la più in vista del paese, in quanto a fede
fascista. Un’adesione entusiasta e assoluta sin dalla prima ora del
regime. Ne ebbero qualche piccolo tornaconto di potere ma non più di
tanto, data la povertà del paese e la semplicità della vita. Avevano un
commercio di alimentari sulla piazza, e quel commercio dava
sostentamento ad una numerosa famiglia, costituita da due fratelli con
la loro discendenza diretta. Uno dei due aveva un soprannome in
paese: Stagnino.
Questi aveva una fama un po’ sinistra perché dicevano che era una
sorta di mago o stregone, al quale ci si rivolgeva per leggere il futuro o
comunicare con parenti oltre-oceano. Raccontavano di poteri
incredibili, come di quella volta che operò una trasmigrazione
entrando in un gatto nero, che in una città della Pennsylvania vide la
persona per la quale era stata richiesta la sua opera. E Stagnino
potette comunicare alla donna richiedente che l’uomo era vivo, stava
bene, lo aveva trovato in un bar con amici e che presto sarebbe
tornato in Italia in famiglia. Favoleggiavano di un libro che lui teneva
sempre con sé e che veniva raccontato con il nome di “libro del
comando”, dove lui attingeva i segreti del suo potere, che gli
consentivano di dare risposte a coloro che richiedevano il suo
intervento magico.
Questa cosa, probabilmente più dell’appartenenza al partito fascista,
conferiva a lui e alla famiglia un potere legato al timore che i
possessori di poteri occulti esercitano sulla gente semplice.
Emilio ragguagliò Zeno sui parenti, di cui alcuni comuni, raccontò che
una settimana prima era scattata la leva militare e lui era tra i coscritti.
Altri coetanei si erano dati alla macchia, lui non se l’era sentita per la
fede politica e per non dare un dispiacere al padre e allo zio, che non
avrebbero accettato quella scelta, per la quale esisteva una sola
parola: diserzione. Non disse altro, ma Zeno ebbe l’impressione che se
fosse dipeso soltanto da Emilio, la scelta di arruolarsi non sarebbe
stata così tetragona. Lasciato Sigillo aveva raggiunto il distretto
militare a Perugia. Lì, insieme ad altri, lo avevano aggregato ad una
divisione tedesca, in attesa di destinarlo alla Monte Rosa, una
divisione che il Duce stava costituendo in terra di Germania con coloro
che avevano scelto di aderire alla Repubblica di Salò. Per intanto quel
giorno indossava la divisa delle SS italiane, e non appariva che la
esibisse come l’assolutezza di quella sigla avrebbe preteso. Zeno lo
presentò allo zio Silvio, che non conosceva quel ragazzo, ma invece
bene la famiglia, con la quale non correva buon sangue per via di
appartenenze politiche, e delle quali si augurava che Emilio non fosse
a conoscenza. La presenza di Davide fu liquidata con poche parole sul
suo essere un lontano parente, in viaggio verso le Marche.
Emilio era una persona innocente, non gli passò per la testa di
chiedere cose su di loro. Appariva frastornato per la vita che
improvvisamente gli era cambiata, dalla tranquillità del paese dal
quale non si era mai mosso, all’oscurità della guerra nella quale stava
per immergersi. Non provava paura, solo un senso di sbigottimento, di
aspettativa inquieta. Non bastava a tranquillizzarlo la fede politica
nella quale era stato tirato su, né il fascino che la figura del Duce
esercitava su tanti ragazzi come lui. Lui, più degli altri, incoraggiato da
quelli di casa. Era stato il Duce, una presenza, un riferimento costante
per tutti gli anni della sua giovane vita. Ed ora provava una pena
profonda per lui, per quanto gli era accaduto dal venticinque luglio in
poi. E con la pena per lui, un senso di frustrazione, che muoveva dal
sentire la necessità di dover fare qualcosa. Così la cartolina per
l’arruolamento, recapitata dai carabinieri, fu accolta come occasione
per dare corpo a quei sentimenti nei confronti del Duce e dell’idea. E
nell’accettazione giocò un ruolo determinante l’incoraggiamento dei
suoi. Solo la madre Annunziata non disse nulla e si chiuse in un
mutismo che sapeva di preveggenza e che, dopo, l’avrebbe
accompagnata per il resto della vita. Ma ora lì in quella stazione di
Narni, davanti a quelle persone del suo paese che tornavano a casa,
ogni certezza si consumava.
Che avesse sbagliato?
Gli vennero alla mente le parole dei compagni di scuola e di giochi che,
sapendo di potersi fidare, avevano raccontato una diversa visione
delle cose della politica. Lui le aveva ascoltate, senza recedere dalle
sue convinzioni, ciò nonostante quelle avevano iniziato ad incrinarsi,
qualche dubbio aveva minato le assolute certezze.
Ed ora lì, tutti quei pensieri si riaffacciavano prepotenti alla sua
coscienza. Avrebbe potuto tirar fuori dallo zaino gli abiti borghesi che
ancora aveva con sé, e tolta la divisa si sarebbe potuto unire a loro e
tornare in paese.
Quel pensiero gli mise un brivido addosso, che sentì percorrergli tutto
il corpo. Cercò di allontanarlo e la mente si rifugiò altrove. Ma
pervicacemente tornavano immagini del paese:
Si rivide in piazza con il negozio dei suoi vicino. Dallo stradone
accanto, giungeva la voce dei Toccaceli, quelli dell’altro negozio di
alimentari. Rivali, ma con bonomia, le due famiglie di esercenti, anche
perché il negozio dei Toccaceli era qualcosa di diverso da quello della
famiglia, come da quello dei Cappelloni, da quello della Corinna, e da
quello dei Biscontini: gli altri negozi di alimentari posti più distanti
dalla piazza. Diversi i Toccaceli perché oltre gli alimentari vendevano
di tutto un pò: merceria, bigiotteria, arnesi vari. Quasi un
supermercato ante litteram gestito dai tre fratelli e le mogli dei due
più grandi. C’era anche il padre Settimio e la moglie di questi che morì
prima di tutti. Analfabeta che si curava dei conti della clientela meglio
di un computer. Allora esisteva un libretto dove si annotava la spesa e
che veniva pagato alla fine del mese. Ma senza rigidità se i soldi non
c’erano e allora l’indigenza era tanta, e i Toccaceli aspettavano il mese
successivo. Mondo, Ivo, il vecchio Settimio, il povero Elio: questi i nomi
degli uomini di casa Toccaceli. Quest’ultimo si sarebbe poi sfracellato
contro una quercia sbandando sulla curva della Madonnella a bordo
della Jaguar di un emigrante, che quell’estate era tornato in paese
dopo tanti anni di lavoro e fortuna. Era tornato con quella macchina a
testimoniare il benessere raggiunto, a riscattare la povertà passata, a
suscitare la meraviglia e perché no l’invidia dei compaesani. Elio era
un giovane galletto. Vent’anni, il figlio viziato e coccolato della
famiglia Toccaceli, un po’ gigolò e simpaticamente carogna in virtù dei
suoi successi femminili. Elio chiese di guidare quel sogno di vettura e
l’amico l’accontentò, sedendosi sul posto accanto. Rombando
affrontarono la curva stretta della Madonnella a tutta velocità. Non si
poteva fare diversamente con tutti gli sfaccendati del paese accalcati
sulla strada che li stavano guardando. L’emigrante non tornò in
Inghilterra. Li seppellirono insieme con grande concorso di gente. Ivo
e Mondo erano straordinariamente gentili e professionali, avevano
una parola per tutti e le parole erano diverse, come pure
l’atteggiamento del viso, in relazione a chi avevano davanti.
Ossequiosi con le persone importanti, dolci con i bambini, familiari
con le persone normali, ammiccanti con le donne, con quelle che si
aspettavano la battuta. Con le altre, con quelle che non avrebbero
gradito, precisi, gentili, professionali, quasi distaccati. Ma poi e
soprattutto, accadeva che prendevano ad affettare il prosciutto, le
coup de theatre di ogni visita al negozio dei Tocaceli. Iniziava con
l’affilamento della lama del lungo coltello. Afferrato un altro coltello
con mosse ritmate e alternanti sfregavano le due lame ma con diversa
pressione, sì che l’affilamento fosse maggiore sul coltello da usare,
l’altro fungendo solo da supporto per l’operazione. Poi la mano
guidata da un braccio, impostato nella giusta inclinazione, affettava il
grande prosciutto da una estremità all’altra in fette sottili sempre
dello stesso spessore e previa asportazione dei bordi indurirti e poi
dell’eccesso di grasso. Alla fine della corsa, l’altra mano prendeva tra
due dita, ma solo un minimo contatto, quasi etereo, quella cosa
sospesa nell’aria e attaccata ancora con un ultimo tralcio al tendine.
Liberata anche da questo, veleggiava per alcuni istanti nell’aria per
essere poi deposta leggiadramente, come un ginnasta che si lancia dal
cavallo o dagli anelli o come una ballerina che atterra dopo un salto
mortale, sulla carta appositamente stesa di lato. Carta bianca
trasparente, sottile, distesa a sua volta su una più spessa, tipo carta
paglia. Infine il tutto veniva piegato in entrambi i lati e depositato sulla
pesa.
Non meno affascinante era l’affettamento della mortadella, il
grande salsicciotto veniva depositato sul piano della affettatrice, una
meravigliosa Berkel rossa.
Con un braccio dentellato si
solidarizzava la mortadella al piano, poi si afferrava e si faceva girare il
manico della lama che metteva in movimento il piano avvicinando alla
lama il grosso salsicciotto che veniva affettato.
Il tonno, le
aringhe e altro pesce affumicato veniva conservato in grandi bidoni
dai quali era estratta la porzione da vendere.
Pensava Emilio…..
E gli venne in mente il viso della Maria, l’aveva salutata il giorno prima
di partire. Non c’era ancora niente tra di loro, ma con gli occhi si erano
detti parole che chiedevano conferme. Non c’era stato il tempo e quel
giorno quando l’aveva incontrata non ebbe il coraggio di dire nulla, se
non che sarebbe partito il giorno dopo per fare il soldato. Lei non
chiese altro, solo negli occhi scese subitaneo un dolore che non trovò
parole per raccontarsi. Il nome tradiva l’origine contadina. In paese
alle bambine si dava nome Maria o Assunta il più spesso, ed il nome
richiamava anche le feste religiose che coincidevano con i lavori della
campagna. Maria era piccola, ben fatta, grandi occhi neri e neri capelli
che cadevano su quelli. Si illuminava di sorriso quando salutava, un
sorriso buono di bambina, se non fosse espressione di un corpo ormai
maturo di giovane donna. E questo contrasto la rendeva più attraente,
come una malizia, che diventava tormento per i sensi di Emilio.
Pensava a lei, sognava di dirle i sentimenti e la passione che lei gli
ispirava. Non era ancora riuscito, aveva aspettato una condizione
propizia, ora non c’era più tempo.
Parlavano Emilio e Zeno in un angolo della sala d’ingresso, vicino la
biglietteria. Già i soldati stavano dirigendosi verso il treno per salire,
Emilio si avvide che anche per lui era tempo di salutarli e andare con
gli altri. La realtà del momento si portava via pensieri e sentimenti, era
più forte dei desideri che potrebbero aver voluto mutare quella realtà.
Ma inevitabilmente essa si impone pervasiva e fa giustizia di
tentennamenti o propositi diversi. I sensi entrano in assonanza con il
circostante e rispondono con archi riflessi che si svolgono al disotto
del tratto di corteccia cerebrale dove risiede la volontà. Ecco perché i
soldati vengono abituati ad una dura disciplina. Serve ad annientare
la fantasia, le idee, la volontà. Servono a creare un meccanismo
perfetto che reagisce immediato all’ordine, senza pensare, o pensare
solamente per svolgere al meglio l’ordine.
Emilio salutò e salì sul treno, solo una volta salito, si volse a guardarli e
salutò con la mano. Di lui non si sarebbe saputo più nulla in paese, solo
a guerra finita le incessanti ricerche della famiglia avrebbero condotto
alla scoperta della sua fine. Fucilato insieme ad altri camerati del suo
battaglione dai partigiani in Emilia, nei primi giorni di maggio del
quarantacinque. I giorni successivi alla morte di Mussolini, e l’inizio
del regolamento dei conti.
La stazione in breve si vuotò, partito il treno militare, era rimasta poca
gente. Ora si trattava di decidere se aspettare per vedere di prendere il
treno delle nove o incamminarsi a piedi. Decisero per la seconda
ipotesi. L’aver visto tutti quei soldati scesi a Narni-scalo per il
bombardamento della linea ferrata poco più a valle, e ricordando
l’incursione aerea su Terni del giorno precedente li determinò nella
scelta. Oltre agli altri quello era un motivo in più per evitare quanto
meno la ferrovia. Così, invece di riattraversare il ponte e riprendere la
strada per Terni come avevano pensato la sera precedente, pensarono
che, oltre il treno, fosse prudente evitare, ancora per un po’, di
percorrere la strada più battuta.
Alla volta di Terni
Presero la strada che andava verso San Gemini, ovvero la via Flaminia
primitiva. Camminavano alacremente lungo il ciglio della strada, Il
cielo era coperto, un vento di scirocco portava da sud nuvole nere che
annunciavano pioggia, ma non ancora. La minaccia della pioggia si
accompagnava ad una temperatura gradevole, mite, che sempre
accompagna i venti da sud. E oltre la pianura e le colline si vedevano
ad est le alte montagne dell’Appennino. Di recente, meta invernale
della stagione sciistica in località Terminillo, si diceva voluta da
Mussolini. Raccontavano anche il motivo: sottrarre i romani agli ozi
della loro natura, nel tentativo di fortificare la razza.
Continuavano il cammino in una campagna di terra buona, irrigata dal
fiume Nera che scendeva giù dalla zona di Norcia. Sino alla confluenza
con il Tevere nei pressi di Orte il fiume dava forma ad una vallata
incantata che prendeva il suo nome, val Nerina appunto. Lungo il suo
corso, paesi antichi, conventi, torri, pietra mirabilmente assembrata a
cristallizzare un tratto di Medioevo nei giorni della modernità.
Percorsi circa un paio di chilometri, era tempo di abbandonare la
strada che li avrebbe portati a Massa Martana e a Bevagna, e invece
riprendere quella che da Narni andava a Terni, ovvero la Flaminia
moderna. Trovarono una strada di campagna che ce li avrebbe
riportati. Si inoltrava tra campi coltivati e casolari isolati, meno
imponenti di quelli in tufo delle campagne romane. Tirati su a pietra,
come tutte le case in Umbria. Casolari a due piani, a terra le stalle, una
scala esterna che dava ai piani alti, dov’era la cucina e la camera per
dormire, nell’aia rimesse per gli attrezzi, stazzi per gli animali da
cortile, il palo intorno al quale si raccoglieva la paglia.
Passare per Terni era obbligatorio per il loro itinerario, la strada per
andare a Sigillo passava di lì. Ma Terni era anche la città dove viveva
da alcuni mesi Caterina, la sorella di Zeno e nipote di Silvio. Si
sarebbero fermati da lei per un riposo, per mangiare, per chiedere
notizie di casa. Procedevano tra campi arati di recente, alcuni con le
grandi zolle rivoltate, altri già preparati per la semina con lo
sminuzzamento delle zolle e il livellamento del terreno per evitare il
ristagno dell’acqua. Grandi cumuli di concime organico giacevano ai
lati dei campi pronti ad essere sparsi sul terreno, preziosa sostanza
organica azotata, che avrebbe arricchito il terreno di sostanze
nutrienti, sì che le colture crescessero più rigogliose. Lavoro duro
quello dei contadini che erano tutt’uno con le terre che coltivavano.
Nascevano lì, nei casali dei poderi padronali, e morivano lì, o in altro
casale se così comandava il caso o la volontà del padrone, con il breve
intervallo del servizio militare, occasione per conoscere un mondo
oltre il loro, e la breve vacanza poteva essere senza ritorno se i
governanti si inventavano una guerra per la grandezza della patria e
per i loro interessi. Comunque per logiche e teoremi al di sopra ed
estranei alla gente di campagna. La loro era una vita di sopravvivenza,
legata ai frutti della terra che lavoravano come destino. L’Italia era
allora contadina per gran parte, il processo di inurbamento con il
lavoro nelle fabbriche era iniziato da poco, non aveva ancora
sovvertito i ritmi di una quotidianità che guardava ancora in alto, alla
trascendenza, perché quella storia di dolore e povertà avesse una
giustificazione ed un premio. E per i contadini questo si esprimeva in
una religiosità primitiva che il cristianesimo aveva ricoperto senza
occultarla completamente. Un paganesimo cristiano che
sovraintendeva alla vita degli uomini e dei campi, con divinità agresti
santificate e accolte nella toponomastica cristiana. E così le bambine
avevano il nome di Maria e di Assunta e di altri attributi della Vergine
e dei santi, e sui campi si mettevano cannucce a creare il segno della
croce per impetrare la protezione divina sul raccolto, come prima si
era sacrificato alla dea Cere o Ghea.
Procedevano con passo meno sostenuto, cominciavano a sentire il
morso della fame. La sbobba ingurgitata alla stazione di Narni se n’era
andata nei meandri del metabolismo, urgeva altro carburante per
sostenere il cammino. Sarebbe stato opportuno non arrivare stanchi
ed affamati a casa della Caterina, anche per un fatto di dignità.
Dopo una curva della strada bianca che stavano percorrendo, videro a
breve distanza due case coloniche contigue, come accade di vedere
talvolta, invece dei più frequenti casolari isolati. Si verifica quando il
podere è grande e numerosa la famiglia contadina. Le case si
susseguivano una all’altra e delimitavano uno spazio su cui si
affacciava una chiesetta. Era un segno della divinità che dalla
trascendenza celeste si calava nella vita degli uomini per dare un
senso alla loro fatica, alle sciagure, alle gioie, ai momenti di felicità, alla
vita e alla morte. Era il Dio cristiano che si sostituiva agli dei pagani
che avevano un tempo albergato in quei luoghi. Per il pensiero laico
tutto ciò era conferma del bisogno dell’uomo non evoluto di inventare
una trascendenza in mancanza degli strumenti razionali della
conoscenza, che il cervello colto ed educato della modernità avrebbe
conquistato. Quelli si sarebbero incaricati di fare giustizia delle
superstizioni e di tutto il ciarpame ideologico che ne era a
fondamento. Ma intanto lì in quel tratto di campagna ternana
l’evoluzione darwiniana non si era ancora compiuta e la gente viveva e
moriva con i ritmi di sempre. Arrivarono nella piazzetta, e si avvidero
dal silenzio che aleggiava nell’aria che gli uomini non c’erano,
probabilmente intenti ai lavori, nei campi intorno. Si avvicinarono alla
porta dell’uscio della prima casa. C’era una tenda che chiudeva il
passaggio. Di quelle che le donne usano mettere l’estate per
proteggere il vano dai raggi del sole e mitigare così il calore dell’aria,
oltre a limitare l’ingresso di mosche e zanzare. La scostarono la tenda
di lato e guadagnato il passaggio, Silvio disse “permesso, si può
entrare?.
Una voce di donna rispose: “favorite”.
Entrarono, c’erano solo donne: un’anziana, una di mezza età e una
giovane, tre generazioni raccolte in quella stanza. Silvio proseguì
“siamo in viaggio diretti a Terni, stamattina siamo partiti dalla stazione
di Narni scalo e ora abbiamo preso per la campagna per raggiungere la
Flaminia all’altezza di Ponte san Lorenzo. Abbiamo visto le vostre case,
così abbiamo pensato che, siccome sono finite le provviste, se, pagando,
potevamo avere del pane e del companatico, magari anche del vino”.
Le donne risposero che gli uomini erano nei campi, avrebbero dovuto
chiedere a loro, ma visto che si presentavano con una faccia di persone
per bene, entrassero pure che qualcosa gli avrebbero dato. Silvio e gli
altri posero per terra gli zaini e si accomodarono sulle sedie di paglia
che circondavano il tavolino in mezzo alla stanza. La donna anziana
aprì la “mattera” posta in un angolo della stanza, ne tirò fuori del pane,
una forma di formaggio e una lonza. Mise tutto sul tavolo dove
troneggiava un bottiglione di vino rosato e un bicchiere. I tre viandanti
affettarono con cura e parsimonia il pane, e il companatico, lo misero
su un piatto che la donna di mezza età aveva portato loro, e riposto il
coltello a serramanico che avevano usato, presero a mangiare. Tra un
boccone e l’altro bevevano a turno sull’unico bicchiere, versando dal
bottiglione al centro del tavolo. Era un vino asprigno, di quelli che si
fanno in campagna senza chimica, con l’inevitabile sapore di tannino.
Zeno e Silvio scambiarono parole con le donne, chiesero dei loro
uomini, che quelle avevano detto intenti ai lavori della campagna. In
casa c’era solo il nonno che ora era nella stalla ad accudire le vacche e
il vitello nato la settimana precedente. Per lo più se quel giorno non ci
fosse stata l’incombenza del vitellino, avrebbe passato il tempo fuori,
su una sedia con la schiena appoggiato al muro di casa, sole
permettendo, e se il sole non c’era, coperto da un mantello.
Davide si era alzato e uscì sull’aia a fumare una sigaretta. Appoggiato
sul muro della casa, con il sole mattutino che aveva fatto capolino tra
le nuvole, godeva del calore che penetrava oltre gli abiti a riscaldare il
corpo. Ad occhi chiusi aspirava il fumo della sigaretta, e si
abbandonava al tepore dell’aria. La mente libera di pensieri, tutt’uno
con il corpo. I sensi esaltati dal calore del sole.
Sentì come un fruscio, poi una mano si strinse alla sua con dolcezza.
Non si mosse, nessun pensiero turbò un languore che sapeva di
piacere e di attesa di uno maggiore. Rimase con gli occhi chiusi.
Labbra carnose sfiorarono le sue e premendo si schiusero un po’. Poi
la sua mano fu trascinata in alto sotto una camicetta, lasciata libera ad
accarezzare un seno grande e morbido, e il bocciolo al centro
diventato turgido. Il corpo della donna aderiva a lui. Davide tentò di
liberarsi per abbracciare quel corpo e stringerlo ancora più a sé. Ma in
quel fare questo si divincolò in un lampo. Quando aprì gli occhi era già
sparita, non c’era più nessuno intorno.
Davide rientrò in casa
ancora sconvolto, se ne avvidero gli altri. Lui si giustificò attribuendo
al sole quel rossore delle guance. C’era la donna anziana e quella che
aveva dato loro da mangiare, non la ragazza. Finito di consumare il
pasto e bevuto con parsimonia il vino, data l’ora del giorno, chiesero di
pagare il dovuto.
Le donne si schernirono, non sapevano
cosa avrebbero dovuto chiedere, non sarebbe stata comunque una
loro funzione, ancorché praticabile. Il loro non era un servizio
commerciale, e non era mai accaduto prima di far pagare qualcuno che
si era seduto alla loro tavola. Non si era mai trattato di viandanti, la
strada che passava davanti a casa non era di comunicazione, era una
strada tra i campi, dunque lì non passavano viandanti e infatti non
avevano capito bene perché quelli si erano trovati a passare di lì.
Così dissero, ma al di là delle parole, probabilmente c’era in loro un
retaggio dell’antico costume dell’ospitalità che, mutati i tempi,
rimaneva nel profondo della loro mente come determinante genetico.
Comunque fosse non chiesero nulla, ma Silvio lasciò sul tavolo alcune
lire. Erano quelle che con un rapido conto avrebbero dovuto pagare in
una locanda. Salutarono, ringraziarono, fecero auguri per tutto e se ne
andarono.
Davide era rimasto silenzioso, ancora in
subbuglio, guardava con gli occhi intorno per vedere la ragazza. Era
certamente lei la misteriosa donna che lo aveva baciato. L’emozione
era stata talmente intensa che andarsene era un dolore, come di una
storia d’amore appena cominciata e subito finita, senza nemmeno
vedere chi fosse l’artefice di quello sconquasso. Gli batteva ancora il
cuore ed era passato ormai del tempo. Non si risolveva ad andarsene,
chiese agli altri se potevano riposarsi ancora un po’, c’era molta strada
da fare prima di arrivare a Terni. Ma quelli non ascoltarono, si erano
ormai congedati dalle donne e non capivano il suo atteggiamento. Lui
che era il più giovane, chiedeva di riposarsi ancora!
Così, oltrepassata la porta e scostata la tenda, uscirono sull’aia e
presero per incamminarsi lungo la strada in direzione Ponte San
Lorenzo.
Davide continuò a guardare intorno.
D’un tratto, dietro una finestra del piano superiore, dov’era la stanza
del riposo notturno, vide il viso della ragazza. Non appena i loro
sguardi si incrociarono, lei si ritrasse. Nella mente di Davide come su
una lastra d’argento dei fotografi, si impresse un viso ovale dalla
carnagione olivastra, due occhi neri, capelli lunghi, neri come gli occhi,
che incorniciavano il volto.
Sparì quell’immagine nella penombra della stanza. Ma Davide la rivide
tra gli alberi, nei campi, sospesa sulle nuvole del cielo. Gli sembrò che
nel mondo in quel giorno non ci potesse essere, oltre quel viso, nulla di
altrettanto bello. Un sogno materializzato da sempre rincorso, che si
era donato a lui.
Quel rapporto fugace, vissuto un istante, prima che si corrompesse nei
meandri del sesso e della noia, era un annuncio di eternità. Metafora
dell’inarrestabile fluire delle cose verso il loro dissolversi. Ma per un
arcano mistero quel fluire della materia verso l’annientamento, si
materializza in istanti che fermano il tempo e rimandano al sapore, al
colore, alla bellezza dell’eterno prima del divenire o alla fine di esso. E
dunque era giusto che in lui rimanesse l’indeterminazione
dell’accaduto, che la felicità non diventasse materica, ma sospesa, che
la materia coagulata in quell’attimo si dissolvesse per riprendere la
corsa dei flutti verso il mare.
Davide riprese la testa della comitiva a fare l’andatura, in silenzio.
E in silenzio camminavano Silvio e Zeno.
Era mattino inoltrato, il sole splendeva tra le nuvole che si erano
andate diradando. Camminare in pianura tra i campi era quasi
piacevole, la sosta e il pasto li avevano rinfrancati. Dopo alcuni
chilometri cominciarono ad intravedere le case del borgo di Ponte San
Lorenzo dove avrebbero raggiunto la Flaminia, e da lì avrebbero preso
per Terni senza fermarsi più.
La strada bianca finì in una piazzola circondata da case che era il
centro del borgo. A lato correva la Flaminia. Gente in giro intenta alle
faccende di ogni giorno, transito di persone e mezzi lungo la consolare.
Sembrava un normale giorno di un qualsiasi anno, in uno sconosciuto
luogo del mondo. Le donne preparavano per il pranzo, i bambini
giocavano nella piazza, gli uomini andavano e tornavano dalla
campagna, i vecchi chiacchieravano, seduti sulle sedie dello spaccio.
Il giorno prima erano passati in cielo gli aerei a bombardare Terni, ma
lì non era successo niente. La giornata si srotolava apparentemente
serena, dimentica di ieri e ignara del domani. Alcuni giovani erano
tornati a casa dai fronti sconfitti della guerra e se ne stavano nascosti
nel grembo della famiglia, che, come monade protettiva, si era chiusa
su di loro. Lo stato, con le autorità e le istituzioni era frammentato,
distrutto. In quel vuoto di certezze e riferimenti si riaffermavano le
cose importanti dell’esistere. La famiglia, la terra, la casa, la gente
conosciuta di sempre. C’era anche la chiesa in borgo San Lorenzo,
minuta, adatta per la piccola comunità. E c’era anche il prete. Ci
andava la gente in chiesa, la domenica e le feste comandate, come
momento di festa. Per qualcuno era qualcosa di più, vi trovava un
senso a quell’esistere, una speranza, la risposta a un perché.
Imboccarono la Flaminia, rimaneva da percorrere una decina di
chilometri per arrivare a Terni. Continuando con quell’andatura in
poco più di un’ora sarebbero arrivati a casa della Caterina, Zeno
chiudeva la fila.
Il passo gli era diventato faticoso, per questo si era messo dietro a
Silvio che camminava lento data l’età. Davanti Davide rallentava
quando si accorgeva di staccarli. Si era messo dietro Zeno perché gli
era ricomparso quel dolore sotto il costato a destra, che ogni tanto lo
prendeva e che ora rendeva faticoso il cammino. In passato quando si
manifestava il dolore aveva imparato a darci sopra dei cazzotti per
farlo sparire. Funzionava, il dolore provocato dai pugni copriva quello
profondo, poi dopo un po’ sparivano entrambi. Non sapeva cosa fosse,
la madre in passato lo aveva curato con delle purghe che si pensavano,
per la gente del popolo, risolutive di qualsiasi malanno addominale.
Qualche vecchio della famiglia aveva raccontato di quel dolore e
costoro nel tempo erano diventati gialli e ne erano morti. Ma lui era
ancora giovane, aveva ancora tempo. E poi ricordava che quelli, per il
lavoro che svolgevano, qualche bicchiere di troppo se lo concedevano,
poteva essere anche quella la causa. Ne aveva parlato una volta con
Raoul Braccini, suo compagno di banco alla scuola elementare,
studente di Medicina alla Normale di Pisa, ed ora chirurgo a Foligno, di
ritorno dalla Russia. Lo aveva cercato anni prima a Pisa dove lui si era
trattenuto alcuni mesi per un cantiere di lavoro. Raoul gli aveva detto
che si poteva trattare del fegato. Dunque sì, doveva astenere dal bere
alcoolici e dal mangiare schifezze grasse. Così da allora per quanto gli
fu possibile, lui aveva seguito quelle raccomandazioni, era l’unica cosa
che poteva fare.
Stavano percorrendo l’ultimo tratto della strada, di lì a poco sarebbero
arrivati a Terni. Qualche casolare prospiciente alla città mostrava i
segni del bombardamento del giorno precedente. Si tenevano larghi gli
angloamericani, nel far cadere le bombe dai loro aerei gracchianti nei
cieli delle nostre città. Dovevano colpire obbiettivi militari e strategici,
come strade e ponti, ma non disdegnavano di colpire obbiettivi civili.
Case e casolari e chiese con i civili dentro, gente che c’entrava poco
con la guerra, innocenti come si direbbe oggi, per commemorare le
vittime civili delle tante guerre, che dopo quella mondiale del 39-45
hanno continuato a deflagrare in giro per il mondo. A ricordarci se ce
ne fosse bisogno che la violenza fa parte dell’uomo e la pace è solo una
pausa nella lotta bestiale di sopraffazione dell’uno sull’altro, magari
ammantata da nobili principi. Oppure potrebbe essere vero anche il
contrario, i nobili fini hanno bisogno del sangue dell’uomo per
affermarsi. Già, che non suoni blasfemo, ce lo testimoniò Cristo
salvando l’umanità con il suo sangue. Non c’era altro modo, oltre le
parole, oltre l’onnipotenza, ci voleva quella violenza per ottenere lo
scopo. Com’è delle donne che per diventare madri e generare hanno
bisogno di quella prima violenza, di quel sangue, che segna il
passaggio dall’adolescenza alla maturità. Così per i maschi semiti il
violento, sanguinoso taglio del prepuzio segna l’ingresso nella
comunità. E per estirpare il tumore annidato nei visceri bisogna
violentare il corpo e far uscire sangue che lorda le mani del chirurgo.
La strada che conduce a Utopia è lorda di sangue, come l’Essere che
deve storicizzarsi e diventare materia per riconoscersi ed esistere.
Ma gli anglo-americani non pensavano a queste cose, semplicemente
uccidevano la popolazione perché avevano detto loro che serviva per
vincere la guerra e tornare presto a casa. Terrorizzata dalla paura la
gente avrebbe fatto mancare il suo appoggio a coloro che resistevano.
Il terrore, più forte della conquista della libertà, della democrazia e di
tutte le altre amenità che si sono inventati per raccontare quella storia
di violenza. Qualcuno di quei soldati ci metteva del suo perché aveva
subito lutti a causa nostra, qualcun’altro obbediva malvolentieri non
comprendendo quell’accanimento sui civili.
Terni
era città industriale, non conservava nulla del borgo antico dei secoli
passati, né dell’Interamna romana, florido municipio posto alla
confluenza di due fiumi: il Nera e il Serra. Vi confluivano anche le
acque del Velino attraverso un’opera che i romani avevano
provveduto a rendere spettacolare con il deflusso dell’invaso reatino
in quello ternano. E furono le cascate delle Marmore con i fantastici
giochi di acque lungo la parete rocciosa.
I nostri entrarono in città che si svolgeva lungo la via Flaminia che
l’attraversava tutta da un capo all’altro sino alla porta spoletina da cui
si usciva dall’abitato. Oltre gli edifici civili, religiosi, e pubblici c’erano
enormi stabilimenti che occupavano la campagna circostante, in
prossimità delle colline dove sorgeva Papigno.
Acciaierie e fabbriche di armi che il regime aveva sviluppato per
preparare la nazione alla politica di potenza a cui riteneva fosse
destinata. Ma le fabbriche avevano una storia più antica, risaliva alla
seconda metà dell’Ottocento nel tempo della rivoluzione industriale
d’Europa, che per l’Italia vide in Terni un primo importante centro. Per
altro come tante città poste lungo il corso di fiumi e ricche dunque di
acqua, anche nei secoli precedenti la città era stata sede di opifici che
traevano l’energia dall’acqua.
Ma oltre la vocazione industriale e mercantile che aveva fatto di Terni
una città moderna, gli storici ricordano i fatti e gli uomini che hanno
nobilitato la romana Interamna. Per tutti l’aver dato i natali
all’imperatore Tacito, e forse lo storico senatore romano omonimo. Ma
questa cosa non è certa.
Procedevano lungo la strada, in una giornata che era diventata
luminosa, bella a vedersi e a sentircisi dentro. Il cuore si rallegrava, ma
ad affliggere quello stato d’animo c’era il mare di macerie che si
presentava ai loro occhi. Il giorno precedente le fortezze volanti
avevano colpito duro, case distrutte, mattoni e pietre ancora fumanti.
Grappoli di persone intorno alle macerie nel tentativo di recuperare
quello che rimaneva delle cose della vita. Voragini sulle coperture dei
grandi stabilimenti che si vedevano in lontananza. La gente parlava
sommessa, come chi, scampato un pericolo mortale, apre l’animo al
dolore che la vita conservata gli propone. I congiunti feriti o uccisi, la
casa distrutta, la necessità di ricominciare a vivere.
Ma come ricominciare?
Ognuno aveva un suo lutto, una sua difficoltà.
Intanto si cominciava a mani nude a rovistare tra le macerie, non c’era
altro da fare. Avrebbero trovato lì il senso e la prospettiva del domani.
Udirono qualcuno che raccontava di un allarme scattato troppo tardi,
che non aveva permesso a tutti il riparo nei rifugi. Ne era seguita una
strage di civili. Silvio e Zeno temettero per la Caterina.
Lei abitava in una delle case a schiera lungo il tratto nord della
Flaminia, quello più prospicente alle acciaierie, il timore che la sua
casa potesse essere stata colpita era giustificato. Affrettarono il passo
e quando giunsero in prossimità della casa, tirarono un sospiro di
sollievo: quella e le altre intorno erano intatte. Le bombe lì non erano
cadute.
La casa di Caterina era parte di un lungo caseggiato a schiera, come
accadeva di vedere nelle città industriali. Alloggio dei lavoratori delle
fabbriche, una contiguità del luogo del lavoro e della vita per
massimizzare la produttività. Caratterizzava altresì l’appartenenza ad
una classe distinta da quella dei borghesi abitanti del centro cittadino
o nelle ville della campagna limitrofa.
La transumanza delle classi, la rottura evidente degli seccati non si era
ancora consumata, ma la cosa se pur segno di una sorta di
ghettizzazione, creava anche una identità forte, da cui sarebbero nati
sommovimenti sociali e nuovi equilibri. Caterina abitava lì con il
marito vigile del fuoco a Terni. Lo aveva conosciuto in occasione di un
cantiere che il padre Umberto seguiva da assistente nella città. In
quella occasione Umberto aveva portato con sé la famiglia. Il
soggiorno ternano fu occasione d’incontro tra i due giovani, ne seguì il
fidanzamento e poi il matrimonio. Zeno bussò alla porta, vi si arrivava
percorrendo un minuscolo giardinetto che correva a ridosso della
strada diviso da questa tramite un basso muretto di mattoni rosa. Le
case erano basse: un piano terra e un primo piano sopra a cui si
accedeva da una scala interna. Quelle poste all’inizio e alla fina della
schiera avevano la scala esterna a riproporre il modulo delle case
contadine della campagna umbra. Come memoria di ciò che si era
prima della modernità: riscatto e nostalgia ad un tempo. Dentro: la
cucina, il bagno e una stanza d’ingresso al piano terra, e al primo piano
le stanze da letto.
Zeno bussò ancora e da dentro si sentì una voce femminile rispondere:
“chi è?”. “Sono tuo fratello Zeno, Caterina ci apri”?
Lei corse ad aprire, allargò le braccia e strinse a sé il fratello.
Si amavano, lui era il fratello maggiore, l’orgoglio della famiglia.
Dopo i genitori, era un altro padre per tutti i fratelli e le sorelle, e lei
era la più grande delle sorelle, dunque si sentiva di avere con lui un
rapporto preferenziale. Quando Zeno tornava a casa dai lavori in giro
per l’Italia, portava un regalo a tutti e quello per Caterina era il più
bello. Era festa grande in casa e ora trovarselo davanti, inaspettato, era
felicità assoluta. Salutò con una leggera soggezione lo zio Silvio, il
giovane con loro e pregò tutti di entrare. Si raccontarono e mentre le
parole muovevano l’aria, Caterina si mise a preparare da mangiare.
Allo zio Silvio che le chiedeva del marito Andrea, lei disse che si
trovava al lavoro. Sarebbe tornato tardi o per niente, impegnato a
rimuovere le macerie delle case bombardate. Il giorno precedente. era
tornato verso mezzanotte, poi all’alba era ripartito. Lei era
preoccupata per quel lavoro pericoloso in specie durante una guerra,
ma era meglio che andare al fronte. L’essere vigile del fuoco in quella
città ricca di fabbriche e opifici vari nei settori dell’acciaio, della
chimica, delle armi, lo aveva esentato dall’essere arruolato
nell’esercito e mandato sul fronte russo. Come poi seppe che era
accaduto per la divisione dove sarebbe stato inserito. Dunque era
preoccupata per il suo lavoro di vigile, ma meglio cosi ed averlo con sé,
piuttosto che saperlo lontano ed esposto a più gravi pericoli della
guerra. Poi lei raccontava che Andrea era uomo prudente, si augurava,
voleva essere certa che non gli sarebbe accaduto niente. Silvio e
Davide si erano messi a sedere intorno alla tavola che Caterina aveva
velocemente preparato in un intervallo del lavoro ai fornelli.
Con Zeno continuavano a raccontarsi dei loro a Sigillo. Lei nominava
poco Regina e Tarquinio, c’era una gelosia non manifesta, tenuta
nascosta, ma comunque percepibile per chi conoscesse quella famiglia.
C’era di mezzo la rarefazione delle visite del fratello nella casa paterna
a causa del lavoro fuori, ma soprattutto del recente matrimonio
occorso quattro anni prima. Così i rapporti di Caterina e delle sorelle
con la Regina non erano, e non sarebbero mai stati limpidi.
Covava sempre un malumore di fondo che la ragione non accettava,
ma quello pervicace resisteva.
Si misero a tavola anche loro due, una volta terminato di cucinare. Era
riuscita a preparare un bel pranzo con quello che l’economia di guerra
consentiva. Memore dei costumi materni, nel giardinetto avanti casa
aveva seminato verdure e ortaggi e non mancava un pollaio per
animali da cortile, così uova e ogni tanto carne non mancava, accanto a
quello che lo stipendio di Andrea e la tessera annonaria consentivano.
L’acquisto nei negozi, a causa della guerra erano spesso carenti. Alla
fine tirò fuori anche un po’ di caffè buono macinato, con il quale riempì
il passino di una caffettiera quasi intonsa, segno del privilegio che
accordava loro. Fu un piacere incredibile per i tre ospiti, che non
ricordavano più il sapore del caffè. E quel finale accanto al cibo
consumato fu occasione di infiniti ringraziamenti. Venne il tempo di
andare, tutti e tre si alzarono e si diressero alla porta, Caterina si
accostò ad un orecchio di Zeno e gli confidò la felicità immensa che in
quel tempo di guerra fugava tutte le amarezze, paure e difficoltà: stava
aspettando un figlio, il primo. Non lo sapeva nessuno, lo aveva detto
solo a lui, oltre naturalmente ad Andrea. Si salutarono con un
arrivederci a Sigillo. “Speriamo presto” disse lei sulla porta, rivolta a
loro già nella strada, incamminati in direzione di Spoleto.
Verso Spoleto
La strada proseguiva diritta verso un varco che si vedeva in
lontananza tra le montagne che chiudevano a nord-est la conca
ternana. Nel lasciare la città il terreno iniziò a salire leggermente,
annunciando un percorso che li avrebbe fatti salire a quota ottocento
metri sul livello del mare. Rispetto ai centotrenta metri di Terni dove
si trovavano: era una discreta scarpinata!
Abbandonate le case a schiera della periferia, passarono davanti a case
singole che si fecero via via più rare e discoste dalla strada, sino a
perdersi lontane nelle forre e nei rari tratti di campagna circostante.
A destra sulle alture videro il paese di Papigno, subito sopra le
acciaierie dalle quali gli abitanti traevano occasione di lavoro e
malanni. Quest’ultimi contratti in fabbrica e potenziati durante il
riposo a casa, per i fumi degli altoforni che arrivavano sin lì, a colpire
tutti, loro e le famiglie. Ma di queste cose si sarebbe parlato solo molti
anni dopo. Allora non si avevano queste attenzioni per la salute nei
posti di lavoro, e in quel periodo, con la guerra in atto, ancor meno.
L’attenzione ai bisogni della gente è pratica virtuosa e anche ruffiana
per ottenere il consenso. Ma è dei tempi di floridezza e di pace, non dei
tempi di trasformazione e di avventura, come furono quelli del regime
fascista, che alla fine avevano significato la guerra scellerata.
Arrivarono alla frazione di San Carlo.
Si trattava di poche case a ridosso della Flaminia.
La località segnava il confine tra la conca ternana e l’inizio della stretta
gola che avrebbe portato al valico della Somma.
Così si chiamava il passo che delimitava da un lato il territorio ternano
e dall’altro l’ampia pianura umbra che da Spoleto si estende sino a
Perugia e dove sorge Foligno, Assisi e tutte le altre località sparse nella
pianura e sulle colline che la circondano. Il valico era anche il confine
tra due province: Terni e Perugia.
Era di quegli anni l’istituzione della provincia di Terni. Si disse che
Mussolini per dare ai romani una loro montagna dove sciare, tolse il
Terminillo e il territorio circostante all’Umbria a favore del Lazio,
creando due nuove province: Rieti nel Lazio e Terni in Umbria.
La strada era stretta, una carreggiata striminzita, sulla quale l’incrocio
di due mezzi era possibile solo nei tratti lineari, non in curva. Accanto
alla strada correva un viottolo, forse antico tratturo, lì da prima che il
console Flaminio costruisse la via. Questo tratturo nei tratti meno
rocciosi del percorso si allontanava un pò, immergendosi nel verde
circostante. Per tale motivo presero a percorrerlo: una precauzione
che giudicarono opportuna. La natura intorno era scarsamente
antropizzata, nei tratti boscosi, lussureggiante. Pini, querce, lecci,
carpini, ornelli, coprivano i fianchi delle montagne che si affacciavano
sulla vallata, questa, forse prodotta da un corso d’acqua di cui non
c’era più traccia. Il tempo era bello, splendeva il sole in un cielo privo
di nuvole. In alto volteggiava una coppia di poiane, cercavano sui
fianchi della montagna l’aria calda che i raggi del sole in un ultimo
bagliore riscaldava. Dall’alto avrebbero scommesso di trovare
qualcosa per chi nel nido, con i becchi aperti, aspettava del cibo per
sopravvivere un altro giorno ancora, nell’attesa del volo per il quale si
stavano preparando e che li avrebbe affrancati dalla tutela genitoriale.
Il sole sarebbe scomparso a breve dietro le montagne ad occidente,
per intanto l’aria serena sapeva di un autunno tenace che rimpiangeva
l’estate trascorsa e si ritraeva dalla inevitabile metamorfosi
nell’inverno incombente. Nessuno in giro, non c’era campagna
coltivabile intorno, erano scomparsi i casolari dei contadini della
pianura. Rare case lungo i contrafforti probabilmente di boscaioli. Un
po’ di gente l’avrebbero trovata una volta arrivati al paese di Strettura,
l’unico paesello di quel tratto della Flaminia da dove sarebbe
cominciata la salita più aspra. Strettura, che già nel nome annunciava
che da lì in poi il percorso sarebbe stato più angusto, con la strada che
dal fondo valle si sarebbe scavata una fenditura sul fianco occidentale
della montagna. E in quel secondo tratto la strada sarebbe salita di
molto sino ad arrivare al valico. Per intanto camminavano di buon
passo spesso appaiati dove la strada lo consentiva. Erano partiti il
mattino dalla stazione di Narni scalo, dopo circa quindici chilometri,
compresa la sosta a san Lorenzo erano arrivati a Terni a casa della
Caterina. Partiti di lì, dopo altri quindici chilometri una volta arrivati a
Strettura, in totale avrebbero percorso dal mattino trenta chilometri.
Era pomeriggio, se il tempo si fosse mantenuto bello forse ce
l’avrebbero fatta a percorrere l’ultimo tratto di salita sino al Valico.
Non sentivano ancora la stanchezza delle membra, la mente era tutta
volta a coordinare l’attività dei muscoli e del cuore, lasciava poco
spazio a ragionamenti o programmi, come se la sua parte nobile si
fosse addormentata a favore della parte vegetativa, quella più
profonda, ancestrale che aveva a che fare con la fisiologia degli organi
e di quelli locomotori in particolare. Il corpo era chiamato a
camminare e finché non fosse sopraggiunta la stanchezza, godeva
dell’armonioso movimento delle ossa, dei muscoli, del fluire accelerato
del sangue nei vasi, dell’aria aspirata da polmoni dilatati. La specie
uomo ci aveva messo qualche milione di anni per arrivare a quella
perfezione, da quando era riuscito ad alzarsi dal suolo e ad ergersi
eretto sul circostante. Allora cominciò a camminare e non si fermò più,
sino a colonizzare il mondo. Ma da qualche parte, nelle pieghe dei
muscoli, delle ossa, o degli altri organi era custodita la memoria di
quel processo straordinario di cui la mente era inconsapevole, arrivata
dopo, per ultima, relegata in un’impenetrabile calotta ossea, quasi a
non voler mischiarsi con il sottostante, separata, se pur collegata a
tutto il resto attraverso emissari con pretesa di dominio. No, tutto
quello che era accaduto, era scritto in una lingua non decifrabile dalla
mente, aveva a che fare con qualcosa di diverso, complementare alla
ragione che albergava in luoghi sconosciuti. Un mistero di cui
rimaneva traccia, come di cosa buona con quel senso di soddisfazione
e piacevolezza che veniva dallo svolgersi di quelle funzioni del corpo.
Era un ringraziamento all’artefice sconosciuto di quel miracolo. Era
percorrere i territori del divino. La mente c’entrava solo come starter,
come nel loro caso, quando aveva impresso l’ordine di muoversi.
Bisognava portare quell’ammasso di cellule, e funzioni, lontano da
Terni e sempre più vicino al loro paese, per raggiungere il quale si
erano messi in viaggio. Il corpo sapeva che questo era il suo compito,
le altre funzioni come quelle nobili del cervello erano un di più. Ma il
di più c’è sempre, magari inespresso e sotterraneo e in quel momento
per loro erano pensieri e parole in libertà che uscivano rivolte agli altri
e al mondo intorno, ma senza attendersi risposte, come un motore
acceso al minimo, non in marcia. Parole dall’uno all’altro e dall’altro al
circostante costruite e rese alate da ricordi, sensazioni corporali, figlie
di un corticalità a riposo, in attesa di altri più impegnativi cimenti.
“Io non sono stanco e voi? disse Silvio,
poi qui l’aria è buona non è quella malsana che abbiamo respirato a
Terni e questo aiuta, aggiunse. Non vi pare? “
Assentirono gli altri e a ciascuno quel richiamare la salubrità dell’aria
fece venire in mente ricordi: Zeno risentì l’aria di montagna di quando
da ragazzi si andava a fare legna sul monte sopra il paese, così anche
per Davide la mente andava alle scarpinate sull’alta montagna che si
erge sopra la marina e al sapore di mare che si mescolava a quello del
monte. Silvio riprese sullo stesso argomento e raccontava l’aria
pesante, malata, della campagna romana quando avevano cominciato
a porre il cantiere dell’Expo 42. Gli altri aggiunsero altre cose che non
centravamo più con l’aria. Da una cosa all’altra, parole in libertà
scambiate l’un l’altro, suggello del loro star insieme, del vincolo di
comunione che li univa, anche con il nuovo, l’aggiunto, sconosciuto
sino a due giorni prima.
Le loro voci avevano rotto il silenzio di quell’ora del pomeriggio. La
temperatura quasi da tarda estate aveva chetato la vita arborea e
animale circostante. Solo il volo discreto degli uccelli migratori, in alto
sopra le cime dei monti, aveva fatto da contrappunto alle parole degli
umani in basso. Lungo la strada da quando erano entrati nella gola tra
i monti non avevano incontrato nessuno: se n’erano meravigliati.
Quando ormai, intenti a camminare e presi da altri pensieri, la
meraviglia del mancato traffico era scomparsa, d’improvviso udirono
il rumore di un camion in lontananza che, provenendo dalla parte di
Spoleto, si stava avvicinando. Arrivò veloce ma la strada in quel tratto
presentava un avvallamento che costrinse il guidatore a rallentare il
passo, così dal tendone posteriore scompigliato dal vento della corsa,
affiorarono visi di ragazzi seduti sulle due panche laterali, stretti l’uno
all’altro, con gli occhi a guardare il compagno di fronte. Qualcuno
indossava la camicia nera, i più in abiti civili, alcuni con un moschetto
in mano, come da esercitazione premilitare frettolosamente interrotta.
Pochi di loro dal volto deciso, come di chi avviato verso qualcosa che
aspettava con impazienza da tempo, da sempre. Gli altri con qualche
piega sul bel volto della giovinezza che raccontava preoccupazione e
indecisione. Li videro bene i nostri, parzialmente coperti dalla
vegetazione che nascondeva il tratturo. Ma uno dei destinati a triste
sorte li vide, loro si accorsero e ne ebbero paura. Ma quello non disse
niente e quando il camion riprese la sua andatura, veloce, con una
mano, non visto dagli altri, li salutò. Loro risposero. I cuori di padri di
Silvio e Zeno si riempirono di commozione. Incontri nei giorni della
vita. Destini di gente sconosciuta che si incrociano. Il bisogno di una
comunione, una mano che si protende, mossa da antiche virtù. Un
attimo e poi via, ognuno per strade diverse. Incontri come grani di un
rosario. Danno un senso e un ristoro al lungo andare della vita.
Nel paese di Strettura in prossimità del valico della
Somma
Pensarono fossero diretti a Terni per rispondere alla chiamata alle
armi che il maresciallo Graziani aveva proclamato alcune settimane
prima, dopo la riunione al cinema Adriano a Roma.
Il camion riprese la sua corsa.
Udirono i versi di una canzone che parlava di giovinezza ma
l’entusiasmo che colorava quella parola se n’era andato nella sabbia
del deserto africano, nel ghiaccio della steppa russa, ancor prima sulle
montagne della Grecia, per ultimo sotto le bombe dei liberatori anglo
americani. Prima di infrangersi nei gironi infernali del conflitto,
Giovinezza era stato un canto, di più, un’epica che aveva
accompagnato le adunate oceaniche del Duce, aveva riscaldato il cuore
di adolescenti, riempito di sogni e aspettative quelle anime virginali.
Ora, tanti camion come quello trasportavano gli adolescenti di ieri
verso la tragedia finale. Altri camion in giro per l’Europa, ricolmi di
soldati italiani, guadagnavano i campi di concentramento tedeschi, dai
quali solo una parte sarebbe tornata a casa.
Il canto dopo la prima curva si attenuò sino a scomparire.
Dopo pochi mesi quegli stessi ragazzi o altri come loro, avrebbero
cantato un’altra canzone, l’ultima. Il primo verso diceva così: “le
ragazze non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera”. Era
così, non solo le ragazze, ma nessuno li amava più. Portavano addosso
il puzzo della morte imminente, fucilati dai partigiani o dispersi e
nascosti per il mondo.
Lasciarono il tratturo e tornarono sulla strada principale, in fondo
cominciarono a vedere le case di Strettura. Vi arrivarono. Poche case
in fila sui due lati della strada, qualche persona in giro, un negozio di
alimentari, la chiesa in alto verso la montagna sul lato occidentale,
incredibilmente una farmacia, e un negozio di macelleria di carni
bovine ed ovine.
Si fermarono lì.
C’era bisogno di provviste, forse vi avrebbero trovato qualcosa da
poter conservare per i giorni a seguire. Speravano che le restrizioni
della guerra non avessero colpito duro, magari qualcosa gli esercenti
lo avevano nascosto, sottratto al commercio ufficiale. Si chiamava
borsa nera e in città permetteva di andare avanti compensando la
tessera annonaria. Soprattutto la vicinanza con i campi e i boschi di
quella parte dell’Umbria, dove c’era ancora chi coltivava terra e
armenti, lasciava sperare bene. Si era lontani da Terni e anche da
Spoleto, se non fosse stato per la strada di grande comunicazione, quel
paese e la zona limitrofa poteva essere un angolo di mondo
risparmiato dalla tragedia bellica. Entrarono, videro merce su un
lungo bancone di pietra. Da un lato un po’ di carne salata per una
lunga conservazione: una lonza, un capocollo, una parte di prosciutto,
alcune salsicce secche. In mezzo pendeva da un gancio, una vescica di
strutto. Dall’altro lato un pane di coppa. C’era anche mezza forma di
formaggio. Nel complesso poca roba, ma tanta per il periodo. Dietro il
bancone, un ragazzo poco più che adolescente, con il quale, prima di
parlare di acquisti, i tre viaggiatori presero a chiedere e a fare
domande. Lui non si sottrasse e confermò che il negozio si serviva dai
contadini e allevatori di bestiame della zona. Più precisamente da
quelli oltre la montagna, verso il territorio della val Nerina e la qualità
del prodotto aveva creato un buon giro di clienti nel loro negozio. Ora
si era ridotto per la guerra, e ultimamente avevano subito anche furti
da parte di sbandati che passavano per la via. Avevano timore che le
cose sarebbero peggiorate da quando avevano visto transitare i
tedeschi e sentito i bombardamenti su Terni che raccontavano
l’avvicinarsi del fronte e l’incrudire anche in quelle contrade del
conflitto. Di conseguenza macellavano di meno e sul bancone come
loro avevano potuto vedere, oltre la coppa non c’era carne fresca. Solo
quei prodotti salati preparati mesi prima. Quello che avevano, era
stato messo tutto sul bancone il mattino, e quello che vedevano era ciò
che era rimasto. Per tradizione quello era il giorno della settimana nel
quale la gente del paese e del circondario veniva a fare spesa.
Altrimenti negli altri giorni tenevano tutto in un ripostiglio fresco
attiguo al negozio. Parlò di un padre che stava sotto le armi e di una
madre e un fratello più piccolo che ora erano in casa. Il negozio lo
mandava avanti la mamma e lui aiutava. In quel momento lei
impegnata nelle faccende di casa con il fratellino che diligentemente le
dava una mano. Aggiunse che comunque di lì a poco lei sarebbe
venuta, anzi se volevano prendere qualcosa, era meglio che ci fosse lei
e affacciatosi oltre una porta che dava sulla casa attigua la chiamò.
La donna dopo un po’ apparve sul vano che divideva il negozio
dall’abitazione.
Apparve sì, perché si trattò per i tre uomini di una visione. L’idea di
bellezza femminile che ognuno di loro in modo diverso custodiva
dentro di sé, si materializzò per incanto, e per tutti, in quella donna
che era apparsa sulla porta.
Ai tre viaggiatori quasi si fermò il respiro e sgranarono gli occhi, non
avevano mai vista una bellezza così assoluta.
Indossava una veste, lunga sino al ginocchio, abbottonata sul davanti.
In alto l’ultimo bottone slacciato scopriva ampiamente il collo, poi,
quel drappo di cotone morbido e ampio scendeva a coprire i seni, dei
quali lasciava intravedere il solco divisorio, e il resto del corpo.
Ma non riusciva a nasconderne le sinuosità che urgevano dentro come
in una prigione. E con il movimento si manifestavano, se pur coperte, e
per questo più attraenti e disperanti. Si intuivano le cosce levigate che
l’ultimo bottone slacciato lasciavano intravedere, come il seno florido,
rotondo, che appariva parzialmente nel muoversi di lato della donna,
attraverso la scollatura. E quello che non si vedeva, appariva ancora
più conturbante: una salienza della veste, esasperata dai capezzoli, che
inutilmente e pudica il vestito ricopriva; più in basso i fianchi che
succedevano con armonia all’incavo del punto vita; l’addome piatto
che si pronunciava in fondo con la salienza della regione pubica.
Un corpo di media statura, formoso, ma nel contempo leggero ed
elegante nel muoversi, un viso di un ovale perfetto, carnagione
olivastra, una bocca che si apriva ad illuminare tutto il viso, due occhi
neri come i capelli che ricadevano in ciocche sul collo e sulla fronte.
Il tutto illuminato da un sorriso perenne, inevitabile corollario di tanta
bellezza che si offriva agli altri.
E con quel sorriso, guadagnato il bancone, si rivolse ai nuovi clienti
così: cosa possiamo servire a questi bei signori?
Loro, pur non parlandosi, sentirono tutti la non urgenza dell’acquisto,
che avrebbe significato andarsene subito dopo, e non ci stava con il
desiderio di prolungare quella sosta. C’entrava la bellezza della donna,
certamente. Non perché avesse fatto intravedere loro, programmi
malandrini: No!
Più semplicemente volevano, se possibile,
prolungare il piacere di quella visione di bellezza. Lei si era rivolta a
loro con tale innocente gentilezza che il gesto di comprare, pagare e
andarsene appariva come cosa mal fatta. Era bella sì, ma oltre quello,
era donna sola con due figli: quasi avvertivano l’impulso di offrire
protezione, fosse solo di gesti e parole e di un po’ del loro tempo.
Così ripresero il discorso interrotto con il figlio al suo apparire e
raccontarono di loro, al chiedere di lei da dove venissero e dove
fossero diretti. Parlarono delle famiglie, quasi a significare che erano
persone per bene e che non aveva nulla a temere: così era. Ciò
nonostante nel parlare e nel suo muoversi dietro il bancone, lei
lanciava, non voluti, inevitabili messaggi erotici, che mettevano a dura
prova i sensi e gli ormoni adolescenziali di Davide. Dunque il ragazzo
rivolgeva altrove mente ed occhi per placare l’ardore che urgeva nel
corpo.
Lei raccontò del marito che si trovava
in Russia, e di cui non aveva più notizie da qualche mese. L’avevano
arruolato nel luglio dell’anno precedente, destinazione, da quello che
lui scrisse alcune settimane dopo, la parte meridionale del fronte
russo sul fiume Don. Poi dal gennaio dell’anno in corso, le notizie
avevano cominciato ad essere meno frequenti, fino ad interrompersi
del tutto da qualche mese a quella parte. Era preoccupata, non lo
faceva vedere ai figli, ma era preoccupata. Per lui e anche per loro. Non
sapeva come sarebbero potuti andare avanti senza. Ora e in futuro se,
Dio non volesse, gli fosse accaduto qualcosa. Erano soli, i genitori di
lei, anziani, abitavano in paese ma avevano loro bisogno, non potevano
darle sostegno di nessun tipo, oltre la vicinanza affettiva. Il marito era
originario di un paese vicino, e non buoni erano i rapporti con i
parenti che non l’avevano mai vista di buon occhio. Dunque sperava
solo nell’aiuto del Signore e della Madonna a cui si raccomandava ogni
giorno. Ma buone notizie dal fronte di guerra non venivano. Anzi si
sentiva parlare da qualcuno del posto, che dichiarava di conoscere le
cose di Russia e dell’andamento della guerra, per via di relazioni che
intratteneva con importanti personalità a Roma, che le cose non
andavano bene, soprattutto in Russia.
A quelle parole Zeno fu mosso da un sentimento di pietà per la donna.
Sapeva che le truppe italiane a gennaio avevano iniziato la grande
ritirata, che si era conclusa a marzo. Dei sessantamila uomini
dell’armata italiana ne erano tornati ventimila, circa un terzo. Gli altri
dispersi nella grande pianura russa, chi morto congelato, o ucciso dai
russi, chi accolto nelle case della popolazione locale, chi prigioniero
nei campi di concentramento. Non aiuti dalla patria per i sopravvissuti
in cattività.
Si raccontò che fu contattato Togliatti, allora influente
personalità politica a Mosca. I malevoli riferirono che lui rispondesse
così: “non farò niente per i soldati di un esercito invasore fascista. Non
dovevano essere qui”!
Altri più benevoli dissero che non poteva fare niente.
Chi riuscì a tornare fu testimone di cose terrificanti riguardo alla
ritirata a piedi nella neve. La nostra propaganda aveva esaltato gli atti
di coraggio delle nostre truppe: il sacrificio degli alpini che si
immolarono per consentire la ritirata al grosso delle truppe; o
l’eroismo del generale Reverberi con i suoi a Nikolajevka, quando
riuscì ad aprire un varco tra le truppe sovietiche che avevano bloccato
la via della ritirata; e ancor più l’impresa del 42’ a Isbuscenskij, dove il
Savoia Cavalleria caricò i russi al grido Savoia !!: sbaragliandoli.
Ma le celebrazioni furono sottotono in un momento in cui appariva
chiaro che si stava perdendo la guerra.
Zeno pensò al fratello Alceste morto in Grecia l’anno prima, e quel
sacrifico aveva consentito a lui il rientro in patria dall’Albania, dove
era stato mandato come carrista, anche lui destinato al fronte greco.
La fede socialista insieme agli avvenimenti che lo avevano coinvolto o
di cui aveva notizia, lo confermava nel pensiero dell’assurdità di quel
conflitto con la disfatta e la rovina che ne erano seguiti. Comprese che
agli uomini giovani come lui, scampati alla morte o alle menomazioni
fisiche, sarebbe spettato il compito di ricostruire l’Italia. Immaginava
che poi non sarebbe stato nulla come prima. Ci sarebbe stato spazio
per lui e gente come lui, un riscatto delle classi popolari dei lavoratori
e dei contadini sotto l’insegna, sperava, del socialismo. Per intanto si
trattava di portare a casa la pelle e poi vedere come si sarebbe svolte
le cose.
Nel frattempo erano arrivati due clienti, loro si erano fatti da parte,
seduti intorno ad un tavolinetto in un angolo del negozio. Parlarono
tra loro sulle cose da comperare per il viaggio. Considerarono anche,
se fosse il caso di riprendere il cammino o fermarsi nel paese per la
notte. Ormai era pomeriggio inoltrato, c’era ancora luce, ma tra non
molto sarebbe tramontato il sole. Avevano avuto in animo di arrivare
al valico, ma una volta lì, si sarebbero dovuti fermare, non potevano
proseguire nella discesa per Spoleto al buio, di notte. Ora in quel paese
avrebbero potuto cercato un alloggio, magari presso quella donna, o
comunque chiedendo a lei dove. Decisero a quel modo anche se Silvio
aveva fatto notare che lui se la sarebbe sentita di camminare ancora.
Però gli dissero di considerare che oltre il resto, la strada sino al valico
sarebbe stata in salita, dunque non agevole, in particolare per lui, dopo
tutte quelle ore di cammino, da quando, il mattino, erano partiti dalla
stazione di Narni.
I sopraggiunti clienti, comprate due cose se n’erano andati, ed ora la
donna era di nuovo libera e disponibile. Le chiesero di preparare dei
viveri da portare via, individuandoli tra quelli esposte nel bancone. Lei
aggiunse del pane che teneva in casa, del formaggio e come cosa non
richiesta, al modo di un regalo, un dolce tipico di Terni, il “pan pepato”,
di cui era rimasto un pezzo.
Avevano continuato a parlare della guerra, della difficoltà di tirare
avanti per le famiglie, a causa delle restrizioni alimentari e di tutti gli
altri generi che occorrevano per vivere.
Il presente e l’immediato futuro erano certamente foschi, con gli
alleati che avanzavano, e i tedeschi che continuavano a scendere dal
Brennero. Gli italiani in età d’armi: chi imboscato, chi arruolato tra le
truppe dei fascisti irriducibili, chi fattosi partigiano, schierato con i
passati nemici. Loro, i partigiani, consapevoli di essere dalla parte
vincente del conflitto, che aveva contrapposto le democrazie
occidentali e il paese dei soviet ai governi dittatoriali d’Europa:
Germania e Italia in primis, con gli altri stati aggregatisi compresa la
Francia sconfitta. La Russia era la variabile, nel senso di una dittatura
schierata con le democrazie. Ma per vincere la Germania e i suoi alleati
si erano messi tutti insieme e rimandato al poi l’emergere delle
differenze. Sta di fatto che in Italia gli irriducibili avversari del
fascismo della prima ora stavano venendo fuori, e dietro loro le fila si
andavano ingrossando, mano a mano che l’avanzata alleata
progrediva, e il destino finale della guerra appariva sempre più
segnato.
La donna seguiva e partecipava a quei discorsi degli uomini con
atteggiamento mesto. Lei non sapeva di politica, ascoltava, ma quel
parlare le procurava una stretta al cuore, un malessere, che veniva
dalla preoccupazione del marito in Russia, insieme al pensiero della
famiglia da tirare avanti.
Fuori si era fatto scuro, e ormai era l’ora della chiusura del negozio.
Lei non disse nulla ma nell’atteggiamento qualcosa tradiva
un’impazienza.
Loro se ne avvidero e avendo ormai preso la decisione di rimanere in
paese, le comunicarono la cosa, chiedendole se potesse indicare un
posto dove passare la notte. Lei rispose che in paese non c’erano
alloggi, e non sapeva come avrebbe potuto aiutarli. Certamente non
poteva ospitarli a casa per un problema di spazio e anche per la
convenienza. I paesani avrebbero avuto qualcosa di cui sparlare.
Immaginava i parenti del marito, se fossero venuti a conoscenza della
cosa. Rimase in silenzio per un po’, poi disse che se si accontentavano,
c’era dietro la casa, verso la campagna, non visibile dal paese, una
rimessa. Sopra, un piano adibito a fienile al quale si accedeva con una
scala. Era tutto coperto da pareti eccettuato sul davanti dove era
aperto. Vi avrebbero potuto passare la notte visto che non faceva
ancora freddo e con qualcosa con cui coprirsi sarebbero stati bene.
Loro si consultarono, ma non a lungo e ringraziarono grati,
aggiungendo che oltre alle provviste avrebbero pagato il disturbo del
pernottamento. Solo che, aggiunse la donna, non dovevano farsi
vedere per il motivo delle chiacchiere. Dunque, usciti dal negozio, che
riprendessero la strada per il valico e poi deviassero per la campagna
e da lì avrebbero potuto raggiungere il fienile. Presa la decisione
vollero subito regolare i conti in modo che il mattino, svegliatisi alla
prima luce, sarebbero partiti, non visti. La donna si schernì ma accolse
con gioia il denaro che Silvio, fatto un rapido conto, decise fosse il
giusto pagamento, calcolato all’eccesso come ringraziamento per la
gentilezza della donna.
Uscirono, in giro nessuno. Le luci delle case e qualche raro lampione
illuminavano la strada. Caricati gli zaini sulle spalle, presero a
camminare in direzione del valico. A mano a mano che procedevano,
scomparvero le luci del paese, e il percorso entrò nella penombra. Il
chiarore che scendeva dalla luna si sostituì debolmente alla luce del
paese. Raggiunsero una curva che nascose la strada ad eventuali
curiosi. Si fermarono e piegarono non visti, per la campagna. La
percorsero per una cinquantina di metri, poi diressero i loro passi
indietro verso il paese che riapparve con le sue luci. Arrivarono a una
certa distanza dalla casa della donna, dietro la quale si delineò la
sagoma scura del fienile. Tra il fienile e la casa c’era un’aia, da questa,
una scalinata portava a un ballatoio della facciata posteriore
dell’abitazione, dove si apriva una porta, con accanto una finestra
illuminata. Dal lato del fienile una scala di legno a pioli conduceva alla
parte superiore dello stesso, diviso con un pavimento di legno dalla
parte inferiore, dove si trovavano attrezzi agricoli di vario tipo e
dimensioni, e uno stazzo per animali, che mostrava di non essere più
utilizzato da tempo. La struttura dei fienili di campagna era la stessa
ovunque, almeno in Umbria: tre pareti tirate su a mattoni e forati, con
la parte anteriore aperta. Lo scopo era favorire la circolazione dell’aria
perché il fieno potesse asciugare al riparo dalle intemperie, e nel piano
a terra un riparo per gli attrezzi per il lavoro della campagna e per gli
animali. Il soffitto di legno diventava pavimento per il piano superiore.
Sotto gli attrezzi, sopra il fienile. Salirono sulla scala e trovarono un
tappeto di fieno e paglia che a prima vista comunicò una sensazione di
morbidezza e calore. D’altra parte la temperatura dell’aria in
quell’autunno mite prometteva un riposo accettabile, nonostante il
riparo parzialmente all’aperto. Si crearono un giaciglio utilizzando i
giacconi che avevano indosso e qualcosa che portavano nelle sacche.
Subito dopo si coricarono per verificare l’impressione iniziale di un
giaciglio accettabile. Lo era. D’altra parte avevano trascorso la notte
precedente su una panchina della stazione di Narni scalo, dunque non
potevano lamentarsi. Il fienile poteva essere considerato una
sistemazione di lusso. Con quella sensazione positiva del giaciglio,
contenti e rinfrancati per aver trovato come trascorrere la notte,
allestirono sul davanti, in prossimità della scala, una tavola per il
desinare, utilizzando un giubbotto. Vi misero sopra le residue
provviste, più qualcosa di quanto avevano acquistato poco prima nel
negozio. Si sedettero e consumarono tra un discorso e l’altro il cibo e
un bicchiere del vino che era rimasto da Terni. Non erano al buio,
perché dalla casa della donna filtrava, attraverso la finestra del
ballatoio, una luce che bastava a illuminare parzialmente la loro
postazione. Così in pace e nel silenzio della sera avvertirono sulla loro
pelle che conquistare l’occorrente per vivere poteva essere tutto nella
vita di un uomo, soprattutto in tempi difficili e sciagurati come quello.
Mancava loro la famiglia, con quelli accanto, quel fienile sarebbe
diventato un albergo stellato. Era riservato ai benestanti il privilegio di
non dover lottare per sopravvivere, così da poter dedicare il proprio
tempo agli ozi della mente e del corpo: virtuosi o nefasti che fossero.
Pensieri alati che Silvio e Zeno articolavano in parole semplici che si
comunicavano l’un l’altro. Perché l’essenza del pensiero non ha
bisogno di una forma erudita per dispiegarsi. Non così giravano i
pensieri di Davide. Era inquieto, l’immagine di quella donna lo
tormentava, cercava di non pensarci, ma gli apparivano ancora più
conturbanti i tratti del suo corpo che la veste aveva lasciato
intravedere. Improvvisamente, lui prima degli altri, avvertì un fruscio
da basso e sportosi verso l’esterno, vide, veloce, una figura nel buio
che risaliva le scale del ballatoio. La riconobbe, era la donna del
negozio e sporgendosi ancora di più, notò, accanto alla scala a pioli, un
fagotto. Scese e riportò sopra l’involto. Ben piegate, tre coperte di lana
grezza. Si commossero e provarono in cuor loro una tenerezza infinita
per lei. Dissero parole di ringraziamento alla sorte che tra tante
brutture può riservare anche l’incontro con la bellezza, non solo fisica,
ma quella più alta e assoluta dell’anima e se queste due cose si
congiungono è il paradiso in terra. Ma per Davide quel parlare gli mise
addosso un’agitazione, una sorta di frenesia che calava come un fuoco
sullo stato d’animo che lo tormentava dal pomeriggio. Non si era mai
sopito quello stato d’animo, e ora si riaccendeva con quel gesto che lei
aveva avuto per loro e con quel parlare di poco prima circa la bellezza
e l’anima e il paradiso. Mentre in Silvio e Zeno quei discorsi e
sensazioni facevano pregustare il ritorno a casa, le persone amate da
abbracciare ed amare, per Davide, solo, lontano da casa, quella donna
apparsa nel viaggio con la sua bellezza e gentilezza dei modi e dei
sentimenti, diventava l’unica certezza e desiderio. In quel momento
non c’era altro cui potesse rivolgere il pensiero e il desiderio. La follia
dell’infatuazione allo stato nascente lo convinse della necessità di una
risposta a quel gesto del portare le coperte per la notte. Bisognava dire
un grazie o fare qualcosa comunque. In realtà non poteva resistere alla
voglia di dare un seguito al suo tormento. Così quando si sdraiarono
sul giaciglio, e avvolti dalle coperte, si disposero ad accogliere il sonno
riparatore, Davide aspettò il respiro pesante degli altri e circospetto si
alzò. Discese la scala, attraversò l’aia e si fermò sotto il ballatoio. Dalla
finestra filtrava attraverso gli scuri una luce discreta, meno intensa
che prima, come se fosse stata spenta quella principale e si fosse
accesa quella fioca di una bajour. Salì la scala, guardò oltre le persiane
accostate e i vetri. La vide distesa sul letto, la notte era calda, un
lenzuolo copriva il bel corpo, mollemente adagiato di fianco, una luce
come un lumino, illuminava su di una parete l’immagine di Gesù e
della Vergine Maria. Davide si beò nella visione di quella conturbante
bellezza, per istanti che avrebbe voluto interminabili, ma che il decoro
e la vergogna del gesto gli imponevano di non prolungare.
L’educazione ricevuta, la sua natura, servirono a placare l’impulso
selvaggio di andare oltre quella finestra. Si risolse a tornare al giaciglio
che lo attendeva nel fienile. La visione notturna del corpo della donna
avrebbe colorato i sogni della notte. Nello scendere dal marcapiano su
cui era salito, mise un piede in fallo e cadde rovinosamente a terra.
Non un gran rumore da svegliare i suoi compagni che non si avvidero
di nulla, ma sufficiente per la donna che si alzò e andò sul ballatoio da
dove proveniva il rumore. Lo vide a terra, si diresse verso di lui, che
goffamente tentava di rialzarsi. Mentre lei lo aiutava, lui, rosso di
vergogna, si affrettò a dire che non si era fatto niente. Quindi balbettò
qualcosa per giustificare la sua presenza lì. Lei capì e provò tenerezza
per quel ragazzo di bell’aspetto. Sorrise. Poi dal ballatoio dove lo aveva
raccolto, senza dire niente, si diresse verso la porta di casa. Lui
impietrito la seguiva con lo sguardo. Di lì a un attimo, sarebbe
scomparsa, lui rimasto lì con la sua vergogna poteva solo morire. Ma
lei non entrò, si appoggiò allo stipite e allargò le braccia verso di lui e
sottovoce disse: “vieni qui”. Alla debole luce della notte Davide vide e
sentì sul suo corpo quello di lei. Un momento che a lui sembrò
eternità, poi lei si distaccò, accarezzò con rapido gesto il viso di Davide
e rientrando in casa gli disse che era l’ora di dormire per tutti. Il
ragazzo salì sul fienile e si dispose a dormire.
Albeggiò, si alzarono veloci, prepararono gli zaini, scesero da basso, e
ripercorsero la strada tra i campi che avevano calcato la notte.
Si ritrovarono sulla Flaminia all’altezza della curva che nascondeva il
paese. Presero in direzione del valico, la strada era in salita ma non
ancora impegnativa. Nel procedere, la carreggiata si fece via via più
stretta e sempre più immersa in un bosco fitto di querce. Gli alberi
ancora adorni di foglie dei colori dell’autunno, in parte cadute in terra,
sì che la strada ne veniva tappezzata. Gli alberi con i loro rami
intrecciati formavano una galleria sotto la quale si snodava il
passaggio. Si era in Autunno e le foglie ormai diradate lasciavano
intravedere il cielo, ma chi fosse passato lì d’estate si sarebbe trovato
sotto una coltre impenetrabile ai raggi del sole, e la frescura avrebbe
regalato un andare meno faticoso. Ma anche in quel giorno d’autunno
la strada aveva l’aspetto di una galleria scavata nel bosco. Il sole non
era comparso dietro i monti ma la luce progressivamente più intensa
illuminava un cielo raro di nuvole. Nessuno sulla strada, silenzio
intorno, interrotto dal flebile canto degli uccelli sugli alberi e dal
rumore degli animali nella macchia che, in quell’ora del giorno, come
gli umani, si disponevano chi all’azione e chi al riposo. La strada prese
a salire sul fianco della montagna di destra quella ad est, dove più
intenso era il chiarore, messaggero del sole in procinto di apparire. La
consolare in quel tratto, era ancora come l’avevano costruita più di
duemila anni prima, i legionari di Gaio Flaminio Nepote, prima che lui
e i suoi perdessero la vita nella battaglia del Trasimeno contro
Annibale. Forse sotto lo strato sottile d’asfalto c’erano ancora le pietre
dell’acciottolato originario, ché tutte le vie consolari, per chiamarsi
tali, lo dovevano avere, a distinguerle dalle altre bianche intorno, che
si distaccavano dalla principale a formare il reticolo di comunicazioni
che aveva permesso di governare la repubblica e poi l’impero. Nel
procedere, la via abbandonava il bosco, avendo a destra la roccia della
montagna e a sinistra un muretto che la delimitava dalla forra
sottostante. Rari tratti rettilinei, continue curve che seguivano il
profilo della montagna.
Fatti alcuni chilometri si fermarono presso un fontanile coperto che
doveva funzionare come ristoro dei passanti e abbeveratoio per gli
animali da pascolo. Nel vascone si raccoglieva l’acqua, proveniente da
un tubo di ferro, gelido al tatto per l’acqua sorgiva che irrompeva
attraverso di esso nel vascone. Da una apertura del pavimento usciva
l’acqua, bagnando il terreno intorno e la strada. Si fermarono. Erano
partiti, appena svegli, alla chetichella per seguire le raccomandazioni
della donna, ora occorreva mangiare qualcosa e si sarebbero dissetati
con l’acqua della fontana. Si sedettero a terra su una radura in
prossimità. Tirarono fuori dalle sacche del pane, tagliarono alcune
fette di capocollo e un pezzo di pan pepato, il dolce che la donna aveva
regalato loro. Divisero tutto per tre e mangiarono. Avevano proferito
poche parole dal momento in cui si erano alzati sino a questo della
sosta. Impegnati nella salita, avevano risparmiato le forze, anche se il
tragitto per arrivare al valico non era lungo, meno di una decina di
chilometri in tutto, ma progressivamente più duro. Si andava dai
nemmeno duecento metri di Terni ai settecento del valico della
Somma. Ora mangiando e bevendo scambiarono le prime parole: un
accenno alla donna magnificandone la gentilezza e l’avvenenza e poi a
parlare nuovamente di casa. Calcolarono che da dove si trovavano
rimanevano un po’ più di ottanta chilometri per arrivare a
destinazione. Avrebbero dovuto attraversare le città di Spoleto e poi di
Foligno, oltre a varie cittadine e paesi. Davide appariva tranquillo,
quanto era successo la sera prima, dopo lo sconvolgimento iniziale, gli
aveva lasciato uno stato di serenità che si leggeva sul viso.
L’inquietudine che ci divora al pensiero di altro da noi che ci attrae, e
che diventa desiderio irrefrenabile alla sua vista, nel momento della
risoluzione catartica e dopo, si trasforma in serenità.
Quell’abbraccio era stato tutto questo. Il turbamento e il desiderio
culminati nella percezione su di sé di quel corpo di donna, esplorato
dai sensi nelle sue sinuosità, incavi, sporgenze e indicibili delizie, era
stato interrotto dalla carezza della donna che dolcemente lo aveva
allontanato da sé.
Frustrazione?
Forse, per un attimo.
Poi un sentimento nuovo, dove la carnalità si sublimava.
Come per l’azione di un trigger che innesca una reazione nascosta e
più deflagrante. Non più, non solo il piacere insperato che quelle
braccia aperte, accogliendolo, gli avevano regalato.
Aveva provato qualcosa che lo avrebbe potuto legare per sempre a
quella donna. La carezza con cui lei lo aveva invitato a tornare a
dormire, aveva stimolato un sentimento nuovo, mai provato prima,
che era altra cosa dall’attrazione fisica, anche se a questa conseguente.
Aveva a che fare con l’amore?
Non lo sapeva ma era sereno e sentiva che se lo sarebbe portato dietro
quel sentimento come cosa immarcescibile.
Non l’avrebbe rivista più o chi sa, ma lei c’era, e gli bastava.
Non gli era mai accaduto prima, doveva passare in quel paese per
diventare uomo.
Si alzarono, rimisero le cose negli zaini, se li posero sulle spalle e
ripresero il cammino. Ancora tornanti in quella ora del mattino che
aveva lasciato alle spalle l’alba e si avviava a decidere che giornata
avrebbe regalato a quella parte di mondo. Non ci fu da aspettare. Da
nord arrivò un vento freddo di tramontana che strappò dagli alberi le
foglie morte e anche quelle in via di diventare tali. Ma tant’è, la forza
del vento era più forte dei tempi lunghi della natura. Anche il vento era
natura, ma talora gli elementi che la compongono si frappongono,
cozzano tra di loro, sovvertono quello che appare il normale
svolgimento degli eventi, così è anche della società umana.
In questi guazzabugli si annida il cambiamento che diventa cosa
nuova, magari progresso. È che, anche nell’incessante corsa
dell’universo verso l’infinito nulla, accadono cataclismi che alterano il
fluire suicida. Magari nuovi, altri, big bang, che daranno inizio a nuove
storie. Quel vento che un dio aveva liberato, avremmo detto un tempo,
era metafora di tutto questo. Forse gli dei sfrattati dall’Olimpo ci sono
ancora, raccolti in qualche parte dell’universo, accanto a tutto quello
che la mente dell’uomo ha saputo inventare nei millenni.
Per intanto rendeva più difficile il cammino, però le nuvole erano
scomparse e il sole brillava sopra di loro.
La carreggiata nei pochi tratti rettilinei poteva consentire il passaggio
di due vetture, ma nelle curve così strette non era possibile, e
sicuramente doveva passare una per volta.
Pensava questa cosa Silvio che guidava la piccola carovana, lui davanti,
in modo che il passo del più anziano potesse dare una cadenza agevole
per tutti.
Dopo una curva ancora più stretta, un lungo rettilineo faceva
intravedere in fondo il culmine della salita. Finalmente il valico della
Somma. In cima, visibile per il colore rosso acceso, una casa
cantoniera. Vi arrivarono.
Fecero sosta lì.
Dal paese di Strettura calcolarono di aver percorso un po’ meno di
dieci chilometri. Comprese le soste erano passate un paio di ore. C’era
ancora una buona parte del mattino da spendere. Nessuno nella casa
cantoniera, forse il cantoniere era in giro a controllare la strada nel
tratto a lui affidato, magari si trattava di riparare qualche buca o
prendere visione di qualcosa di più importante che richiedeva
l’intervento di squadre addette.
Poi magari viveva lì da solo, per
cui lui assente, non c’erano altri in casa. Perché la casa del cantoniere
era una vera casa, un focolare per il sostentamento, il riparo, l’amore
di una famiglia. Con un orto dietro, e uno stazzo per gli animali, e se
c’era un lavoro da fare, moglie e figli erano braccia di aiuto. Perché la
strada da gestire era una estensione della casa che andava accudita,
com’era per le case di campagna con il terreno intorno da coltivare e
con i componenti della famiglia, impiegati tutti nei lavori. E quando
c’erano le ricorrenze stagionali della mietitura e simili ci si aiutava tra
i casolari e al termine un grande banchetto all’aperto che chiamavano
“il pranzo delle opere”. Si dava fondo alle risorse alimentari
accumulate per l’occasione, soprattutto animali da cortile: papere,
conigli, polli e pasta fatta in casa e vino soprattutto. Ritualità di feste
antiche dove residui pagani si confondevano con devozioni cristiane.
La discesa sino a Spoleto
Si erano seduti sul bordo della fontana, posta accanto alla casa.
Il bianco travertino per il ristoro dei viandanti, davanti al cotto rosso
della mansione. Anche loro si erano dissetati con l’acqua fredda che
usciva dal mascherone, posto al centro di un fascio littorio. Una delle
tante fontane sparse lungo le vie consolari, che celebravano a loro
modo il regime, anticipazione della moderna pubblicità che propone
un bene di consumo con sotteso un riferimento valoriale. Erano in
procinto di riprendere il cammino che si annunciava meno
impegnativo, quasi agevole, da percorrere lungo la discesa che li
avrebbe portati a Spoleto. Una volta arrivati avrebbero ragionato su
come proseguire il viaggio. Erano passati tre giorni da quando
avevano lasciato Roma, rimaneva da percorrere meno della metà del
tragitto. Una volta a Spoleto sarebbero rimasti altri settanta
chilometri. Escludendo il tratto in treno e quello sul camioncino del
primo giorno, se l’erano fatta tutta a piedi: era andata bene. Facendo
gli scongiuri e astenendosi dal dichiararlo cominciavano ad
intravedere casa.
Fatti i primi passi sul pianoro del valico in
direzione della discesa, poco oltre la casa e la fontana, si avvidero di
un palo sul ciglio della strada con su un cartello che recava la scritta”
fermata autobus”. Silvio e Zeno ricordarono di un servizio di corriere
che dai nomi dei luoghi di partenza e arrivo e dell’imprenditore
proprietario era chiamata: linea Roma-Rimini, Bucci. Naturalmente il
servizio andava nei due sensi di marcia. Per gli abitanti dei paesi
montani del nord dell’Umbria, come Sigillo, posti lungo la Flaminia e
per gli altri oltre Scheggia in territorio marchigiano sino a Fano, il
servizio delle corriere era indispensabile. Quel tratto di territorio non
era servito dalla ferrovia, per viaggiare c’era solo la corriera. La linea
ferrata Roma-Ancona costruita poco dopo l’unità d’Italia transitava
più a sud, correva a ridosso della consolare solo nel tratto che andava
da Orte a Fossato di Vico. Oltre, penetrava nelle Marche per terminare
ad Ancona, divaricando il suo percorso dalla seconda parte della via
Flaminia.
Non pensarono se fosse il caso di aspettare, e arrivata la corriera di
salire. Né se quella fosse la scelta giusta. E poi una volta saliti per
andare fino a dove?
Fino a casa, sino a Sigillo?
Non ne ebbero il tempo, ché, annunciata dal suono del clacson, arrivò
la corriera. L’autista li vide alla fermata, frenò e accostò la vettura. Si
fermò come per salire gente in attesa. Non era così, non l’avevano
preventivato, ma dato un rapido sguardo dentro, videro i sedili
occupati solo in parte, sugli altri sedevano persone tranquille, normali,
da non creare in loro allarme. Poi avvertirono come un pudore, una
soggezione nei confronti dell’autista. Si era fermato perché doveva, ma
loro non erano lì per la corriera. Un immediato quasi inconscio arco
riflesso li spingeva a salire, non farlo lo avvertivano come uno sgarbo,
quanto meno avrebbe preteso una spiegazione. E la parte più riflessiva
del cervello suggeriva che il non salire avrebbe potuto generare
sospetti.
Che ci facevano lì alla
fermata se non dovevano prendere la corriera?
Salirono.
Il bigliettaio chiese dove fossero diretti. Loro si guardarono, un
assenso con gli occhi, e chiesero quale fosse la prima fermata. Quello
disse: “Spoleto”. Pensarono che non essendoci fermate intermedie non
sarebbe salita altra gente prima di Spoleto. Meno pericoli di brutti
incontri.
Il bigliettaio staccò tre biglietti da una sorta di
calcolatrice con delle rotelle dove scorrevano i numeri. La teneva
appesa al collo con una cinghia di cuoio. Fece depositare gli zaini, che
dopo una occhiata di controllo, portò fuori, e salito su una scaletta
posta sul lato posteriore della vettura, sistemò sul tetto in un ripiano
dove erano altre valigie. Li fissò con delle corde, tranquillizzando i
nostri che, scesi anche loro, seguivano preoccupati la manovra. Che
non avessero a perdere il loro bagaglio vitale! Ma il bigliettaio mostrò
una straordinaria perizia ed efficacia nella manovra. Disse loro di non
temere, non gli era mai accaduto di perdere roba, mai era volato via
qualcosa dal tetto da quando lavorava sulle corriere. Si rassegnarono
anche perché lui aveva aggiunto che quella dei bagagli sul tetto era la
regola, non si poteva portare bagaglio dentro. Si sedettero, il pullman
partì. L’uomo dei biglietti comunicò loro che a Spoleto erano previste
due fermate. La prima subito alla fine della discesa, prima di entrare in
città, in località Ponte Sanguinario, l’altra poco oltre l’uscita dalla città
di Porta Fuga, in una vasta piazza di sosta per pullman e vetture
private e pubbliche. Non lontano era anche la stazione ferroviaria. Il
pullman ingranò la prima marcia e partì. Loro si erano seduti nella
parte posteriore della vettura su due scompartimenti, Zeno e Silvio su
uno scomparto e Davide su quello accanto, al di là del corridoio.
Questo correva lungo tutta la lunghezza della vettura, separava due
spazi longitudinali leggermente sopraelevati. Su questi erano ricavati
gli scomparti tutti a due posti, capaci di ospitare una cinquantina di
persone. In fondo dove il corridoio terminava, gli scomparti sparivano,
sostituiti da un ampio sedile tipo divano che si adagiava concavo a
seguire il profilo posteriore della corriera. Gli altri viaggiatori
occupavano gli scomparti anteriori in prossimità dell’autista: in tutto
una decina di persone oltre loro. L’autista sedeva su una poltronaccia
logora con la grande ruota dello sterzo in pugno, i piedi sui pedaloni
del gas e del freno. Subito ai lati le maniglie del freno a mano e del
cambio e quello più piccolo delle ridotte, accanto una sorta di
monumentale baule in ferro che conteneva gli ingranaggi del motore.
Vederlo guidare era come assistere al concerto di un musicista,
massimamente di un organista. Le mani e i piedi sempre in movimento
sui diversi pedali e manopole che sembrava fossero loro a generare il
rumore che veniva dal motore. I movimenti si esaltavano ad inseguire
nuove armonie quando eseguiva il cambio della marcia a scalare,
manovra conosciuta dagli esegeti con il nome di doppia debraiata. Lì
un sapiente movimento delle mani e dei piedi diventava gesto artistico
accompagnato da una alternanza e variazione dei suoni che al profano
poteva causare un ulteriore fastidio oltre al rumore del motore. Ma
che un orecchio esperto poteva giudicare se la manovra fosse stata
condotta bene. Altrimenti un clangore, un rumore degli ingranaggi
come di rottura. Da fuori si mescolava nei suoni, lo stridore dei freni
all’approssimarsi delle curve. Ma l’autista non era un artista era solo
un artigiano se si vuole usare la similitudine, e il lavoro richiedeva
muscoli e fatica fisica e sudore della fronte e preoccupazione di fare
tutto bene. Ne andava della salute e della vita dei trasportati. Per tutto
questo era grosso di muscoli ed anche di grasso, perché gli autisti
mangiavano quando era il tempo e molto e fumavano con dovizia, e
per tutto questo campavano poco. Sempre legati su quei sedili,
aggrappati al volante, con le arterie che le paure contraevano e il
colesterolo restringeva. Oltre l’autista, nella parte anteriore della
vettura c’erano gli altri passeggeri. Dietro intervallati da una zona
vuota c’erano loro e il bigliettaio.
Questi
sedeva su una specie di garitta accanto alla porta posteriore. Era
prossimo a loro e la cosa favorì l’istaurarsi di un colloquio. Appariva
uomo di mezz’età, corpulento, con capelli ricci e baffi che si
cominciavano ad imbiancare, vestito in borghese a differenza del
guidatore che portava una sorta di divisa con cappello regolamentare.
Lo metteva quando il pullman si fermava, e lo poneva sul cruscotto
non appena partiva. Come se gli desse fastidio e il portarlo nelle soste
fosse dovuto alla necessità di dare l’immagine di rigore professionale.
Poi dopo il primo impatto con i viaggiatori e in qualche modo superata
la formalità iniziale se ne liberava. Il bigliettaio più informale disse ai
nostri che era di Civita Castellana ed era sulle corriere dall’età di
vent’anni. Non disse l’età ma loro giudicarono che dovesse avere un
po’ più di quarant’anni. Aggiunse che aveva schivato la chiamata alle
armi nel 40’ perché ormai grande, e per sua fortuna anche la grande
guerra del 15-18 perché allora era troppo piccolo.
“Quando si dice la sorte” commentò soddisfatto.
Appariva uomo contento di sé e del suo stato.
Veniva da una famiglia contadina, poi aveva messo su famiglia e a casa
al ritorno la sera lo avrebbero aspettato una moglie e due figli ormai
adolescenti, che l’anno successivo sarebbero andati a studiare a Roma
al liceo, ospiti di una cugina nubile che aveva un portierato in centro.
Disse questa cosa dei figli con un moto di orgoglio, quasi a voler
rimarcare la sua ambizione di avanzamento sociale.
Silvio e Zeno che avevano stimolato il colloquio, lo ascoltavano in
silenzio, perché lui dimostrò da subito che gli era stato sufficiente
l’innesco per raccontare di sé. Continuò parlando del lavoro:
“d’inverno è duro soprattutto nei tratti dove nevica” disse. Accadeva che
sulle salite se c’era ghiaccio, dovevano mettere le catene e a volte
anche quelle non bastavano. Più di una volta era dovuto scendere e
con lui i passeggeri a spingere la vettura che l’autista innestando una
marcia alta cercava di guidare oltre. Il valico della Somma dove li
aveva raccolti era un punto critico, poi c’era il tratto di strada che
andava da Fossato di Vico a Scheggia a ridosso degli Appennini che era
ancora peggio. Veniva giù la neve dai monti con folate di vento che
l’accatastavano sul manto stradale: sotto il ghiaccio e sopra la massa
nevosa. Si trattava di scendere e spalare la neve per ripristinare un
passaggio. Se era sufficiente ci pensavano i cantonieri, ma se la bufera
era tosta non bastavano e per liberare la strada dovevano intervenire
anche loro delle vetture. Infine disse della guerra. Era preoccupato
come tutti, ma ottimista. Bastava starsene in disparte, non prendere
posizione e anche quella iattura sarebbe passata. Non bisognava fare i
fanatici, aggiunse, a cercar guai.
Lasciar decidere le autorità.
Ma quale autorità? chiese Zeno.
Lui si mostrò infastidito della domanda e restò in silenzio.
A quel punto la conversazione finì.
Era anche andata bene!
Il bigliettaio aveva parlato di sé, li aveva esentati dal dover spiegare
chi fossero, dove fossero diretti, e tutto il resto.
Gli altri passeggeri sembravano essere tutti locali, non era il tempo di
lunghi viaggi, quello. Alcuni vestiti come chi dovesse andare in
qualche posto, ufficio o simili, dove era bene presentarsi in ordine,
come segno di rispettosa soggezione per l’istituzione. Per questo
avevano tirato fuori il vestito della festa a cui mostravano di non
essere avvezzi. Forse si sarebbero fermati a Spoleto o a Foligno per
qualche pratica.
Il pullman procedeva
veloce lungo la discesa, boschi intorno, case isolate, non paesi. Rari
sempreverdi del tipo conifere, più lecci e soprattutto alberi cedui,
massimamente querce. Un mare di colori sui fianchi dei monti dove la
strada scendeva, le foglie cadute lasciavano vedere le linee parallele
dei disboscamenti mirati che ogni anno i boscaioli eseguivano. In cielo,
numerose cornacchie volteggiavano nere, ingaggiando combattimenti
con isolate poiane che le controllavano dall’alto.
Il viaggio sino a Spoleto fu breve, un quarto d’ora circa per una decina
di chilometri in tutto. Il pullman era andato prudente perché anche in
quel tratto in discesa c’erano curve strette che richiedevano grande
uso di freni e di marce basse.
Li prese una strana eccitazione quando, dopo un’ultima curva, apparve
la grande rocca che sovrasta Spoleto. Incombeva maestosa sulla città.
Accanto, la grande arcata dell’acquedotto che scavalcava la forra per
portare acqua agli spoletini. Una storia importante la città e di
conseguenza orgogliosi e a tratti spocchiosi gli abitanti, che
nell’atteggiamento conservavano memoria della passata grandezza.
Roccaforte umbra all’inizio, poi romana, finché arrivarono i
longobardi, che ne fecero un ducato, sopravvissuto sino al XV secolo
insieme all’altro di Benevento. Poi fu stato pontificio e infine Italia, in
una progressiva perdita d’importanza. Ma le pietre raccontavano
ancora quella storia.
E ce n’era traccia anche nella istituzione religiosa. Il vescovo e la
diocesi da lui governata era un’arcidiocesi retta da un arcivescovo,
come in Umbria solo Perugia aveva.
La corriera rallentò sino a fermarsi in una piazzola con gente in attesa.
Dalle due portiere che il bigliettaio si affrettò ad aprire, uscirono tutti
meno tre persone che, salutandosi con i vicini che terminavano il
viaggio a Spoleto, dissero di essere diretti a Cantiano nelle Marche.
Nei posti lasciati liberi si sistemarono, più numerosi, i nuovi in attesa.
La corriera era pronta per ripartire, quando di lontano si videro tre
uomini che si avvicinavano e uno faceva ampi gesti con le mani come a
chiedere di aspettare. Quando furono vicini si vide trattarsi di due
carabinieri che trasportavano un uomo in catene. Strette alle caviglie e
ai polsi ne rendevano difficoltoso il cammino ed emettevano un
rumore stridente di metallo nel loro trascinarsi al suolo.
Verosimilmente erano scesi dalla rocca per recarsi in qualche altro
carcere o tribunale. Sì, dalla rocca, perché dal XIX secolo era diventato
un carcere il fortilizio che Papa Innocenzo VI nel XIV secolo aveva fatto
costruire dal cardinale spagnolo Albornoz, insieme ad altri simili nelle
principali località dello stato pontificio. Era il tempo della cattività
avignonese e lo stato giaceva in una condizione di abbandono che
aveva permesso il sorgere di potentati locali usurpanti la sovranità
papale. L’Albornoz si incaricò di ripristinarla con l’edificazione delle
rocche a scopo di deterrenza e vigilanza. Gattapone da Gubbio a
Spoleto fece un’opera maestosa e raffinata, tanto da diventare dimora
confortevole per Papi e personalità illustri come Lucrezia Borgia.
Sferragliava il detenuto nell’approssimarsi alla vettura sotto lo
sguardo perplesso dei viaggiatori in attesa della partenza.
Preoccupazione sul loro volto per quella compagnia di viaggio che
sentivano inopportuna e fastidiosa. I due carabinieri e il carcerato
salirono dalla porta posteriore e si sedettero sull’ampio sedile in
fondo. Gli altri passeggeri senza parlare si raccolsero nei sedili
anteriori, più lontano possibile dai nuovi arrivati. Qualche sguardo di
compassione ed umanità nei riguardi del carcerato, si notò sul volto di
alcuni viaggiatori che erano scesi. Commozione più libera di
esprimersi perché non c’era coinvolgimento. Il detenuto era passato
davanti a loro, era salito sul pullman e scomparso sprofondato nel
sedile. Ci poteva stare con un sentimento libero da qualsiasi azione
conseguente. Quelli nella vettura non avevano dimostrato analogo
sentire, era bastata la contiguità per sopire ogni velleità umanitaria.
Per quanto i nostri erano riusciti a vedere, il prigioniero appariva
persona umile, quasi incredulo della condizione nella quale si trovava,
pieno di vergogna a farsi vedere a quel modo, con le catene che
trascinava con fatica. Avrebbe voluto nascondersi, ma il rumore del
ferro sull’asfalto richiamava gli occhi del mondo su di lui.
Al di là dei processi, delle sentenze, dei delitti e delle pene, era già una
condanna inappellabile quello stridore che entrava nell’anima e nella
mente di uomini e cose.
Chi sa se quelle catene così lunghe da dover essere trascinate, erano il
risultato di artigiani prodighi nel materiale, o cosa voluta dal
committente?
Il
detenuto mostrava tratti e atteggiamenti che ne indicavano la
condizione sociale proletaria. Quest’ultima comportava spesso un
maggior rigore della giustizia di fronte a fatti delittuosi, in ossequio al
pregiudizio che povertà materiale e culturale favoriscano la devianza.
Come se quella condizione sia privilegiato terreno di coltura di impulsi
istintuali non governati dalla ragione. Considerazione di tipo
lombrosiano se si sostituisce all’aspetto fisico il sostrato economico
culturale. Nascerà anche da questa riflessione la volontà di puntare sul
miglioramento del benessere e della istruzione sociale per ottenere
risultati nella lotta contro il crimine e per il recupero dei condannati.
La corriera partì, Silvio, Zeno, e Davide rimasero soli. Lo spazio per la
sosta dei pullman era uno slargo di lato alla strada, questa poi
proseguiva per entrare di lì a poco in città. Accanto, affioravano pietre
di un ponte in gran parte interrato, del quale scavi ormai interrotti
avevano riportato alla luce un fornice. Un cartello scolorito
permetteva ancora di leggere il nome: ponte sanguinario. Costruito
duemila anni prima per consentire alla Flaminia l’attraversamento di
un torrente, si era interrato nel corso dei secoli e doveva il nome al
sangue di cristiani giustiziati in quel luogo.
Ora, una volta deciso di scendere dalla corriera, si trattava di entrare
in città e percorrerla con prudenza sino a raggiungere l’ampio piazzale
oltre Porta Fuga, dove vetture e corriere e treni avrebbero potuto
sostituire la marcia a piedi per dirigersi a Foligno.
Si avviarono, prima di sorpassare le mura e immergersi nello stretto
dedalo di viuzze di Spoleto, sulla sinistra intravidero la grande pianura
umbra che si sarebbe mostrata nella sua interezza all’uscita, dall’altro
lato della città. Videro le montagne che la cingevano, con la grande
gobba del Subasio a destra che proseguiva i rilievi pre-appenninici, e a
sinistra il profilo dei monti Martani che la cingevano da quel lato.
In fondo, Il Tevere chiudeva la valle ai piedi delle colline dove si
ergeva Perugia.
Ma quella oltre il fiume non era più l’Umbria vera e più antica.
Lì cominciava un altro territorio, l’Etruria, di cui Perugia era città: una
della Dodecapoli.
Etruschi, un’etnia diversa, con sembianze e lingua diverse.
Arte e costumi raffinati, efebici, in duro contrasto con la ruvidezza
degli umbri, plasmati dalla roccia degli Appennini, con cui costruivano
le dimore e i templi.
Non il cotto o la pietra serena di quelli al di là del grande fiume.
E la via Flaminia sembrava gelosa custode di quella popolazione rude,
ne attraversava il territorio, per lunghi tratti addossata ai suoi monti, e
una volta precipitata nella grande vallata si immetteva all’altezza di
Foligno in un varco posto tra il Subasio e i preappennini per
raggiungere Nocera.
E Perugia ne ebbe a soffrire perché già in
quei tempi la città era tagliata fuori dalle grandi comunicazioni che si
svolgevano soprattutto lungo la consolare. I romani non avevano
concesso una strada importante che arrivasse a Perugia. Ci si arrivava
tramite dei modesti diverticoli. Forse per questo i perugini che pur
dominano da sempre l’Umbria, non sono mai stati teneri con Roma e
con i vari poteri che lì si sono succeduti. Naturalmente ripagati con gli
interessi. Ne sanno qualcosa gli antenati del XVI che nel 1550,
subirono l’assalto dell’esercito pontifico di papa Paolo III. Fece
demolire un intero quartiere dov’erano le case dei Baglioni, signori
della città. Al suo posto fece erigere da Antonio da Sangallo
un’imponente fortezza che prese il nome di rocca Paolina, che poi i
Savoia distrussero per significare che ora comandavano loro, non più
il Papa.
Era passata tanta storia in quel tratto d’Umbria, quella che scompare
ogni giorno nel suo farsi e perire e quella che lascia traccia di sé nei
secoli a venire: l’incontro di Enrico con Costanza d’Altavilla; i giochi
infantili di Federico II, lo stupor mundi; le peregrinazioni stralunate di
Francesco; le scorribande di Annibale; le infinite guerre dei Trinci di
Foligno, dei Fortebraccio da Montone e Baglioni di Perugia; dei
superbi spoletini, ultimi eredi dei padri longobardi; dei………..Terra
nuova la vallata umbra, emersa da un lago preistorico lentamente
prosciugato. Ne rimane traccia nella strada Flaminia proveniente da
Bevagna diretta a Foligno, dove si ricongiunge con l’altra che proviene
da Spoleto. Costruirono sopraelevata la prima, perché intorno
permaneva un acquitrino. Ancora oggi acqua, che affiora appena si
scava a poca profondità. Anche da questa traggono sostentamento i
fiumi che attraversano la valle: il Topino, il Menotre, Il Chiascio, il
Clitunno, il Teverone, più altri minori.
Tutti provenienti dalle montagne intorno, e/o da sorgenti della
pianura, e tutti confluenti nel Tevere a nord.
Cominciò a piovere, l’aria si fece più fredda, portata da un vento di
ponente. Si infilarono i pastrani e si affrettarono ad entrare in città le
strette vie promettevano una maggiore protezione dalla pioggia.
Percorsi circa un centinaio di metri, entrarono in città e si ritrovarono
in piazza Garibaldi. Un ampio spazio che confluiva in una via, il Corso
della città dove si concentravano negozi e uffici e il fervore della vita
civile. Dalla piazza, da un suo tratto pensile, si vedevano in basso i
resti dell’anfiteatro romano e il lungo porticato della chiesa dedicata
alla Madonna di Loreto. Davide si era fermato ad ammirare le rovine e
la chiesa che gli ricordava una analoga della piazza di Rodi, ma gli altri
lo scossero, dovevano muoversi e non verso il Corso, per evitare per
quanto possibile gente.
Dunque presero a destra verso la parte alta della città di cui avrebbero
seguito il limitare, disegnato dalle mura. Davide prese la testa del
gruppo, a dare il ritmo dell’andatura su quella strada in salita. Non
aveva parlato molto da quando all’alba avevano lasciato il fienile. Si
era trascinato dietro gli altri, in silenzio, assentendo alle decisioni che
loro più grandi ed esperti andavano prendendo. Permaneva in lui
quell’aura di serenità che l’incontro notturno gli aveva ispirato. Era
sparito il tormento fisico che aveva provato all’inizio. No, ora la
pulsione si era smorzata in una sorta di appagamento, come di chi
conquista la vetta di un’alta montagna o di chi termina una lunga
corsa. La sua era stata la scalata, la corsa dell’adolescenza che conduce
ad una maggiore consapevolezza di sé, con il turbinio delle passioni
imbrigliate dalla ragione e dai valori inculcati dall’educazione. La
tensione anarchica e violenta dei sensi diventa così forza creatrice. La
femmina da concupire diventa fattore di trasformazione. La carnalità
di quell’abbraccio risoltosi nella tenera carezza sul viso, aveva segnato
un percorso che lo attendeva da lì in avanti. Quella persona apparsa
come femmina era diventata donna che lo aveva trasportato dai
territori delle passioni a quelli dell’amore. Sentiva confusamente
queste cose Davide che gli davano forza e serenità per le nuove scalate
che la vita avrebbe proposto.
Silvio appariva un po’ affaticato, era uomo intorno ai sessanta, ancora
in salute nonostante il duro mestiere della vita, ma quelle marce e il
pensiero dei pericoli del momento, per sé, per quelli con lui nel
viaggio, per la famiglia in paese, erano ulteriore aggravio alla sua
resistenza. Così non mostrava di partecipare un gran che alle
osservazioni di Zeno sugli edifici che si presentavano alla vista nel loro
percorrere la città. Era Zeno che aveva manifestato sorpresa ed
emozione già prima, alla vista in lontananza della rocca. Ora da vicino
quella si appressava grandiosa e sublime e incuteva in lui un senso di
meraviglia e stupore che cercava di comunicare agli altri. Ma oltre
all’aspetto estetico, alle finalità materiali e pratiche, la rocca gli
appariva anche un simbolo di forza e potere di coloro che avevano
avuto i mezzi e le capacità per edificarla. Un messaggio per le classi
sottoposte o per quelli di fuori. Come monito per tutti a non sovvertire
l’ordine costituito.
I poveri, gli umili, gli ignoranti, i proletari come li definiva Marx, se
non acquisiscono una coscienza di classe, soccombono davanti al
grande, al maestoso, al sublime. Così pensava Zeno, riandando con la
mente ai discorsi dei compagni socialisti dei cantieri. D’altra parte da
sempre, dai faraoni ai romani e su sino ai giorni nostri era stato così.
Certamente la rocca fatta costruire dal Papa, che incombeva sulla città,
non sembrava entrarci molto con devozioni, preghiere, messaggio
evangelico, appariva solo un monumento del potere temporale della
Chiesa. Ad essere benevoli forse ce n’era bisogno, perché il messaggio
religioso potesse sopravvivere ed espandersi.
Poca gente lungo le strade, quella pioggia era una manna per loro che
rifuggivano per quanto possibile da incontri. Ogni tanto si riparavano
sotto qualche terrazza o arco e si scrollavano di dosso la pioggia. Da
poco erano passati sotto l’arco di Druso. Se avessero conosciuto il
latino ci avrebbero letto la dedica a Druso e Germanico, i figli
dell’imperatore Tiberio, ma di loro solo Davide lo aveva studiato a
scuola, ma non sembrava molto interessato al momento. Accanto, al
limitare dei resti del cardo, un tempio romano, nei secoli trasformato
in luogo di culto cristiano. L’arco dava accesso ad una piazza, l’antico
mercato, che aveva conservato quella funzione, e che ancora nei tempi
attuali custodiva in un angolo un’abitazione di allora, di duemila anni
prima. Sfioravano questi monumenti di pietra nel loro attraversare la
città. E Zeno che amava leggere quando ne aveva la possibilità,
provava a raccontare qualcosa di quel poco che sapeva di quelle
pietre. Per lui la scuola si era fermata alle elementari, un buon profitto
che aveva spinto il maestro a sollecitare quelli di casa a farlo
proseguire con la sesta, che allora agli inizi del XX secolo era da
assimilare ad una terza media della riforma Gentile che sarebbe
venuta anni dopo e avrebbe rinnovato metodi e obbiettivi della scuola,
ferma alla tradizione sabauda.
Seguendo le mura arrivarono a costeggiare la Rocca, da lì scesero in
basso e di nuovo si presentò ai loro occhi tutta la vallata umbra, un
tappeto di colori autunnali che si stendeva ai loro piedi. Se invece delle
nuvole ci fosse stato il sereno, avrebbero visto i paesi affacciarsi come
da balconi sulla vallata. I balconi erano i bassi rilievi dove gli autoctoni
avevano costruito le case per difendersi dal passaggio dei barbari a
valle, dopo la caduta di Roma.
Campello sul Clitunno, Pissignano, Trevi, Spello, Assisi e dalla parte
opposta Montefalco e Bettona. In fondo come in una macchia
indistinta le aquile avrebbero scorso Perugia.
Proseguendo la discesa, di fianco alla strada si apriva una grande
piazza, anch’essa disposta in discesa e delimitata da palazzi signorili a
destra, a sinistra invece più aperta verso la pianura.
In fondo, lo spazio si chiudeva con un’immagine per lo stupore di chi
avesse guardato lì per la prima volta. Era anche il sentimento della
natura intorno, gelosa di tanta bellezza: una chiesa mirabile, Santa
Maria Assunta, la cattedrale della città, chiudeva la prospettiva.
Blocchi di pietra dura a tirare su una facciata delimitata in alto da un
tetto a capanna, di lato un campanile a pianta quadrata. Comunicavano
una sensazione di durezza ed essenzialità com’era la natura degli
Umbri e dei Longobardi che si erano loro sovrapposti e dominavano la
città nel XII secolo quando fu costruita la chiesa. Ad ingentilire la
facciata, otto rosoni, di cui uno centrale più grande, che davano luce
alle navate. Su tutti troneggiava il mosaico di Sosterno con Cristo al
centro, Maria e Giovanni evangelista ai lati.
Poi, scomparsi i longobardi o meglio l’istituzione Ducato, nel secolo del
Rinascimento pensarono di impreziosire la costruzione riducendo
ulteriormente il carattere austero con un porticato sormontato da una
balaustra e un terrazzo di fine fattura.
Evocava suggestioni e sentimenti in Zeno la vista del monumento e del
rosone centrale che come un grande occhio lasciava entrare la luce del
mondo ad illuminare il mistero.
Pensò a S. Marcello al Corso.
Rimase affascinato ed emozionato da quello che i suoi occhi vedevano,
da far scomparire i pensieri politici che il monumento della Rocca
aveva ispirato. Lui, muratore, seguiva le linee, le proporzioni,
l’impianto statico, le decorazioni e gli abbellimenti. Ne comprendeva i
risvolti tecnici: quelle pietre sagomate, sapientemente giustapposte le
une sulle altre, quasi senza bisogno di una malta legante, stabili e
incastrate per sempre. Da tutto il manufatto proveniva un senso di
compiutezza ed armonia, che rimandava alle proporzioni auree dei
templi classici. Da allora riproposte da generazioni di artigiani che le
avevano scolpite nei loro geni. Le ritroviamo anche nella umile e
struggente bellezza dei casolari umbri.
Ma la guerra si stava
portando via tutto, anche quella sapienza costruttiva che dopo si
sarebbe perduta per sempre. Proporzioni che rispondevano a moduli
matematici, che dal cervello dove erano pensati e di cui costituivano la
struttura, calavano e informavano di sé l’opera dell’artigiano.
Zeno non poteva immaginare che decenni dopo quella chiesa e la
piazza antistante sarebbe diventata occasione annuale d’incontro di
artisti di tutto il mondo. Uno di questi, forse il più grande, morto
giovane, come accade per chi è destinato ad entrare nel mito, volle
essere sepolto in quelle mura, lontano dalla sua terra, perché aveva
eletto Spoleto a sua vera patria.
Continuarono a scendere, tra strade e case di pietra, buie talune,
anguste, dove il cielo stentava a far capolino tra i tetti. Più spaziose
altre e meno gradite, perché non offrivano riparo alla pioggia. Con
l’acqua che scendeva era diminuita anche la temperatura dell’aria, si
era in autunno ma quel tempo annunciava il freddo dell’inverno che di
lì a poco avrebbe reso quelle pietre gelide, per il tormento degli
uomini che le abitavano e di quelli che, come loro, le percorrevano.
Si era portati a sognare il tepore delle case in paese, riscaldate dal
fuoco che la legna del camino sprigionava intorno. Illuminava i visi e
confortava il cuore, nell’attesa della buona stagione, quando ci
avrebbe pensato il sole a riscaldare anche quelle pietre che stavano
calpestando.
Proseguendo nella discesa passarono davanti ad un tratto di mura
costruito con enormi blocchi di pietra. Costituivano la primitiva cinta
muraria risalente alla città degli umbri, o addirittura dei villanoviani
proto umbri che li precedettero. Su queste, e oltre, al di fuori di queste,
mura più recenti erette dai longobardi.
Da quando avevano costeggiato la rocca, la strada aveva preso a
scendere sino a condurli alla porta d’uscita della città: porta Fuga.
Sopra si ergeva una torre, la torre dell’Olio. I due nomi ricordavano agli
spoletini il gesto eroico dei loro padri, che, tra i pochi nella penisola
italica, si erano opposti ad Annibale. Questi, reduce dal trionfo sul
console Flaminio nella battaglia del lago Trasimeno, ed incerto se
sferrare l’attacco finale a Roma, aveva comunque preso a percorrere la
Flaminia in direzione della capitale. Arrivato a Spoleto trovò le porte
della città sbarrate e gli assediati in armi, che riversarono dalle mura e
dalla torre, olio bollente. Alla fine, già dubbioso sulla opportunità di
recarsi a Roma, decise di tornarsene indietro. Da qui Torre dell’Olio e
Porta Fuga.
Uscirono e poco dopo si ritrovarono in una grande piazzale.
AL MERCATO DI SPOLETO
Vi trovarono gente, quanta non ne avevano vista nelle strade della
città. Donne per lo più, che vagavano per i banchi del mercato a
cercare prodotti che arricchissero quelli della tessera annonaria. Un
mercato all’aperto che, seppero, si teneva una volta la settimana, di
fatto illegale, anche se non decisamente un mercato nero, e che le
autorità tolleravano, salvo rapsodiche incursioni che si concludevano
con un sequestro delle merci. Sulla destinazione delle quali nessuno
avrebbe giurato in quanto ad appropriatezza. Accanto al mercato, la
stazione delle corriere, e in fondo ad un viale alberato si intravedeva la
stazione ferroviaria. Il movimento e la vita della città si svolgeva per
gran parte tutta in quella parte di Spoleto. Nella città dentro le mura
c’erano gli uffici della vita istituzionale. Di lato all’edificio dove si
compravano i biglietti per le corriere, un locale tipo osteria. I nostri vi
entrarono e si sedettero a un tavolo. Intorno a loro era un fluire di
persone che parlottavano, per poi andarsene e ricomparire più tardi.
Molti dall’abbigliamento e dalla struttura corporea avevano l’aspetto
di contadini. Silvio più anziano e smaliziato, pensò trattarsi di
commerci in nero di prodotti della campagna, in minima parte esposti
nei banchi e il resto nascosto e contrattato nell’osteria con anonimi
acquirenti.
Silvio era del 92, aveva scampato “la grande guerra” perché in quegli
anni era impegnato in un cantiere appaltato dal Ministero della
Guerra. La cosa aveva comportato una esenzione dal servizio al fronte
per gli addetti a quel cantiere. Era stata una fortuna per sé, la sua
famiglia e per tutta la grande famiglia dei Paci. Poté prodigarsi per
tutti, secondo le necessità e le sue possibilità, con la presenza fisica, il
sostegno materiale. Anche per questo aveva deciso di tornare al paese,
sentiva che c’era bisogno di lui lassù. Aveva passato i cinquanta e con
il lavoro duro che aveva fatto li dimostrava tutti, anche di più. Poi c’era
quella cosa del fegato che lo preoccupava. Alcuni della famiglia in anni
passati erano morti, per quanto se ne sapeva, a causa di una malattia
di quell’organo. Non si sapeva quale, non erano tempi, quelli, di grandi
sofisticazioni diagnostiche. Accadeva che chi era colpito, cominciava a
mostrare un lieve colorito giallo agli occhi, che poteva rimanere così,
senza altre conseguenze. In altri invece si accentuava con il tempo,
sino alla comparsa di un’emorragia o di un’infezione che se li portava
via. Lui stava bene, ma ogni tanto sentiva quel dolore a destra sotto le
coste dove sapeva essere il fegato, lo stesso che Zeno gli aveva detto di
sentire ogni tanto. Avvertiva quella cosa per sé e per quelli della
famiglia come un’ombra che aleggiava su di loro. Scendeva ogni tanto
su qualcuno, lo ghermiva, e lo conduceva nel suo regno, il regno delle
ombre. Non c’era mezzo per sfuggirne, forse in futuro la scienza
avrebbe permesso di capire e guarirne. Ma, al momento, bisognava
cercare di non pensarci, e accettare la scelta capricciosa del destino
che avrebbe potuto colpire a suo piacimento ora uno ora l’altro della
famiglia. E comunque quel dolore poteva non entrarci con quella cosa:
lo avevano detto i medici che aveva consultato. Perché nonostante
tutto, il tentativo doveroso di vedere se c’era qualcosa da fare, Silvio lo
aveva fatto. Era andato al Policlinico Umberto I a Roma, e al Policlinico
Monteluce a Perugia, dove gli avevano segnalato specialisti della
materia. Ne era venuta fuori un interrogatorio sulle abitudini degli
uomini della famiglia, circa abusi alcoolici, dietetici, frequentazioni di
postriboli, presenza di animali in casa. Un’anamnesi accurata come la
definiscono i medici. Non risultarono abitudini diverse da quelle degli
uomini della loro condizione sociale. I camici bianchi avevano
snocciolato nomi di difficile comprensione che tentavano di
incasellare quei sintomi in una delle possibili patologie evocate:
echinococcosi, epatite, cirrosi. Ma in quanto a cure, poco o niente. A
parte l’opzione chirurgica per l’echinococco. Raccomandavano diete e
riposo per quanto era possibile, dato il loro mestiere.
Tra il via vai di persone che si alternavano nella locanda, comparve un
uomo di età oltre i cinquanta che si diresse verso l’angolo della stanza
dove l’oste, dietro una specie di piccolo bancone serviva vino e cialde
con rametti di rosmarino sopra, sorta di focacce schiacciate, che
probabilmente qualche donna di casa preparava. L’uomo si fece
servire un bicchiere di bianco e mentre lo stava sorseggiando, si volse
verso la stanza, dove incrociò lo sguardo di Silvio. Si riconobbero!
Lo attestò il sorriso che illuminò i volti e che li fece muovere in
direzione l’uno dell’altro. Ne venne un abbraccio che sapeva di
amicizia antica. Lui si chiamava Arduino Calabresi ed era stato
compagno di lavoro di Silvio nei cantieri dell’impresa Costanzi. Fu
fatto sedere al tavolo e presentato a Davide e Zeno in modo che anche
loro potessero godere del piacere dell’incontro con i racconti che da
subito iniziarono. Ricordarono i due i tanti cantieri dove avevano
lavorato insieme, grandi cantieri in giro per l’Italia e anche nelle
colonie d’Africa, ma in quest’ultime era andato Arduino e non Silvio. Il
nome desueto di Arduino era singolare e motivo di sfottò da parte dei
colleghi di lavoro, glie lo ricordò Silvio, come pure ricordò che lui se ne
vantava, ne era orgoglioso e ne rivendicava le origini. Lui era di
Spoleto e il suo nome che anche altri portavano in città, era segno
dell’origine longobarda degli abitanti. E a differenza dei tanti della
città che ne ignoravano la storia, la famiglia e lui ne erano cultori, il
nome Arduino ne era testimonianza. Disse queste cose rivolto a tutti,
poi continuò, abbassando la voce, rivolto a Silvio. Gli altri compresero
che si stava entrando nel territorio delle confidenze tra amici, e si
fecero come da parte, nell’atteggiamento del non ascoltare nonostante
la contiguità. Disse di un brutto incidente occorsogli alcuni anni prima
e di cui Silvio non poteva sapere nulla perché da tempo impegnati in
cantieri diversi. Dopo un breve periodo di vacanza a casa, era stato di
nuovo chiamato dall’impresa, che era tornata dalla Libia, dove aveva
portato a termine la costruzione della Balbia, la litoranea voluta dal
governatore Italo Balbo, di cui portava il nome. I compagni di lavoro
gli raccontavano di un’impresa ciclopica, una strada lunga quasi
duemila chilometri, da Tripoli all’Egitto. Turni di lavoro di dieci ore,
riuscendo a fare ogni giorno un tratto di venti chilometri. Dunque
terminata a tempi record. L’impresa, tornata in Italia, doveva andare a
Taranto per lavori al porto, e lui era chiamato a far parte delle
maestranze. Si trovò nel posto e nel momento sbagliato. Era il
dicembre del 40. Di notte aereo-siluranti inglesi, partite dalle due
portaerei che la Royal Navy aveva nel Mediterraneo, entrarono nel
“mar piccolo” dove era alla rada la flotta italiana. Affondarono gran
parte delle navi alla sonda, assestando un colpo mortale alla marina
italiana che era l’unica arma in grado di competere con gli inglesi, e
con quell’azione all’inizio della guerra si assicurarono il dominio del
Mediterraneo. Nell’incursione furono bombardati anche gli alloggi
delle maestranze e lui rimase ferito gravemente. Gli ci vollero alcuni
mesi di interventi e cure, alla fine guarì, ma fu dichiarato inidoneo al
lavoro. Ebbe una pensione di guerra. Con quel supporto, dando fondo
ai risparmi, aveva acquistato un casolare con un po’ di terra intorno a
Campello sul Clitunno e vi si era trasferito con la famiglia. Da muratore
a contadino con l’aiuto di quelli di casa, moglie e figli. Era contento,
nonostante la salute compromessa.
Le sere d’estate dopo il lavoro,
si riposava seduto nell’aia davanti casa, in lontananza sull’orizzonte si
innalzava la Rocca, gli pareva quasi di poterla toccare, nonostante la
lontananza. Pensava in quei momenti che aveva trovato un buon posto
dove vivere e morire: la famiglia accanto, Spoleto della giovinezza a un
passo, nella mente e nel cuore i posti del lavoro in giro per il mondo.
Ed ora quell’incontro con Silvio li aveva di nuovo resi presenti e vivi.
Poi chiese di lui, di loro.
Informato di tutto, rimase in silenzio per un po’.
Poi disse: “vi porto io sino a Campello. Dopo si vedrà.”
Uscirono dalla locanda e si diressero, con Arduino davanti che
tracciava il percorso tra banchi e persone, verso un angolo del piazzale
un po’ discosto, dove era fermo un autocarro malandato, forse un Fiat
626, magari reduce da qualche campo di battaglia, abbandonato in una
caserma dismessa. Aveva pensato questo al momento dell’acquisto del
casolare, Arduino, quando se l’era ritrovato in mezzo all’aia e il
vecchio proprietario, assente da tempo da quella proprietà, non aveva
saputo dire il perché, il come e il quando di quella presenza. Chi sa che
storia c’era dietro quell’automezzo, ma poi non era così importante.
Comunque era stata una benedizione, ché se pur malandato
permetteva gli spostamenti, soprattutto al mercato di Spoleto, dove
Arduino doveva recarsi spesso per i suoi commerci, la vendita dei
prodotti della terra, l’acquisto di mezzi e strumenti agricoli. Un arnese
che lui era riuscito a riparare e ora bastevole per la funzione che
doveva svolgere.
I due amici salirono davanti, nella cabina di guida, dietro sul cassone si
sistemarono Zeno e Davide.
Prima, seconda, terza marcia, l’autocarro rumorosamente prese a
percorrere la Flaminia in direzione di Campello, andatura tranquilla,
sui cinquanta km/h. Il motore rabberciato non consentiva di più e
d’altra parte i discorsi e i ricordi avevano ripreso forza dentro
l’intimità dell’abitacolo, e a tutto pensavano meno che a spingere il
camion al massimo, o ad essere vigili in modo di non dare troppo
nell’occhio e così evitare, per quanto possibile, brutti incontri. Se ne
avvidero i due, dietro sul cassone, e Zeno prese a bussare sul tettino.
Silvio si affacciò dal finestrino a chiedere spiegazioni, loro dissero e lui
capì. Scossosi dalle narrazioni disse all’amico delle loro
preoccupazioni. Nel frattempo sulla strada era aumentato il traffico di
mezzi e persone e in lontananza si intravedeva la sagoma di camion
militari.
“Non c’è problema” rispose Arduino “qui è pieno di strade bianche di
campagna e molte vanno verso Campello. Ecco giriamo lì!”
L’autocarro svoltò a sinistra e percorsi un centinaio di metri si trovò
davanti un passaggio a livello con le sbarre alzate che permise il
passaggio sui binari della ferrovia Roma-Ancona. Superata quella, si
ritrovarono in mezzo alla campagna. Campi coltivati intorno, a perdita
d’occhio. Guardando verso nord-ovest dove la campagna si estendeva,
non si riusciva a vederne la fine. Ai due lati si innalzavano i rilievi
montuosi. Tra questi si cominciava ad intravedere la gobba massiccia
del Subasio. Un sole caldo illuminava il mondo, la luce che irradiava su
di esso assumeva i colori del marrone e del verde. Veniva dagli alberi a
foglia caduca e da quelli sempreverdi, raccolti nei boschi o isolati nella
campagna e sui monti intorno. Era una bella giornata d’Autunno che
regalava agli uomini un sollievo dal male che imperversava nel mondo.
Ma in quel momento e lì, dava una pausa. L’autocarro procedeva
lentamente godendo anch’esso del paesaggio, senza l’ambascia di
incontri indesiderati. Quelli e il male di cui anch’essi erano
espressione, erano confinati lungo quel tratto di Flaminia che avevano
lasciato. Così pensava il camioncino e allegramente trottava verso
casa. A destra, in parte sulla pianura, in parte aggrappato sul primo dei
rilievi prospicenti, appariva il paese di Eggi. Più oltre, arroccato sul
fianco della montagna, il paese di Campello alto. Entrambi cinti di
mura. Era tutto quel territorio, proprietà dei conti di Campello, incluse
le fonti del Clitunno, celebrate dai poeti.
Feudo antico Campello, dipendente da sempre dalla vicina Spoleto. La
sua origine si faceva risalire ai longobardi, ad opera di tal Rovero di
Champeaux, che prima dell’anno mille arrivò in Italia al seguito di
Guido, duca di Spoleto. Con alterne vicende la signoria e poi la
proprietà era rimasta ai discendenti sino ai nostri giorni. L’autocarro
procedeva nella campagna, avvicinandosi sempre più alla linea che
segnava a nord-est il confine tra la pianura e la catena montuosa
sovrastante. In un punto di quella linea erano le sorgenti del Clitunno,
ed in prossimità di quelle stavano andando, dov’era il casolare di
Arduino.
Tutto il territorio che stavano percorrendo era parte
del Comune di Campello, anche se della rocca situata in alto, sul fianco
della montagna erano rimasti solo gli edifici, perché gran parte della
gente e delle attività connesse si erano spostate in pianura. Dunque la
rocca quasi deserta, con il Municipio e la chiesa parrocchiale, dove si
conservava una preziosa reliquia della Santa Croce, spostate a mezza
costa nella frazione di La Bianca. E poi da basso le altre frazioni di
Pissignano, La Perla, e verso la montagna i paesi, una volta castelli, di
Acera, Agliano, Spina, Pettino. Nomi e abitati sconosciuti se non fosse
stato per la contiguità con le Fonti del Clitunno. Il fiume nasceva
dall’emergere dalla terra di polle d’acqua che riempivano un invaso
pianeggiante da cui l’acqua si riversava nell’alveo del fiume che lì
prendeva origine. Il console Flaminio aveva pensato di tracciare la
strada a ridosso della sorgente. L’amenità del luogo e la risorsa idrica
non dovevano essere state ininfluenti nella scelta. Le fonti erano state
celebrate nei secoli da viaggiatori famosi e poeti, da ultimo il Carducci,
del quale si ricordano i versi appresi sui banchi di scuola. Saranno
apparse come un miraggio al grande Giosuè, in viaggio in Umbria
verso Città di Castello. Ed ebbe a scrivere di quel viaggio e delle Fonti
in particolare. Ma già prima, queste erano ammirate e celebrate dai
ricchi e nobili romani che arrivavano lì percorrendo la Flaminia, e,
lasciatala, si imbarcavano e si facevano trascinare dalle acque del
Clitunno sino a Mevania, l’odierna Bevagna dove il fiume termina,
unendosi al Teverone. Da lì le acque saranno chiamate Timia, Topino,
Chiascio, sino a gettarsi nel Tevere ai piedi di Perugia. E nel loro fluire
rendono florida e fertile la campagna umbra, affiorata dove una volta
era un grande lago, del quale la ricchezza di acque del sottosuolo sono
ancora testimonianza. Si imbarcavano i ricchi romani e lietamente
intrecciavano ghirlande e recitavano odi, ma con loro, anche meno
aulici imprenditori agricoli, che annualmente confluivano, da lì e da
ogni dove del vasto impero, all’annuale fiera bovina della razza
chianina che si teneva a Mevania, come ci racconta Lucio Giunio
Columella nel suo De Agricultura.
Procedevano verso la meta e Silvio aveva messo in pausa il cervello.
Nel piccolo abitacolo, spalla a spalla con il vecchio amico, si sentiva
liberato dalle incombenze che la realtà proponeva. Il pensiero andava
al cantiere abbandonato, si perdeva negli ampi spazi della campagna
romana, nell’aria pesante e torrida delle vaste distese assolate, volte
verso il mare da presso, quasi a cercare un impossibile refrigerio. E
così anche gli altri due sembravano partecipi di quella condizione di
vacanza mentale. Davide sognava Lisa, Zeno la sua Regina e quel
figlioletto che aveva visto così poco tra cantieri e guerre. Ormai aveva
quattro anni, fremeva di gioia al pensiero che si sarebbe sentito
chiamare babbo. Della guerra lì per fortuna non c’era traccia, forse in
lontananza, verso Foligno si sentivano arrivare rumori che…
Ma non vollero pensarci.
Il casolare era in prossimità del Clitunno a non più di un chilometro di
distanza dalle fonti. Vi arrivarono che il sole alto nel cielo, raccontava
la fine del mattino e l’inizio del pomeriggio, tra l’ora sesta e la nona dei
chierici. Si fermarono nell’aia e scesero dall’autocarro, che con un
ultimo singulto smise di gracchiare e si ammutolì esausto, accanto al
covone di paglia, in prossimità dello stagno delle papere. Non c’era
nessuno in casa, moglie e figli probabilmente nei campi o per altre
incombenze. Arduino, data l’ora, pensò che era il caso di portarli a
mangiare, e visto che non c’era nessuno in casa, che sarebbe stato un
buon posto la locanda-trattoria a ridosso delle Fonti, sulle quali si
affacciava con una veranda. Lì sarebbero stati non visibili dalla strada
che passava accanto. S’incamminarono a piedi lungo la riva del
Clitunno, a ridosso di filari di pioppi e salici. Sull’acqua si estendeva
una coperta d foglie che cadevano dagli alberi, e sotto, il fiume correva
veloce mandando bagliori intermittenti. Incontrarono anziani intenti a
pescare con l’amo e la bilancia. Cibo prezioso in tempi di magra,
proteine nobili, mattoni per la resistenza del corpo e la speranza
dell’anima. Fatte alcune centinaia di metri, arrivarono. Davide ebbe un
moto di entusiasmo a vedere il laghetto da cui prendeva origine il
fiume. Era una radura coperta d’acqua, che fuoriusciva dal terreno in
prossimità della Flaminia. Se ne vedeva l’emersione dalla presenza di
polle che facevano salienza sulla superficie. Grandi pioppi cinerini e
salici emergevano da isolotti sparsi nella distesa liquida. Un ambiente
ombroso con cigni e papere che navigavano pigramente nell’acqua.
Il tutto suggeriva pensieri e stati d’animo di armonia e pace.
Si comprendeva l’incanto che generava in animi sensibili e nei poeti,
che da sempre lo avevano celebrato.
Zeno e Silvio conoscevano quel luogo, più volte vi erano passati
accanto, nel loro trascorrere la consolare per raggiungere i cantieri del
lavoro. Però non si erano mai fermati, non erano viaggi da turisti i loro
e d’altra parte in quel tempo non lo erano per nessuno. Ed ora dinanzi
alla meraviglia di Davide che si espresse in parole entusiaste, anche
loro parteciparono all’emozione, ma con la moderazione che si addice
a chi ha altre priorità nella vita. Così era per Silvio, pensava che le
emozioni e i trasalimenti estetici erano per coloro che non avevano da
combattere la battaglia della sopravvivenza. Ma nonostante questo
valesse anche per Zeno, in lui le parole di Davide trovavano una
rispondenza, un eco. Era una parte di sé che girava a quel modo. Ne
aveva coscienza anche nello svolgersi del proprio lavoro. Gli accadeva
che, al di là dei canoni stabiliti con i quali tirare su un muro o far girare
una volta, sentiva la necessità, la voglia di andare oltre, di metterci del
suo, qualcosa di nuovo. Era dar corpo con la pietra o i mattoni a
sentimenti ed emozioni. Variazioni nella disposizione del materiale,
decori, profondità delle lesene sulle facciate, variazioni delle
coperture, altro. Raccontavano l’anima dell’artigiano che dava vita alle
cose, le affrancava dalla loro dimensione di necessità.
Nella trattoria di Campello sul Clitunno
L’oste era naturalmente un amico di Arduino, gli altri lo capirono dalla
familiarità affettuosa con cui li accolse. Si sedettero sul tavolo che
preparò loro sul piccolo terrazzino che dava sull’acqua. Si sentirono a
disagio, non erano turisti, erano in viaggio per raggiungere casa, con
tratti di clandestinità, quel pranzo in quella località amena era fuori
posto. Però non potevano essere scortesi con il ritrovato amico di
Silvio. Pensarono che dovevano trovare il modo per non farla durare
più del dovuto la sosta. Quel giorno l’oste aveva preparato polenta con
salsicce e un dolce fatto con farina di castagne che chiamavano il
castagnaccio. Portò tutto, insieme ad una caraffa di vino rosso locale.
Presero a mangiare quel ben di Dio inaspettato, non avevano messo in
conto una cosa del genere all’inizio del viaggio. La gavetta dei soldati e
dei muratori era stato il loro orizzonte alimentare, e ora lì in
quell’ambiente, con lo sciabordio dell’acqua sotto di loro, provocato
dal moto dalle zampe delle anatre che, per antico costume, nel vedere
la terrazza occupata da umani intenti a banchettare, si facevano sotto
per reclamare democraticamente una parte del cibo. Si, Arduino aveva
proprio esagerato a portarli in quel posto. Lui si avvide del loro stato
d’animo e per mitigare la cosa disse ridendo: “che vi credete? Questo
pranzo oggi qui è un’eccezione fortuita, perché non abbiamo trovato in
casa mia moglie Rosa, ché altrimenti il pasto vi sarebbe costato alcune
ore di lavoro nei campi”.
Rise ma tanto bastò a rendere l’atmosfera meno ingessata.
Parole ancora tra loro, di un tempo che volgeva al termine e preludeva
al commiato. Da dove erano, la strada accanto era al di fuori della
vista, ma si sentiva il transito discreto di mezzi e persone. Qualcuno
entrò nella locanda, per un ristoro, un boccone, un bicchiere e via.
Nessun altro oltre loro a desinare comodamente seduti. Arduino,
rivolto a Silvio, ragionò sul modo migliore per riprendere il viaggio.
Campello aveva una stazione ferroviaria, ma secondaria, ci si
fermavano pochi treni, soprattutto merci. Per quelli per viaggiatori si
trattava di mettersi ad aspettare, anche ore. Poi gli venne in mente che
lì accanto, a circa un chilometro, nel paese di Pissignano, si teneva quel
giorno come ogni mese, un mercatino. Un tempo, appuntamento
frequentato da tanta gente della vallata intorno e delle città fino a
Perugia. Ora ridottosi molto per la guerra, ma comunque presente.
Esponevano la merce, gente locale ma anche di fuori, forse non
sarebbe stato difficile trovare un passaggio alla volta di Foligno su uno
dei camioncini con cui quelli portavano la merce, alcuni anche dalle
Marche. Probabilmente a breve quell’appuntamento mensile si
sarebbe interrotto per gli sviluppi della guerra sul suolo nazionale, ma
intanto per quel mese ancora c’era. Saluti, promesse di non perdersi
tra Silvio e Arduino e andarono.
Davide gettò un ultimo sguardo a quel luogo incantato, uno stato
d’animo di languore lo pervase, un’emozione forte che cercava un
riferimento, una condivisione. Arrivò, con l’immagine fugace della
ragazza del casolare. L’aveva intravista solo un attimo dietro i vetri
della finestra, prima che si ritraesse nel buio della camera, ne sentiva
ancora il sapore delle labbra sulle sue. Era bastato per risentirla ora
accanto a sé. Si vide nel tepore di una sera d’estate, scendere con lei
dalla scaletta che conduceva alla barca, ormeggiata sotto la locanda.
Da lì, remando, su un isolotto poco prima del termine del lago e l’inizio
del fiume, sotto le fronde di un salice. Tenerezze, parole, trasalimenti,
per poi, dopo un tempo infinito, tornare. Ma la barca non ne volle
sapere e prese a seguire il corso del Clitunno, per non tornare indietro,
per non far finire il sogno.
Si scosse e si chiese quasi con rabbia cosa fosse quella fantasia assurda
che gli era piombata addosso!
Che c’entrava dopo l’incontro notturno con Lisa?
Aveva già dimenticato tutto?
Non era più vero niente di quanto si era detto?
La riflessione gli rovinò l’emozione nella quale era in procinto di
crogiolarsi per gli attimi che sarebbero intercorsi prima di riprendere
il viaggio: “era bene così” si disse.
Cos’era quella melensaggine da libro cuore?
Assurdo, da cancellare!
Però pervicacemente l’immagine della ragazza tornava.
Non era dunque vero che l’incontro di Strettura lo aveva fatto
incamminare sulla strada della maturità?
Quella percezione che aveva elaborato di un rapporto d’amore dove la
corporeità e l’anima si amalgamavano in qualcosa di nuovo e
definitivo, non più emozione di un momento.
Quale la molla che faceva scivolare la mente in quelle fantasie puerili?
Ancora la tempesta ormonale dell’adolescenza?
L’avvenenza della lei di turno?
Un gioco, la fugacità dell’incontro, che altro?
Impossibile saperlo, ma il non comprendere, aumentava la
fascinazione del sogno.
Forse le cose comprese, svelate, entrando nel dominio della ragione,
diventano qualcosa di definito, di immutabile.
Quella fantasia, le fantasie, appartengono all’indefinito, al possibile,
mai raggiungibile: per questo ci seducono. Diventiamo grandi, maturi,
responsabili. Facciamo incontri e scelte costruttive, sapienziali, ma
rimane la voglia di perdersi nell’indefinito, nel caso, sino alla rovina.
Pissignano era lì accanto, nemmeno un chilometro. Ai lati della strada,
camioncini e carri, da cui i commercianti avevano tirato giù la
mercanzia. Pochi i mezzi di trasporto e scarsa la mercanzia, i tempi
non prevedevano grande concorso di gente. Era già un miracolo che si
potesse continuare ad aprire il mercato. Dunque gente, non molta, a
girare davanti all’offerta di cose e attrezzi per la campagna, scale,
zappe, falci, segacci, fiscoli per il trattamento delle olive. Era stagione
di raccolta dei frutti e di lavoro sulla terra prima del riposo invernale.
Esposte anche cianfrusaglie varie, qualche capo di abbigliamento
usato e riciclato, qualche derrata alimentare.
Una pattuglia di carabinieri, tre in tutto, giravano tra i banchi per
controllare ed esigere la tassa che il comune metteva per
l’occupazione del suolo. Era una funzione che avevano sempre svolto i
vigili urbani, ma di costoro non c’era più traccia, forse arruolati nei
vari fronti di guerra. Per l’ordine pubblico e altre funzioni rimanevano
i carabinieri, l’unico presidio certo nel volgere degli avvenimenti della
storia. I nostri, discreti, guardinghi, giravano, per individuare dal
dialetto e dalle targhe, il mezzo che verosimilmente, a fiera finita, si
sarebbe diretto verso Foligno. Sembrò loro di averlo individuato in un
autocarro con targa MC che stava per Macerata, la provincia
marchigiana, il cui territorio confinava con la zona montana di Foligno.
D’altra parte il commerciante, nel parlare con i rari clienti,
pronunciava l’immancabile g al posto della c di quel dialetto. Era
anche solo, se avesse acconsentito, ci sarebbero entrati tutti nel
camioncino. Rinfrancati dalla possibilità di un passaggio per andare
avanti nel viaggio, contenti e pieni di speranza nell’assenso del
commerciante alla loro richiesta, aspettavano il momento opportuno
per poterci parlare, magari dopo avergli acquistato qualcosa.
D’improvviso si sentì un rumore di scarponi che impetuosamente
scendevano dalla montagna soprastante, incombente sul paese. Il
rumore dei passi si accompagnò al crescendo di un vociare come di
gente che si dava la carica per la cosa che si accingevano a compiere.
Comparvero una ventina di uomini con le armi in pugno. Costoro,
rivolti ai carabinieri, intimarono loro di deporre le armi e consegnarle.
Uno di questi abbozzò la mossa di sfilare il moschetto dalla spalla per
imbracciarlo contro coloro che apparivano banditi, così una circolare
delle autorità aveva definito i gruppi di uomini che si andavano
raccogliendo sulle montagne, nelle settimane successive all’armistizio.
Erano renitenti alla leva, reduci e sbandati dai fronti di guerra,
impossibilitati a tornare a casa, c’erano appartenenti ai partiti anti
regime che passavano alla lotta armata, oltre a idealisti e avventurieri
sedotti dal desiderio di esserci nella rivoluzione sociale e politica che
si annunciava. Su quelle montagne, in particolare nel folignate c’erano
anche slavi, fuggiti dai campi di concentramento di Colfiorito dopo
l’otto settembre, più usi alle armi e alle azioni di guerra, con tratti di
giustizia sommaria negli scontri a loro favore. Ma queste cose si
sarebbero viste nei mesi successivi, per intanto era un procacciarsi le
armi, magari con assalti alle stazioni dei carabinieri, per poi
nascondersi in montagna in attesa del coordinamento da parte del
comitato nazionale di liberazione, che si era formato dopo l’otto
settembre, in sinergia con il governo monarchico di Badoglio e con gli
alleati. Movimento per una lotta armata contro i tedeschi e le forze
armate della Repubblica di Salò.
Nell’ambito del conflitto mondiale scoppiava così anche la guerra
civile in Italia tra opposte fazioni, nel solco della tradizione nazionale.
Uno dei carabinieri dunque, prendendo il moschetto che teneva sulla
spalla, abbozzò un tentativo di reazione, subito abortito per la
determinazione di uno di quelli. Colui, che appariva il capo del gruppo,
sparò in alto come intimidazione e il carabiniere desistette. Furono
circondati, spogliati delle armi e accompagnati nella vicina caserma
per prelevare munizioni e altre armi se le avessero trovate. La gente e
i nostri rimasero immobili e non successe niente a nessuno. Solo
l’ultimo banco che ospitava tra le cianfrusaglie una testa di Mussolini
fu attenzionato con il sequestro dei pochi guadagni della giornata.
Poco dopo, si vide la banda riprendere i sentieri della montagna con il
bottino. Passato il momento di sorpresa e timore la gente dileguò e i
banchi furono ritirati. Il mercato per quella mattina terminava, era
prudente per tutti allontanarsi di lì. Chi poteva sapere se sarebbero
venuti altri militi per un’azione di rappresaglia?
Anche i nostri pensarono di allontanarsi, misero da parte il progetto di
un passaggio a bordo di un autocarro. Gli espositori stavano tutti
smobilitando, mostravano di aver fretta di andarsene, per il timore di
sviluppi pericolosi. Loro andarono verso il fiume che scorreva sotto la
strada. Vi si arrivava, scendendo un sentiero che passava nei pressi di
un tempietto antico, grande poco più di una cappella, perfetto in ogni
sua parte. Si presentava come un tempio romano in miniatura con
colonne in stile corinzio. Di fatto un sacello romano trasformato in
chiesa nel periodo paleocristiano intorno al V secolo d.C. Il materiale
da precedenti costruzioni pagane. Poggiava su un basamento
preesistente, sopra al quale era stato eretto un portale, da cui il
passaggio alla cella, chiusa dietro dall’abside. Le colonne che
formavano il pronao, scanalate e a spirale, sorreggevano la
trabeazione e il frontone con, in caratteri quadrati, citazioni del
Vangelo. Il Dio cristiano sostituiva il dio Clitunno, nume tutelare del
fiume che scorreva in quel tratto di campagna
Il treno alla stazione di Campello
Ma non era il momento, né c’era lo stato d’animo adatto per ammirare
l’armonia architettonica del monumento. Però la sacralità del luogo, ad
un tempo pagana e cristiana, placò in loro il turbamento causato dal
trambusto di prima. Seduti sulle pietre del basamento, con la schiena
poggiata alle colonne, ragionarono sulla loro situazione e su quella
generale. Si dissero che con il conflitto civile prossimo e il fronte della
guerra che l’avanzata alleata stava facendo avvicinare al centro della
penisola, nessuno era più al sicuro, né loro in viaggio, né quelli a casa,
dei quali infatti avevano avuto notizia che si stessero rifugiando in
montagna. Sarebbero aumentate le incursioni aeree e i colpi
dell’artiglieria, in preparazione dello scontro frontale delle truppe. E
per quanto riguardava l’azione dei partigiani, il comandante in capo
delle truppe tedesche, Kesserling, aveva emanato un proclama diretto
alla popolazione per dissuadere dall’appoggio ai ribelli. Altrimenti ci
sarebbero state rappresaglie come da leggi di guerra. Convennero che
d’ora in poi il viaggio doveva essere ancora più prudente. Decisero di
rimanere nel tempietto sino al calare delle tenebre e poi di tornare alla
stazione di Campello. Arduino aveva parlato di treni merci che
facevano sosta lì, poteva essere il mezzo adatto per proseguire. Era
ancora giorno ma in quella stagione, il sole tramontava presto, si
trattava di aspettare. Oltre Campello il mondo era scuro di nuvole
minacciose. Avrebbero fatto cadere acqua di lì a poco, l’aria intrisa di
umidità l’annunciava. Ma ad Occidente, verso i monti Martani
filtravano tra le nuvole i raggi del sole. Illuminavano le case di
Montefalco, il paese che da quel lato dominava la pianura. Ci andava
Federico bambino, da quando Costanza d’Altavilla aveva deciso di
fargli trascorrere la fanciullezza a Foligno, per preservarlo dalle
insidie della corte. E furono scorribande del futuro imperatore per i
vicoli che diramavano da piazza dell’Erba dove abitava in una delle
case dei Trinci. E poi su a Montefalco per la caccia con il falco, da cui il
nome del paese. L’aver ospitato i giochi di un imperatore spiega come
per illustrare la vita di Francesco negli affreschi della cattedrale
avessero chiamato il pittore toscano Benozzo Gozzoli e il Perugino, che
apparivano un lusso per quella comunità periferica, ma i soli adatti per
quella comunità che aveva avuto un ospite tanto illustre.
Fuori del paese intravedevano un grande cantiere. Ne avevano dato
notizia i giornali. Si trattava del punto di arrivo di un nuovo
acquedotto che prendeva l’acqua dalle sorgenti del fiume Menotre
sulla montagna folignate in località Rasiglia, accanto all’antica chiesa
di S. Maria delle Grazie, luogo di devozione e fonte di miracoli, da cui il
nome della Chiesa. L’acqua prelevata correva giù nei condotti sino alla
vallata per poi risalire e raccogliersi in un contenitore sopraelevato a
forma di fungo fuori le mura di Montefalco. Da lì scendeva l’acqua, giù
lungo la vallata, a rifornire le case e i campi degli uomini, nelle città e
nei paesi. Ma gli eventi bellici avevano fermato il cantiere, se ne
sarebbe riparlato alla fine del conflitto.
Scendeva a tratti la pioggia, com’è nelle giornate autunnali, loro se ne
stavano in silenzio, ognuno come aggrappato alla propria colonna. Un
bisogno di riposo, di protezione, di ritorno a Camelot. Quei momenti in
cui la mente si libera delle strutture razionali e vaga in un vuoto che
prelude ad un disagio che diventerà noia. Se si ha il coraggio di non
cedere all’impulso di opporsi, con l’intraprendere qualcosa, qualsiasi,
che ci sottragga al vuoto, e che si rivelerebbe ancora più destruente, si
perviene ad uno stato di grazia. La nostra individualità è come si
sciogliesse nel circostante per vie misteriose che coinvolgono i sensi e
ti fanno sentire parte del tutto. È esperienza mistica, religiosa,
rimanda al magma primordiale, prima della creazione dei mondi e
della vita. Racconta di un nuovo inizio, di energia che non è ancora
diventata materia. Per loro, lì, e in quel momento, fu sentirsi acqua del
Clitunno, pioggia dal cielo, luce dal sole, nuvole, voce degli uccelli del
lago, un tutto in cui dissolversi, per riconoscersi, per ritrovare
l’energia primordiale che si solidificherà nella materia transeunte,
destinata a morire.
Arrivò l’ora di muoversi. Il sole era calato dietro i monti Martani, la
penombra stava coprendo la valle. A breve sarebbe subentrato un buio
pesto per le nuvole che coprivano il cielo e la luna, per le luci oscurate
delle case al fine di mimetizzarsi ed evitare di essere bersagli dei
bombardieri nelle loro missioni di morte.
In tutto c’era da percorrere un chilometro, lungo un sentiero
zizzagante tra la strada subito sopra, e il fiume al di sotto.
Come ovunque, i romani costruttori di strade, se il luogo consentiva,
posizionavano le stesse a ridosso dei rilievi circostanti, così da
renderle più stabili, permettere alla pioggia di scivolare via, e
facilitarne la manutenzione. Anche lì era così.
Giunsero alla meta, una fioca luce posta sopra l’ingresso del casotto da
dove l’addetto regolava il movimento dei treni, illuminava la scritta:
Stazione di Campello. Tutto era silenzio ed immobilità. Erano giunti lì
per trovare un treno merci. Lo aveva suggerito Arduino come
alternativa ad altre occasioni di trasporto. “I treni merci viaggiano di
notte” aveva detto. E aveva spiegato che era così per non ostacolare il
traffico dei treni passeggeri durante il giorno. Forse era anche per
ragioni di sicurezza: magari trasportavano armi o altro materiale che
gli aerei alleati potevano giudicare meritevoli di attenzione. Dunque il
movimento notturno dei vagoni merci si riteneva più sicuro, con
l’intervallo di frequenti soste nelle stazioni che servivano a
minimizzare il rischio di diventare facile bersaglio, a causa delle
nuvole bianche di vapore emesse dalle locomotive in marcia nel buio
della notte. Misure di difesa che si erano intensificate nelle ultime
settimane da quando gli aerei alleati avevano preso a bombardare con
più intensità il territorio della neonata repubblica fascista controllata
dagli alleati tedeschi. L’attesa non fu lunga, dalla parte di Spoleto si
approssimarono alternanti folate di vapore bianco, via via più vicine.
Sibili come singhiozzi accompagnavano i getti di vapore, erano parole
di una lingua incomprensibile che la locomotiva lanciava alle stelle,
oltre le nuvole, nello spazio siderale dove è cominciato tutto. Da lì è
arrivato quanto è accaduto, accade, e per un tempo accadrà ancora,
sulla sottile striscia di terra che chiamiamo crosta terrestre. Il destino
di annientamento che ghermisce ogni cosa nell’universo mondo, e che
l’uomo cerca disperatamente di eludere, lanciando l’anima verso il
cielo, accomuna anche le creature inorganiche create dall’uomo.
Quella sera la locomotiva sembrava averne coscienza con quel
rivolgersi al cielo con la cosa che più aveva dell’anima dell’uomo:
quegli sbuffi di vapore lanciati in alto, accompagnati da sibili, che
erano preghiere rivolte all’assoluto mistero. Il suo corpaccione di
ferro non aveva scampo. Prima e più di tutto il resto, la gravità lo
avrebbe attratto verso l’inferno di fuoco che brucia sotto di noi. E a
quell’ineludibile forza satanica cerchiamo tutti di opporci guardando il
cielo, da cui siamo formati, da dove veniamo. In questa lotta, in questa
aspirazione disperante di ritorno, nella consapevolezza
dell’inarrestabile scomparsa nel mondo inorganico, sta il nostro
destino e la nostra grandezza.
Il
treno rallentò progressivamente sino a fermarsi. Anche gli sbuffi e i
rumori sibilanti della locomotiva si attenuarono sino a scomparire.
I dieci vagoni che lo costituivano andarono ad occupare un binario
laterale che una ferroviere uscito dal casotto si era preoccupato di
aprire, muovendo a forza con le due mani una grossa asta di ferro. A
manovra avvenuta, lo scambio era stato richiuso, lasciando libero
transito sul binario principale ad altri eventuali treni. Nel buio della
notte intravidero scendere dalla locomotiva il macchinista e il suo
aiutante, ne seguirono il movimento in direzione del casotto, sino al
tratto illuminato nei pressi dell’ingresso. La luce della lampada ne
mostrò il volto sporco di carbone. Non conoscevano, i nostri, i tempi
della sosta, ma di sosta doveva trattarsi. Non c’era niente intorno da
dover caricare su quei vagoni, né nulla da scaricare che fosse di
necessità per quelle minime comunità che abitavano la zona. La cosa li
tranquillizzava, si trattava di trovare il modo di salire sul treno ed
aspettare pazientemente sino a quando si fosse rimesso in movimento.
Presero ad esplorare i vagoni dal lato che dava sulla campagna, il lato
opposto a quello che guardava alla stazione. Così, non visti, ebbero
agio di controllare attentamente le singole vetture, ma tutte si
mostrarono inaccessibili, chiusi gli sportelloni e senza finestre. Anche
se fossero riusciti a forzare l’entrata, probabilmente avrebbero trovato
merci che occupavano tutto lo spazio, poi e soprattutto ebbero
repulsione al pensiero di quel posto al buio pesto per la mancanza di
qualsiasi presa di luce. Così almeno appariva dall’esterno. Arrivarono
all’ultimo vagone e notarono che questo a differenza degli altri,
terminava con un accessorio al modo di un bambino che si aggrappa al
genitore, un’appendice in legno, sorta di garitta cui si accedeva tramite
una scaletta laterale. Davide vi salì, raggiunse una porta che dava
accesso ad un vano con una panca-sedile solidarizzata alla parete
posteriore, da cui si poteva guardare fuori a 180 gradi, attraverso due
aperture sulle pareti laterali e una su quella anteriore. Il tutto in
dimensioni ridotte. Salirono anche gli altri e constatarono che
riuscivano a starci in tre, seduti sulla panca, magari un po’ stretti.
Scesero ma la decisione era presa, sarebbero rimasti ad aspettare i
segni di una prossima partenza a cui avrebbero fatto seguire
l’occupazione della garitta.
Sulla garitta del treno merci.
Seduti sul rialzo erboso del terreno che delimitava da un lato i binari, e
dall’altro la palizzata fenestrata in cemento, del tipo di quelle che
ancora oggi residuano per lunghi tratti nelle stazioni d’Italia,
aspettarono. La terra era umida per la pioggia del pomeriggio,
speravano in cuor loro di non dover passare tutta la notte sul terreno.
“Forse è meglio che saliamo sulla garitta!” si dissero, ma Silvio rifletté
che fuori avrebbero avuto più facilità di movimento in caso di
imprevisti. Così stesero i pastrani sull’erba e consumarono una parte
del cibo che il padrone della locanda, su nascosto invito di Arduino,
aveva preparato per il viaggio. Mangiarono in silenzio e un’atmosfera
di malinconia scese su di loro. Il pensiero di casa, della famiglia
d’origine e della nuova che avevano formato, per Zeno e Silvio
contigue, ed ora conviventi per via della guerra, evocava l’immagine
ansiosa dei cari in attesa di riabbracciarli. Per Davide, separato forse
per sempre, evocava l’immagine dei genitori nel porto di Rodi, mentre
la nave lo allontanava da loro, la mano del padre agitata in aria nel
saluto augurale, le mani giunte della madre nel gesto di una preghiera.
La malinconia come un velo aleggiava sulla loro coscienza e li univa in
comunione con quelli che li pensavano e da tutti si affacciava dal
profondo, prepotente, una muta preghiera a Chi tutto poteva, perché
fossero salvi, protetti da ogni avversità.
Per alcuni il distacco da casa è una necessità, di lavoro come per Zeno
e Silvio, o per fuggire un pericolo come per Davide, per altri è un
desiderio di libertà, di affrancamento dalla famiglia, un correre dietro i
miti e le suggestioni giovanili, ed è per tutti strappo doloroso, violento
a volte. Ma il mondo e le persone lasciate non svaniscono, rimangono
in chi se ne va, traccia sottile o pregnante a seconda delle disposizioni
degli individui.
Nel viaggio della vita costoro creano altri
legami con nuovi mondi e persone e se si fermano è per stanchezza,
per mete sempre più nebbiose da raggiungere. Quando dopo l’ultima
sosta avranno timore di perdersi, affacciati ad un vuoto di
disperazione, se avranno ancora tempo, si fermeranno infine e
ritraendosi dal baratro, volgeranno gli occhi indietro come a cercare il
padre che non aveva mai perso la speranza del ritorno. E sarà
un’ultima possibilità, o una luce che li accompagnerà nell’ultimo
tragitto.
Partire e tornare disegna un itinerario che in vario modo tutti
percorriamo e tra coloro che non intraprendono il viaggio e coloro che
si allontanano magari sino alla rovina, emblemi assoluti della passività
colpevole o della virtù eroica, c’è la molteplicità dei qualunque che in
modi diversi recitano la parte che il destino ha assegnato loro. Gli
avventurosi vanno avanti, distruggono e ricreano sino alla fine. Alcuni
ritornano.
Silvio sentiva che il lavoro all’expo 42 non sarebbe ripreso per il
momento, e forse mai. Tutto sarebbe andato in rovina, macerie di
quella grande impresa che aveva tirato su monumenti e cattedrali
nella campagna romana. Avrebbero voluto celebrare la gloria della
nuova Roma, ma il sogno era svanito. Rimanevano statue e marmi
abbandonati sul terreno, già ricoperti da erbacce, in parte sottratte
dagli sciacalli di turno che vengono fuori dagli anfratti delle loro
miserie non appena avvertono un odore di abbandono e di morte.
Il paese dopo la guerra, pensava Silvio, sarebbe andato da un’altra
parte, sconfitti gli anacronistici disegni imperiali di una rigenerata
romanità, avrebbe guardato ai bisogni elementari delle persone. Ci
sarebbe stato bisogno di tutto, di nuove case al posto di quelle
distrutte dai bombardamenti, di lavoro, di industria da ricostruire, di
agricoltura da modernizzare, di denaro da trovare. Nuovi riferimenti e
alleanze internazionali, probabilmente con i nemici di ieri, con i quali
da alcune settimane eravamo diventati alleati. Forse sarebbe ripreso il
confronto dei socialisti e popolari con i liberali, interrotto
bruscamente con la marcia su Roma e la decisione del re di dare a
Mussolini il governo della nazione. Che ne sarebbe stato di tutti i
fascisti, maggioranza del paese, a giudicare dalle folle oceaniche alle
manifestazioni del regime e dal consenso alla dittatura che si era
andato consolidando negli anni?
Non nutriva dubbi, il popolo si sarebbe riciclato, o per riconquistato
spirito democratico, o per la meno nobile necessità pratica di
sopravvivenza. Gli entusiasti adoratori del duce lo avrebbero
sconfessato e se possibile lapidato. Ma più del popolo, la classe
dominante degli aristocratici monarchici e dei ricchi borghesi liberali,
contigui al potere e che erano stati i fiancheggiatori, se non gli artefici
del fascismo. Questi avrebbero aderito al nuovo corso, rivendicando
una verginità farlocca, ma sbandierata come adamantina.
Silvio percepiva che tutto questo non lo avrebbe riguardato, era
stanco, sentiva che il lavoro di tutta una vita stava terminando con il
cantiere interrotto dell’EUR. Era ora di tornare al paese. La sua
famiglia e quella più grande dei Paci aveva bisogno di lui. Il padre
Attilio era vecchio, non aveva più molto da vivere, occorreva qualcuno
che lo sostituisse, non poteva che essere lui. Si vedeva, le sere d’estate,
seduto sulle sedie, che come per incanto uscivano dai portoni dello
stradone, come risposta ad un appuntamento di sempre. Gli uomini
Paci, Aleandri, Parbuoni, e quelli delle altre famiglie sigillane che
abitavano lì. A parlare del tempo, della giornata trascorsa, di politica,
socialisti i più. Ancora lontana l’immigrazione massiccia dalle
campagne bagnate dal fiume Chiascio e dai paesi del territorio
eugubino, braccianti e contadini, da subito adepti del partito
comunista che avrebbero fatto un loro quartiere fuori dal centro
storico del paese, quasi a rimarcare la separazione. In quelle sere
d’estate, nella calma e serenità dell’età, della consapevolezza del
dovere compiuto, Silvio avrebbe rivisto come fantasmi della mente, i
volti e i gesti degli architetti che nella campagna romana disegnavano
nell’aria il sogno della nuova Roma che si accingevano a costruire e
sarebbero state le sue mani, le mani dei suoi, di Zeno tra gli altri, che
avrebbero materializzati quei sogni. Quelle frequentazioni gli avevano
fatto intravedere un mondo, oltre i bisogni quotidiani del vivere.
Fantasie, desideri, che si proiettavano lontano. Avevano a che fare con
gli studi e le conoscenze di quegli uomini colti, nel tentativo di renderli
fatti, realtà storica. Un altro modo di concepire la vita, oltre il presente,
a rincorrere l’idea, conquistarla, perché fosse acquisizione di un uomo
nuovo.
In fondo era così anche per l’idea socialista, la lettura marxista della
società industriale, del lavoro operaio, delle classi, fuori dalle
dissertazioni accademiche, nella visione dello sfruttamento proletario,
si era fatta carne, da cui la necessità di un’azione politica rivoluzionare
atta a sovvertire l’ordine costituito, causa dello sfruttamento. Ma nel
suo operare l’idea dimostrava una assolutezza coercitiva e violenta nei
confronti degli individui, delle persone, che erano altra cosa
dall’anonimato della massa. Sarebbe accaduto in Russia dove l’idea
diventata assoluta avrebbe creato un regime iniquo ed oppressivo.
Il cielo era tornato sereno, si alzarono e si mossero per scrollarsi di
dosso l’umidità che la pioggia caduta aveva sparso nell’aria e nel
terreno dove erano seduti. Dalla locomotiva usciva ancora fumo, segno
di un fuoco non spento, in attesa di essere incrementato per rimettere
in movimento gli ingranaggi che avrebbero comandato il movimento
delle ruote. Tutto questo accadeva in ottemperanza alle leggi della
termodinamica. Non si conoscevano quando le prime locomotive si
misero in movimento, furono quelle macchine sbuffanti vapore a
stimolarne lo studio e la scoperta, che avrebbe portato alle automobili
di oggi e molto altro.
Si aprì la porta del casotto e i due ferrovieri che vi erano entrati circa
un’ora prima, ne uscirono e si diressero verso il treno.
“Si riparte” si dissero i tre e precipitosamente salirono sulla garitta.
Nel mezzo del sedile misero Davide che era il più magro e cosi
avviluppati, ma non tanto scomodi da non godere il conforto di quella
piccola casa, attesero la partenza. Sentirono parlare i due macchinisti
in procinto di salire. Nel silenzio della notte, se pur lontane, arrivarono
parole che raccontavano della prossima sosta che sarebbe stata
Foligno. Il treno, arrivato alla stazione, avrebbe preso un binario
laterale, che dopo un centinaio di metri lo avrebbe portato dentro la
grande fabbrica di aerei militari Macchi di via Piave.
Una grande fabbrica che impiegava oltre duemila operai, la gran parte
maestranze locali e una parte provenienti da Varese sede della
fabbrica principale. Producevano su licenza, aerei Marchetti-Savoia e
nel periodo di direzione dell’ingegnere Troiani, reduce dalla
sfortunata spedizione di Nobile sull’Artico a bordo del dirigibile Italia,
a Foligno si produsse il prototipo di un nuovo aereo da caccia, tutto in
metallo e armato sulle ali, in grado di competere con gli Spitfire inglesi
e i Messerschmit tedeschi. Ma non ci fu tempo per passare alla
produzione.
Silvio e Zeno conoscevano la grande fabbrica, per via di loro compagni
del paese, che vi lavoravano. Era stata volontà del governo su progetto
dell’ingegnere Macchi a volere quella fabbrica, gemella della più
grande di Varese, al centro d’Italia, forse con lo scopo di occultarla in
una località periferica, e/o anche per incrementare la trasformazione
industriale dell’Umbria che oltre Terni era ancora regione ad
economia prevalentemente agricola.
Dallo sbarco in Sicilia in poi, i bombardamenti aerei degli alleati si
erano andati intensificando, e ora che il re e Badoglio avevano dato
vita ad un governo alleato ai passati nemici e contro l’alleato di ieri, si
temeva il peggio, ovunque nelle città d’Italia. Le fortezze volanti
cominciavano ad alzarsi in volo dagli aeroporti del Sud, con maggiore
possibilità di colpire il territorio della repubblica con gli alleati
tedeschi. Foligno era ancora parte di quello stato, e come era accaduto
già a Terni, ci si aspettava un’incursione anche sulla città con la sua
fabbrica aereonautica. In città c’era anche un aeroporto con annessa
scuola di volo, vi era sceso con l’aereo da lui pilotato, Mussolini alcuni
anni prima, in visita alla città e in particolare alla fabbrica Macchi di
via Piave. Aveva fatto una comparsata nel Corso della città fermandosi
per un caffè nel Gran Caffè Sassovivo, luogo d’incontro della borghesia
cittadina. La passeggiata tra due ali di folla osannante che faceva ala al
suo passaggio. Nel locale la tazzina dove aveva bevuto era stata appesa
in una specie di bacheca. Chi sa quanto sarebbe durata ancora
l’esposizione?
Verso Foligno

La fabbrica Macchi di Foligno rappresentava un bersaglio privilegiato,
ancora non era accaduto nulla, ma non sarebbe durato a lungo. Forse il
treno invece di portare materiale, andava a prelevarne, per spostarlo a
Varese che era più lontana, e magari ancora meno esposta ai
bombardamenti. Così dicevano tra loro i nostri. Nel frattempo la
locomotiva cominciò a sbuffare e lentamente il treno si mosse,
raggiunse la velocità di un procedere tranquillo, quasi a camuffarsi per
quanto possibile nella notte intorno. Loro, stretti l’uno a l’altro,
avvertivano il calore dei corpi che contrastava l’aria fredda
proveniente dalle aperture senza vetri dell’abitacolo. Nel buio
vedevano correre a sinistra in direzione di Spoleto, la vasta campagna
che trascinava con sé i monti Martani dietro Montefalco; a destra
incombevano da presso i contrafforti preappenninici. Su questo lato,
dopo una manciata di minuti, apparve la sagoma scura di Trevi. Il
paese era adagiato, come intento a scalarlo, su un rilievo collinare. Sì
che le prime case erano in pianura e le ultime, sormontate dalla torre
civica e dal campanile della cattedrale, in alto sulla sommità della
collina. Somigliava ad un albero di Natale, come quello che
costruiscono gli eugubini per le feste di fine anno sul monte Ingino,
dove sorge il santuario di S. Ubaldo, il loro santo patrono; o come la
grande stella che gli abitanti di Papigno approntano per Natale sulla
collina in prossimità delle acciaierie di Terni. Entrambi, l’albero di
Gubbio e la stella di Papigno, fatti di luci, questo di Trevi di case, che
quella sera erano buie per via della guerra, escluse alcune che
permettevano di dare un nome a quella macchia scura che appariva ai
viaggiatori. Si ricordò Zeno di due commilitoni che aveva incontrato
nel breve tempo trascorso in Albania, prima che fosse richiamato in
patria per la morte del fratello, erano ufficiali, entrambi di Trevi e
appartenenti a due famiglie importanti della cittadina, le più
blasonate, forse nobili, non sapeva. Ma quelli parlando tra di loro e con
gli altri, raccontavano dei loro palazzi e terre sulla montagna e in
pianura che erano patrimonio delle famiglie da tempo immemore. Si
chiamavano Bartolini l’uno e Valenti l’altro, e Zeno aveva preso
confidenza, quasi amicizia con Francesco il primo dei due. “Chi sa che
ne sarà di loro?” pensò “Saranno tornati a casa come stava facendo lui,
o incappati in qualcosa di brutto nella campagna di Grecia o dopo con i
tedeschi?”.
Ignorare la sorte di persone incontrate per caso, ma che ci hanno
ispirato un sentimento, un senso di comunione, causa un vuoto, una
mancanza che vorremmo colmare con notizie rassicuranti sulla loro
sorte, magari per riannodare il rapporto o solo per rispondere a
quell’afflato di bene che ci aveva unito, anche se solo per un breve
passaggio della vita. Il timore che non ce l’abbiano fatta, accanto al
dolore, induce inconfessata, la soddisfazione di averla scampata, di
essere sopravvissuti, e nuova energia per proseguire. Pietà per gli altri
colpiti dalla sventura e sollievo per la propria salvezza, sentimenti
contrastanti, divergenti, ma quanto reali! Non è sempre così, talvolta la
prevalenza dell’un sentimento sull’altro può portare al disinteresse
esecrabile per la sorte degli altri, o all’opposto all’incapacità di vivere
la vita che ci è stata risparmiata, tormentati dal pensiero di chi non ce
l’ha fatta, sino al volontario sacrificio della propria. Estremi di una
curva gaussiana che illustra bene le condizioni di normalità e di
eccessi deplorevoli o virtuosi che legittimano l’aspirazione al giusto
mezzo.
Il treno andava
piano, ma la distanza tra Trevi e Foligno era poca cosa, circa dieci
chilometri, così dopo poco tempo apparvero le prime case dell’antica
Forum Flamini, la città cui il console costruttore della strada aveva
dato il suo nome a perenne ricordo di sé. In questo caso la località con
il nome del console segnava il punto di mezzo del percorso, che per la
Flaminia era di 210 miglia romane (attuali 310 chilometri) tra Roma e
Fano, la Fanum Fortunae di allora. Prima della città sfilarono a destra il
paese di S. Eraclio, e a sinistra la pista dell’aeroporto con annessi gli
edifici della scuola di volo e gli hangar.
Entrarono nella stazione. La scarsa illuminazione lasciava comunque
intravedere una vasta area dove correvano numerosi binari separati
da pensiline. Si trattava di un grande nodo ferroviario, con la linea
proveniente da Roma che lì si divideva in due tratte, la prima che
proseguiva nelle Marche per raggiungere Ancona, la seconda che
percorreva la pianura centrale umbra sino a raggiungere Perugia e da
lì, lambito il lago Trasimeno, entrava in Toscana per raggiungere
Firenze. L’importanza della stazione aveva comportato posti di lavoro
per gli abitanti della città, direttamente impiegati come personale a
terra o viaggiante e soprattutto assunti nella più grande fabbrica di
Foligno, oltre la Macchi, quella che aveva nome di “Grandi officine
riparazioni delle ferrovie dello stato”. Sul tratto di Flaminia che, uscita
dalla città attraverso Porta Ancona, si impegnava in un lungo tratto
rettilineo a lato del quale sorgeva la grande fabbrica ferroviaria,
avevano costruito un lungo caseggiato che ospitava gli operai con le
loro famiglie, tipo i caseggiati operai a schiera delle città inglesi, e che
loro avevano visto anche a Terni in prossimità delle acciaierie.
Il treno non si fermò del tutto, continuò un procedere sempre più
lento, raggiungendo, per via di scambi inseriti rumorosamente, il
binario ultimo verso est che conduceva dentro lo stabilimento
aeronautico. C’era un portone in ferro all’ingresso che qualcuno da
dentro si incaricò di aprire, costringendo per pochi istanti la
locomotiva ad un fermo, che dette ai nostri occasione per scendere
dalla garitta. Scesi si ritrovarono sull’ultima pensilina a vedere il treno
entrare dentro la fabbrica, perdendosi oltre il grande portone in ferro.
Prima che questo venisse richiuso, riuscirono ad intravedere fioche
luci che illuminavano un ininterrotto lavoro notturno fatto di fumi e
rumori metallici, e in uno spazio aperto, fuori dagli opifici, apparvero
alcuni velivoli, pronti per essere trasportati all’aeroporto per la prova
del decollo. Poi non si vide più nulla, un clangore metallico perso nel
buio della notte, raccontava il lavoro indefesso di mani e intelligenze,
chiamate a fornire illusioni di un riscatto militare che appariva
tragicamente chimerico. Si ritrovarono soli nella grande stazione, non
treni in transito, né persone in attesa, solo una locomotiva vagante tra
i binari ad agganciare vagoni che poi spingeva in un binario laterale,
raccolti come ad un convivio che sapeva di cessazione di ogni attività,
tutti sovrastati e annichiliti da una aura di distruzione e morte che
incombeva nell’aria come un’attesa minacciosa. Di lì a poco avrebbe
avuto la forma di grossi e sgraziati mostri metallici sempre più grandi
e terrificanti nel loro progressivo avvicinarsi alla città. Era già
accaduto a Terni, quando sarebbe stata la volta di Foligno?
Avrebbero potuto quei piccoli aerei che avevano visto sul piazzale
della fabbrica contrastare la missione di guerra dei bombardieri
americani?
Si mossero lungo l’ultimo binario in direzione di una strada che li
attraversava tutti. C’erano due sbarre ai lati che si abbassavano e
alzavano in relazione al passaggio dei treni e un casotto dove viveva il
casellante con la sua famiglia, addetto a quella funzione. In quel
momento le sbarre erano alzate. Raggiunta la strada, abbandonarono
la stazione e si ritrovarono in via Piave lungo la quale su un lato
correva l’alto muro di cinta della fabbrica, interrotto dopo una diecina
di metri dall’ingresso per mezzi e maestranze. In prossimità si
innalzava una torretta che ospitava la sirena per il cambio dei turni di
lavoro, in alto ben visibile la scritta” Credere Obbedire Combattere”.
Proseguendo, la strada era contornata sui due lati da case a due piani
in stile liberty, ognuna con un giardinetto intorno, che, essendo la
strada in salita, suggerivano l’idea di residenze agiate per una
borghesia cittadina alla ricerca di aria salubre, discoste dal centro
cittadino dove dominava un clima umido e nebbioso d’inverno e caldo
d’estate. La presenza del fiume Topino che lambiva le mura della città
e con un ramo le attraversava, non aiutava, pur avendo il pregio di
essere la piscina all’aperto degli sportivi e la riserva di pesce per le
mense della città. Invece le case di via Piave erano immerse in una
campagna che iniziava a cedere spazio ai boschi e agli uliveti dei primi
rilievi montuosi che avrebbero terminato la loro ascesa nell’altopiano
di
Colfiorito. Poi era arrivata la fabbrica, le abitazioni avevano
conservato l’impronta gentile ma ne avevano un po’ risentito come
salubrità e quiete bucolica. Alcune erano la residenza di tecnici
varesotti che lavoravano nella fabbrica, come il motorista Sonzini nella
casa al civico 20. Non a caso i nostri avevano preso la strada nella
direzione che andava in salita, invece di scendere per ricongiungersi
alla Flaminia che avrebbero dovuto tornare a percorrere per
proseguire il viaggio. Quel Sonzini era fratello di un geometra, collega
di lavoro dei nostri nel cantiere dell’Expo 42 ed entrato presto in
amicizia con loro. Quando Silvio gli aveva detto dell’Umbria da cui
venivano, il geometra aveva raccontato del fratello che da Varese era
stato trasferito nello stabilimento di Foligno. L’ultima volta che si
erano visti, il geometra li aveva pregati di passare a trovarlo, fornendo
loro l’indirizzo. Da un po’ di tempo non aveva ricevuto sue notizie e
oramai anche lui, il geometra, sarebbe tornato a Varese per via della
chiusura del cantiere. Dunque le comunicazioni con Foligno sarebbero
state più difficili. Si era molto raccomandato con loro e da ultimo a
Silvio erano tornate in mente quelle parole quando si erano
approssimati a Foligno. Però, “chi sa dove sarà Via Piave”? aveva
pensato, e loro non erano nella condizione di mettersi a girare per la
città di notte per cercare una strada e portare dei saluti. Non sapevano
che la fabbrica Macchi fosse in via Piave e quando uscendo dalla
stazione avevano visto la scritta sul muro in prossimità del passaggio a
livello, nella mente si accese, accanto all’impegno di rispettare una
promessa, la possibilità di chiedere un aiuto per la notte. L’ora non era
tarda, non era ancora mezzanotte, forse potevano rischiare un
tentativo. Arrivarono in prossimità della casa, l’ingresso principale si
apriva su via Piave, uno secondario su via Monte Grappa che lambiva
la facciata laterale dell’abitazione, le altre due erano a confine delle
case limitrofe. Un giardino ingentiliva il terreno che si estendeva
intorno alla casa, più ampio sul davanti e dietro, meno esteso ai lati. Il
confine era delimitato da un basso muretto, sopra una siepe di edera
sostenuta da paletti che disegnava il limite tra il sé e il resto del
mondo.
Riposo notturno in via Piave a Foligno
Due piani con finestre incorniciate da elementi geometrici e floreali,
così i due portoni. Un terrazzo sul davanti, un tetto a pagoda, e sotto,
come raccordo arrotondato, una ventana nel gergo dei muratori, che
marcava il passaggio verso i muri perimetrali.
Nell’insieme, un’abitazione gentile da borghesia benestante e colta,
impreziosita dal verde del giardino con aiole piene di fiori e alberi
sempreverdi e a foglie caduche, i cui rami sporgevano all’esterno a
donare ristoro estivo a coloro che passavano lungo la strada. La luna
sorta ad oriente dietro la guglia del monte di Pale illuminava la casa, la
strada e il terreno del giardino, coperto da un tappeto verde che le
foglie cadute dagli alberi contribuivano ad arricchire con i marroni, i
gialli, e tutte le molteplici sfumature dei colori dell’autunno.
Intravidero una luce che proveniva da una finestra del secondo piano.
Si decisero, suonarono il campanello, posto accanto al cancello che
dava accesso al giardino. Dopo alcuni minuti udirono il rumore di una
persiana che si apriva, e sul balcone apparve il contorno di una figura
che guardando verso il cancello gridò “chi è a quest’ora?”
Loro si scostarono verso il centro della strada in modo da essere visti,
per quanto il chiarore della notte consentiva, discosti dai rami degli
alberi che coprivano la visuale.
Silvio rispose “siamo colleghi di lavoro di suo fratello a Roma. Non è
educazione disturbare a quest’ora ma abbiamo visto una luce accesa e
avevamo un impegno da onorare. Suo fratello ci ha incaricato di
portarle i suoi saluti e attraverso di noi sincerarsi se lei stava bene, visto
che non era riuscito più a contattarla. Ci scusi.”
“Aspettate vengo ad aprirvi” rispose.
Si accesero altre luci dentro la casa, si sentì il rumore della chiave che
apriva il portone e comparve la figura dell’uomo che scese i tre gradini
di graniglia arrotondati ai lati, che raggiungevano un lastricato di
ardesia, come un tappeto di pietre srotolato sul camminamento, che
conduceva, tra due siepi di viburno alternato a piracanta, al cancello.
Uscì sulla strada e premuroso li fece entrare.
Li accolse, oltre il portone, un ampio salone che copriva nell’asse
longitudinale, parallelo a via Piave, tutta l’estensione della casa,
separato con un lungo muro maestro dalla parte posteriore
dell’edificio, cui si accedeva attraverso una porta. Quella
conformazione costruttiva suggeriva a loro muratori che l’abitazione
fosse stata costruita in due tempi: prima la parte anteriore poi quella
posteriore, forse ne erano testimonianza i due ingressi.
Piante da appartamento, cuscini sparsi su divani, un pianoforte a
mezza-coda, sulla parete divisoria un focolare in marmo piperino,
quadri alle pareti di pittori locali, Giuliano Quagliarini e Aldo Canzi ed
Elvio Marchionni di Spello.
Sonzini li fece accomodare.
Era uomo sui trent’anni, carnagione chiara, capelli tendenti al biondo,
pettinati all’indietro, un po’ stempiato, un fare tranquillo e un parlare
conseguente. Loro, da subito si produssero in ringraziamenti per
averli accolti in quell’ora tarda e per la gentilezza e familiarità che
aveva prodigato nei loro confronti. Parlavano e sprofondati tra i
cuscini dei divani si lasciarono andare ad una sensazione di benessere
che la sosta in quella casa signorile procurava loro. Dopo giorni e notti
passate all’aperto, esposti alle variazioni del tempo, vestiti degli stessi
abiti, quello stare lì a conversare, immersi nell’eleganza e bellezza
degli arredi, appariva come un miracolo che la sorte aveva concesso.
Però accanto al piacere che provavano, avvertirono insinuarsi in loro il
disagio procurato dal pensiero di quanto fossero malmessi
nell’aspetto, quasi da renderli inadeguati, non meritevoli di stare lì.
L’ospite mostrò di non aver notato niente di disdicevole, ma quel
silenzio che ci poteva stare con il non aver rilevato nulla di riprovevole
ci poteva stare anche con l’astensione signorile da qualsiasi
commento. In modo diverso tutti e tre avevano quel disagio, lo si
intuiva dalla cura che tutti mettevano nell’assettare le stoffe arruffate,
nel passare la meno tra i capelli per sistemarli in modo accettabile, nel
tenere i piedi uniti, per dare quanto meno, in assenza di altro, una
parvenza di correttezza al loro sedere. D’altra parte qualche
insufficienza ci poteva stare con il viaggio non propriamente
tranquillo che avevano intrapreso e dopo un po’ quegli scrupoli si
attenuarono, non del tutto ma non più ostativi al lasciarsi andare, con
misura, alle mollezze dei divani.
Il Sonzini raccontava di trovarsi bene nella fabbrica e in città, e
aggiunse che avrebbe trovato il modo di informare il fratello, per
tranquillizzarlo. Non nascondeva però che le cose stavano mutando,
negli ultimi mesi si era cominciata a respirare un’aria pesante, per il
timore di imminenti bombardamenti, come era accaduto ad agosto a
Terni. Anche per questo motivo certi progetti come la costruzione del
nuovo aereo da caccia Macchi dell’ingegnere Troiani non andava
avanti, aggravato dalla difficoltà negli approvvigionamenti e da un
clima generale di sconforto che aveva preso tutti, tecnici e maestranze,
anche se non lo si dava a vedere. Si pensava che un’incursione aerea
avrebbe trovato un contrasto aleatorio: poca contraerea e
l’impossibilità degli aerei di stanza all’aeroporto, a competere con
l’aviazione alleata più numerosa e moderna. I nostri Savoia-Marchetti
S.79 erano aerei di trasporto poi modificati in bombardieri che
avevano dato prova di sé nei raid su Malta, trimotori veloci che la
propaganda aveva ribattezzato con il nome di “gobbi maledetti” ad
indicare la loro particolare conformazione e il terrore che, si diceva,
causava negli inglesi al loro apparire. Come caccia erano arrivati
alcuni Messerschmitt Bf 109 tedeschi ad integrare la forza dei
bombardieri, ma non erano niente rispetto a quanto raccontavano
dell’incursione su Terni, dove si erano contati numeri impressionanti
di unità aeree. Così, aggiunse, si pensava di cominciare a trasferire a
Varese attrezzature e personale, meno esposto, comunque più lontano
dal fronte.
“Sono stati anni belli” proseguì “questi passati a Foligno”.
Ora anche per lui si prospettava il ritorno nella fabbrica di Varese, e
finalmente a casa nel vicino paese di Malnate dov’era la famiglia.
Forse vi avrebbe trovato anche il fratello, da quanto loro raccontavano
della crisi del cantiere per Expo 42.
Era una bella città, Foligno, raccontava.
Una fiorente campagna intorno e industrie ad essa collegate, come il
grande zuccherificio lungo il fiume, la fabbrica di macchine olearie di
Rapanelli, i grandi pastifici, i mulini.
E poi concerie e cartiere, memoria delle tante che in era medioevale
prosperavano lungo i fiumi che scorrevano in città o nelle vicinanze.
E le grandi officine delle ferrovie dello stato che competevano con la
Macchi come numero di addetti.
Città popolosa con un grande territorio che si estendeva in montagna
sino al valico di Colfiorito, il confine con le Marche. Luogo ameno
l’altopiano di Colfiorito, con un lago che era oasi preziosa per gli
uccelli migratori. Era anche sede di un campo di tiro per la scuola di
artiglieria ubicata in città. Con la guerra vi avevano approntato un
campo di concentramento che ospitava prigionieri slavi e in numero
minore delle forze alleate.
Belle le ragazze di Foligno che con gli
allievi ufficiali della caserma e i tecnici della Macchi avevano occasione
d’incontri che spesso diventavano legami matrimoniali. Così alcune
seguivano lo sposo lontano dalla città, altre viceversa lo trattenevano,
guadagnando alla collettività giovani di fuori che si dedicavano a
nuove attività imprenditoriali. Anche nella ristorazione, come con il
ristorante Amatillo, nella piazza centrale, dal nome del vecchio
ristoratore folignate, la cui figlia aveva sposato uno di Varese. Quando
questi subentrò nella gestione, si mise a servire i bolliti della
tradizione lombarda, con il piatto forte della lingua di bue di cui il
trattore, servendola, precisava che quella non aveva mai parlato male
di nessuno.
Queste cose ed altre Sonzini raccontava e sembrava come di chi ha
piacere di narrare a qualcuno che mostra attenzione ed interesse,
forse in assenza di altri interlocutori, quasi loro avessero a colmare
una solitudine. Ci stava con il suo essere forestiero e un po’ schivo ma
questa cosa non gli aveva impedito di ammirare quella città
dell’Umbria così diversa dalla sua Lombardia, e ora con loro il piacere di
raccontarla.
Si era fatto tardi e nonostante le obiezioni, approntò i divani per far
passare loro la notte lì. Offri anche del cibo, ma questi, per pudore,
avendo ottenuto più dello sperato, e nonostante non disdegnasse il
loro stomaco di impegnarsi con qualcosa di più appetibile rispetto ai
residui di cibo che si portavano appresso, dissero che andava bene
così e non si disturbasse ulteriormente. Chiesero anche della casa, così
bella ed elegante non potevano pensare che l’avesse approntata a quel
modo lui, da solo e dato il poco tempo trascorso da quando era venuto
a Foligno. “Non è la mia” rispose “è di una famiglia del luogo, i De
Divitis”.
Costoro si erano trasferiti ad Ancona e l’avevano
affittata con tutti i mobili e l’arredamento. il capo famiglia doveva
stare fuori per lavoro, e aveva portato con sé tutta la famiglia, così lui
aveva potuto godere di tutto quel ben di Dio e nemmeno ad un gran
prezzo.
Dopodiché il Sonzini augurò un buon riposo, e
loro, salutandolo, avvisarono che se ne sarebbero andati presto, alle
prime luci dell’alba e che lui non si disturbasse, aveva già fatto così
tanto!
Strette di mani, promesse di
rivedersi, poi lui se ne andò in camera e loro cominciarono a
pregustare il sonno a cui si sarebbero abbandonati come angeli, per la
prima volta dall’inizio del viaggio, in quella bella casa di via Piave.
Ognuno scelse un divano e sprofondò nei cuscini felpati, morbidissimi,
che li avvolsero come in una nuvola di piacere. Erano circondati dalle
belle cose che arredavano il salone e il tepore che avvertivano era
come venisse dai quadri, dai vasi, dai tappeti, dalle tende e dalle
infinite altre cose di gusto che mani sapienti avevano distribuito
intorno. Raccontavano un’umanità raffinata, lontana dai clamori delle
folle, dalle vicende della politica, della storia addirittura; come chi
persegue itinerari tracciati in un tempo lontano, refrattari all’influenza
degli accadimenti; come chi aveva avuto occhi per vedere oltre il
quotidiano, inseguendo ideali di bellezza e nobiltà del sentire.
È di tutte le civiltà compiute, in un arco di tempo limitato, prima che
oscuri segnali ne annuncino il tramonto.
Dovevano essere bella gente i De Divitis!
Dal giardino si udiva il vento muovere i rami degli alberi, e il verso
degli uccelli infastiditi da quello scuotere, nel loro riposo notturno. Era
tutto così piacevole che non ebbero voglia di addormentarsi subito.
Così continuarono a parlare tra di loro sottovoce, per non farsi sentire
dal padrone di casa.
Parole e pensieri in libertà, piacevoli come i loro giacigli, e le morbide
lane che ricoprivano i loro corpi. La temperatura tiepida del salone che
la ghisa dei radiatori procurava, li aveva indotti a togliersi di dosso gli
abiti, sempre gli stessi dei giorni di viaggio. Avevano curato di pulirli e
spazzolarli per quanto possibile ogni mattino, dopo la notte trascorsa
nelle locande o sulla panchina della stazione ferroviaria, ma ora c’era
l’occasione di qualcosa di più radicale. Un bagno oltre il salone che il
Sonzini aveva detto era a loro disposizione consentiva anche la cura
del corpo. D’altra parte l’ospite si era ritirato nel piano superiore,
dunque con l’attenzione che procurarono di tenere, riuscirono a non
disturbarlo, mentre a turno si sbarbarono e lavarono e si presero cura
degli abiti. Così rimasti in brache e maglia di lana a pelle si distesero
sui divani sotto le coperte. Il sonno tardava a venire come di chi non si
risolva a dissolvere nell’incoscienza un momento di felicità arrivato
inatteso, imprevisto, fortunoso, per sua natura limitato nel tempo. Un
attimo di pausa, per tirare il respiro, prima di riprendere il cammino
della vita che ha una croce in fondo alla strada, salvifica solo per chi
avrà guardato in alto, lanciandosi oltre il quotidiano.
Alla volta di Vescia
Si alzarono dopo la notte ristoratrice, si vestirono, poi uscirono in
giardino, e aperto il cancello si trovarono in Via Piave.
Stava facendo giorno, il chiarore era tutto dietro il monte di Pale che
nascondeva ad est la montagna folignate con il valico di Colfiorito sulla
sommità, dopo quindici chilometri circa da dove si trovavano. Da lì si
scende nel territorio marchigiano del Maceratese.
Si, perché via Piave era il tratto cittadino della statale Val di Chienti
che prendeva origine dalla Flaminia poco dopo l’uscita di questa da
Foligno attraverso porta Ancona. Dopo venti metri dal suo inizio, Via
Piave-Statale Val di Chienti incontrava il passaggio a livello che
avevano attraversato la sera. Quindi costeggiava la fabbrica Macchi e
poi la casa dove avevano pernottato. Da lì, subito in salita, la strada per
circa cento metri era separata dalla campagna intorno da una doppia
fila di villini in stile liberty. Poi una curva a sinistra, e un’ultima casa
con la scritta sul muro dell’altitudine e del limite della città dalla
campagna collinare circostante. Proseguendo, la strada attraversava
paesi via via di altitudine maggiore, sino agli oltre ottocento metri
dell’altopiano di Colfiorito. La strada era stata uno dei percorsi seguiti
dai viaggiatori del gran tour nell’Ottocento, che scrissero pagine
toccanti nel descrivere la meraviglia all’apparire dall’alto della grande
pianura umbra. Ci passavano anche i marchigiani diretti a Roma e
Leopardi tra loro, che soggiornò a Foligno, una volta raggiunta la
Flaminia e forse dormì nello stesso albergo dove pochi anni prima
aveva riposato Goethe, non riportandone una grande impressione.
Una località amena, l’altopiano che racchiudeva una palude, meta di
sosta degli uccelli migratori, e un paese, residenza estiva delle famiglie
borghesi della città, trasferite lì per godere della frescura e
dell’amenità del posto. Luogo anche di memorie storiche, che la
tradizione suffragata da ritrovamenti archeologici e testimonianze
storiche, rimandava ad una civiltà preromana databile sin dal III
millennio a.C. con insediamenti stabili, poi evoluta in una società
strutturata dal IX secolo a formare un popolo umbro, i plestini, sembra
di origine filistea. Inserito nel territorio romano fu teatro, durante la
seconda guerra punica, di uno scontro tra la cavalleria romana, reduce
dalla battaglia del lago Trasimeno con quattromila uomini condotti dal
pretore Caio Centenio, e le truppe cartaginesi di Maarbale. Anche la
toponomastica del territorio circostante conferma il fatto d’armi, come
con il nome di un paese del vicino agro nocerino: Africa. Fa pensare
all’altro paese sul Trasimeno che ricorda quella battaglia dal nome
suggestivo di Ossaia. Ricordo dell’immane tragedia dei soldati romani
trucidati dai cartaginesi.
A loro però della statale Val di Chienti e di tutte quelle storie, ancorché
sconosciute, non interessava molto, perché dovevano riguadagnare il
passaggio a livello e immettersi sulla Flaminia per continuare il
viaggio alla volta di Vescia, il primo paese che si incontrava uscendo
da Foligno da porta Ancona. Da lì, per un miglio la strada sarebbe
corsa diritta sino ad arrivare alla chiesa di San Paolo che la divideva in
un troncone principale, e in un diverticolo detto la “corta di colle” che
raggiungeva la statale Val di Chienti, eliminando tutte le giravolte del
primo tratto, da cui il nome di “corta”.
Ce n’erano altre tre di porte in città, ognuna prendeva il nome della
località dove era diretta la strada che lì prendeva origine: Firenze,
Roma, Todi e ognuna, dopo un miglio, aveva una chiesa a cui si
arrivava percorrendo un rettifilo. Ricordavano il miglio aureo che a
Roma segna le consolari, dopo l’origine dal Foro. Per la Flaminia forse
la porta Fontanilis sulle mura serviane, che i nostri avevano designato
come luogo dell’appuntamento per il viaggio da intraprendere.
Arrivati al bivio si girarono a guardare la città alle spalle. Videro Porta
Ancona chiusa, con della gente davanti che ne attendeva l’apertura.
Erano uomini della campagna e delle colline intorno, con asini al
fianco, carichi dei prodotti autunnali della terra da portare al mercato
di piazza dell’Erba. Volsero il cammino dall’altra parte in direzione
della chiesetta di San Paolo che si intravedeva in fondo al viale. A
destra costeggiarono le mura delle Grandi Officine Ferroviarie, a
sinistra un lungo caseggiato, abitazione degli operai con le loro
famiglie. Oltre, rare case lungo la via che non sapevano più di città.
Niente traffico di mezzi o uomini, esclusi alcuni ritardatari
all’appuntamento con il mercato. Non faceva freddo, camminavano
senza parlare sotto un cielo nuvoloso, in fila sul ciglio della strada, al
limitare di un canale dove scorreva un rivo copioso d’acqua. Era una
diramazione del fiume Menotre, che veniva giù dalla montagna,
precipitando da una cascata ai margini del paese di Pale, dopo aver
messo in movimento le macchine della cartiera Sordini. Il paese era ai
piedi dell’omonima montagna che vedevano, davanti a loro e un po’ a
destra, ergersi alta e aguzza verso il cielo. A sinistra la grande gobba
del Subasio con la visione di sghembo di Spello e in parte di Assisi,
“ove Subasio frange più sua rattezza” che si affacciavano sulla grande
pianura. Ancora a destra sulle prime colline vedevano il colle che
ospitava il convento dei frati cappuccini, su un colle vicino il convento
di San Bartolomeo dei frati dell’Ordine fondato nel XIV secolo dal
beato Paoluccio Trinci. Più lontano ed in alto la monumentale Abbazia
benedettina di Sassovivo.
Ma non si incontra nessuno in strada? Certo è ancora presto, ma sembra
che la gente sia tutta in casa, senza voglia di uscire!… C’è la guerra, si va
in giro solo per necessità, si temono bombardamenti aerei degli alleati,
fascisti e tedeschi minacciano vendette per il tradimento del re e di
Badoglio….. Timore di una guerra civile fratricida tra italiani, dentro la
più grande tra tedeschi e alleati. Giovani uomini vanno in montagna per
evitare l’arruolamento nell’esercito di Graziani a fianco dei tedeschi, e
anche stanchi di questa guerra che dura da troppo e non se ne può più di
tutte le feluche, le parate militari, i discorsi roboanti, la patria, l’impero
….
Era tutto troppo grande, sbagliato per noi, per l’Italietta che
siamo, da duemila anni, da quando è sparita la gloria di Roma. Averla
riproposta, illudendosi che fosse possibile riattualizzarla, forse è stato
un bel sogno, ma solo un sogno. Ci hanno pensato da subito le montagne
della Grecia, il deserto africano, le steppe della Russia a far crollare il
castello di menzogne, figlie di ignoranza e sciatteria di chi le aveva
cavalcate, degli stessi che in quei giorni in massa andavano ad affollare
le schiere dei pochi che avevano da tempo denunciato l’inganno….
Qualcuno che avesse riflettuto sugli accadimenti di quegli anni e del
tempo attuale avrebbe potuto avere questi pensieri che giravano
nell’aria, ma assoluto dominava il desiderio di salvarsi, di farsi i fatti
propri. Poi ci avrebbe pensato la storia ufficiale a decretare il campo
del bene e del male, a seconda di come andava a finire. Si sarebbe
detto che si era rivendicato l’onore d’Italia che non aveva tradito
l’alleanza con i tedeschi, o invece che si era riscattato combattendoli a
fianco dei passati nemici. Si sarebbero scomodate le grandi idee per
giustificare le scelte di campo, estranee ai più nei momenti di pericolo
della vita, patrimonio quelle solo di minoranze, come degli irriducibili
ancora in galera perché comunisti e comunque antifascisti, o quelli
dell’altra parte che in quei giorni stavano confluendo nei battaglioni
Nembo, Barbarigo, e nella X Mas a rinforzare le truppe germaniche sul
settore tirrenico della zona di Roma, dove si sarebbe verificato da lì a
poco lo sbarco degli alleati. Quell’autunno del 1943 stava finendo in
un’atmosfera sospesa, gravida di temuti lutti incombenti. Se ne
percepiva la minaccia, e la vita nelle strade delle città non era più
quella dei mesi precedenti, quando si era in guerra, ma ancora lontana.
Ora si annunciava in casa.
Quei pensieri giravano per la testa della gente e anche dei nostri che
esternavano nel loro camminare alla volta di Vescia. Davide tra loro
era il meno preparato a raccapezzarsi in quel bailamme nel quale
l’Italia era precipitata e con essa il mondo. Era cresciuto lontano dalla
patria, in una periferia privilegiata dell’italianità. Si era sentito parte di
quel disegno di grandezza che il regime aveva proposto, avvertiva che
lui come altri della sua età avevano trattato spocchiosi i nativi di Rodi,
come fossero gente da civilizzare, da evangelizzare al nuovo credo
politico. Ora dinanzi al pericolo dei tedeschi aveva lasciato Rodi, e con
l’isola e i suoi aveva lasciato lì anche i miti della sua età. Il dolore
dell’abbandono attenuato dalla sfida dell’avventura, per un giovane
che si apriva alle prove della vita. E quello che vedeva intorno, e i
discorsi dei suoi compagni finivano per distruggere le ultime certezze
se ancora ce n’erano. Se tutto fosse andato bene sarebbe arrivato ad
Ancona da quei parenti di cui aveva solo sentito parlare, senza averli
mai incontrati. Erano il suo riferimento ma più passavano i giorni, più
non era entusiasta di quella cosa. Non era più lo stesso giovane di
prima, della sua vita a Rodi, avvertiva in sé un cambiamento, come
un’attesa di cose che lo avrebbero preso.
Percorso circa un chilometro oltre la chiesa di San Paolo cominciarono
ad intravedere le case di Vescia. Per tutto quel tratto di strada, a destra
della via si estendeva la grande tenuta agricola dei Morotti, una
famiglia benestante di Foligno che aveva un palazzo nobiliare in città.
La proprietà era delimitata da un basso muro che non nascondeva agli
occhi dei passanti la grande villa padronale. Ci si arrivava per uno
stradino che partiva dall’ingresso della tenuta. Lungo il percorso,
gruppi di cipressi graziosamente disposti come in un disegno d’artista.
La campagna coltivata intorno, nella pianura e sui primi contrafforti
collinari, che in alto confinava con la più grande tenuta dei Clarici
estendentesi verso la montagna a comprendere il territorio della
Abbazia benedettina di Sassovivo, di cui la famiglia possedeva una
parte. Al tempo del potere temporale dei Papi il convento non era
solamente un gioiello architettonico, dominava una moltitudine di
comunità religiose e territori, anche nella capitale come la chiesa dei
Santi Quattro Coronati. Napoleone e poi i Savoia ne decretarono il
declino con lo smembramento della proprietà e la divisione in tre parti
del monumento: al demanio, ai Clarici, al vescovo di Foligno. Tutto
intorno il secolare bosco di lecci sopravvisse in parte, circondato da un
immenso uliveto. La proprietà dei Morotti invece era agricoltura nella
pianura e ulivi e frutteti sulle colline con casolari sparsi che ne
facevano un quadro pittorico suggestivo da cartolina turistica o
disegno di viaggiatori del gran tour.
Direzione Ponte Centesimo
Arrivati in paese, la prima casa che si trovarono davanti fu un edificio
alto, quasi un grattacielo rispetto alle altre case, le più solo pianoterra,
alcune ad un piano. Una bella costruzione dalla tinteggiatura celestina
che non a caso era chiamato dalla gente il “Casone”.
Loro erano diretti lì, sin dall’inizio del viaggio vi avevano stabilito una
sosta, ed ora erano arrivati. Lì, perché era casa di parenti stretti, vi
abitava un ramo della famiglia Paci. Più esattamente un fratello di
Attilio (il padre di Silvio), Francesco detto Checco, da Sigillo vi si era
trasferito anni prima, quando lo sviluppo industriale di Foligno aveva
promosso una attività edilizia importante. C’era bisogno di artigiani
validi e lui Mastro Checco, capomastro come il fratello Mastro Attilio, vi
aveva messo in piedi una impresa edile. La dimora invece, in quel
paese vicino alla città, un posto tranquillo simile a quello lasciato, di
lato alla strada che lo avrebbe riportato a Sigillo, se le cose non fossero
andate. Era come dare corpo, materia, ai pensieri: la via Flaminia
davanti il portone, sarebbe bastato ripercorrerla nella direzione del
ritorno, c’era la casa di sempre che aspettava. Forse anche per questo
la dimora non era in città, si sarebbe potuto dire una mancanza di
determinazione a causa di radici e vissuti che confliggevano con il
nuovo. E sarà stato anche per questo che agli inizi del secolo, la grande
emigrazione in America di giovani di quei paesi appenninici non aveva
coinvolto i ragazzi della famiglia, eccetto uno.
Dunque dimora a Vescia, un paese dal nome impronunciabile ma in
quella bella casa che Francesco aveva messo a posto e fatta più bella.
Con lui la moglie e i figli: Edmondo ed Euro e Luigi, Adriano, Giuliana,
Elio. I più grandi, arruolati nel lavoro della muratura, e gli altri
contigui ad essa, come Elio falegname, in qualche modo Adriano
contabile, e poi Giuliana l’unica femmina, e da ognuno nuove famiglie e
quindi figli, e ad infoltire il tutto anche Dante un nipote, fratello di
Silvio.
Questi bussò alla porta, da dentro aprirono, comparve lo zio. Furono
espressioni di gioia ed affetto, poi entrati in casa fu un accorrere degli
altri presenti a casa. Cugini e cugine che chiedevano che ci facessero lì,
li sapevano a Roma, e giù Zeno e lui a raccontare di loro, del compagno
di viaggio, e di rimando loro. Poche notizie da Sigillo, ma proprio in
quei giorni si stava ragionando di mandare i piccoli su in paese per
allontanarli dai pericoli dei bombardamenti che si temevano in città.
Avevano scritto allo zio Attilio in questo senso e si era fatto vivo
Umberto che stava predisponendo dove alloggiare i ragazzi.
Prepararono per loro una lauta colazione che era quasi un pranzo. Tra
discorsi e mangiare e riposo si fermarono a lungo. Oltre a mastro
Checco e le donne di casa c’erano i figli più giovani, gli altri erano in
giro per cantieri ancora attivi in città nonostante la guerra, lavori per
lo più di manutenzione, non nuovi progetti, dati i tempi.
Mattina piena di materia e sentimenti, ma ora si trattava di ripartire.
“Ma come?” Si preoccuparono i parenti. “Di nuovo a piedi?”
I tre che lo davano per scontato chiesero se loro avessero alternative
da suggerire. Intervenne Edmondo, il primogenito che era rientrato da
poco in casa a prendere il furgone del lavoro. “Qui accanto c’è la
stazione ferroviaria di Scanzano, vi si fermano i treni merci per caricare
i prodotti dello scatolificio militare.” disse.
Si trattava di un grande complesso situato fuori del paese sulla strada
che andava a Belfiore, strada che come la corta di Colle fungeva da
scorciatoia per la statale val di Chienti dove si immetteva all’altezza
del paese di Pale. Belfiore come certifica il nome si presentava al
visitatore con un aspetto gradevole ed edifici importanti tra i quali il
grande convento dei padri somaschi, restaurato pochi anni prima ad
opera di un’impresa dove aveva lavorato come assistente Zeno.
Se si passa l’impropria similitudine Belfiore appariva come un vecchio
signore dai tratti aristocratici. Popoloso e antico aveva la dignità che
gli veniva da una storia di laboriosità e la presenza di individualità che
guardavano oltre la dimensione locale. Come fu per un figlio illustre,
socialista della prima ora, che fu senatore del regno e antifascista
irriducibile da meritarsi il confino. In quei giorni si sapeva di un suo
coinvolgimento nella costituzione del CLN, il comitato di liberazione
nazionale. Veniva da una famiglia di proprietari terrieri ed industriali
cartari, che avevano in paese la fabbrica. E non era la sola attività
manifatturiera presente nel paese, a giustificare la spocchia e
superiorità con cui i belfioresi si relazionavano con i vicini vesciani,
senza storia questi e con una attività economica fatta principalmente
di commerci legati al transito sulla via Flaminia. Alterne fortune legate
ai cambiamenti occorsi nella storia in termini di sovvertimenti politici,
immigrazioni, invasioni, caduta di imperi e altro. Durante il Medioevo
quando la strada di comunicazione più importante non era la Flaminia,
come era sempre stata e sarebbe tornata ad essere, Vescia di fatto non
esisteva. I traffici si svolgevano lungo via della Spina, una strada
montana più sicura rispetto alla consolare che correva in pianura.
Allora non c’era più la manutenzione stradale che Roma aveva
garantito per secoli, e oltre a questo la Flaminia era teatro delle
scorribande dei barbari, gli immigrati irregolari di allora. La via della
Spina era così importante che i conti di Campello ancora oggi se ne
fregiano sul loro stemma.
“Potrebbe essere una buona soluzione. Non è difficile trovare il modo di
salire su un vagone. Però c’è il pericolo dell’incontro con i militari che
controllano la fabbrica e la stazione, per paura di colpi di mano da parte
dei gruppi che si vanno raccogliendo in montagna”.
Continuò Edmondo, e raccontò che qualche giorno prima si era
verificato qualcosa del genere. Dal territorio del monte Pennino era
sceso a Nocera un gruppo di una ventina di persone che avevano
attaccato la caserma dei carabinieri per prendere le armi, si era
verificato uno scontro a fuoco, con alcuni partigiani e carabinieri feriti.
I rivoltosi erano comandati da slavi evasi dal campo di
concentramento di Colfiorito, ma c’erano anche giovani di Foligno tra i
quali Antero Cantarelli, un cattolico impegnato in politica che era
rimasto sfregiato in volto.
“Intanto potreste venire con me” riprese Edmondo “devo andare in
località Ponte Centesimo, una decina di chilometri da qui nella direzione
del vostro cammino. Vi sistemo sul furgone, uno accanto a me e gli altri
due sul cassone dietro, tra gli attrezzi”.
La località prendeva il nome da un ponte romano di cui rimaneva solo
l’imposta e qualche pietra nel greto del fiume Topino sopra il quale era
stato costruito. Zona di resti archeologici quella, oltre il ponte, il cui
nome ricordava la distanza in miglia da Roma, ed era sostanzialmente
corretta. Secondo altri indicava il centesimo ponte sulla Flaminia a
partire dal Foro, e che si sappia nessuno aveva verificato la congruità
della misura. Anche perché di tanti ponti non ci sarebbe stata più
traccia, scomparsi nel corso dei secoli. Comunque oltre il ponte era
stato riportato alla luce un viadotto della consolare primitiva che
sormontava un chiavicotto per il drenaggio delle acque verso il
prospicente Topino. In prossimità, la chiesa di Santa Maria Assunta
che nella parte inferiore della facciata mostrava blocchi di pietra di
epoca romana con cui era stata costruita la precedente Abazia paleo
cristiana, punto di riferimento importante di tutto il territorio, come la
qualifica di Pieve attestava. Nel territorio una comunità di cui parla
anche Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”, i “nucerini
favonienses”, distinti dai “nucerini camellari” della vicina Nocera. La
strada correva lungo la pianura nei pressi del fiume, poi caduta Roma,
per i motivi già ricordati, la via fu spostata verso la collina dove corre
ancora oggi e dove all’altezza della stazione ferroviaria di Pieve
Fanonica, sulla collina antistante, si trova un’edicola del 1600 che
ricorda lavori di manutenzione della strada danneggiata dalla piena
del fiume Tinia, il Topino di oggi. Il nome latino Tinia era stato
preceduto dal termine umbro Supunna. Nomi diversi di lingue e civiltà
diverse ad indicare il medesimo fiume. La natura appare immutabile
in confronto alla variabilità della storia umana. Non lo è, ma occorrono
tempi lunghi perché i cambiamenti occorrano, e se accadono
improvvisamente, significa catastrofe. Per intanto, umbri e romani
sono scomparsi e anche noi non stiamo bene. E il Topino continua a
portare acqua dai monti di Nocera sino alla pianura umbra, magari un
po’ meno del passato per il furto da parte dei signori di Perugia. E nei
secoli Nocera ne ebbe grande lustro per la salubrità delle acque
salvifiche. “Nocera delle acque” dove anche Francesco malato si recò a
berne per riacquistare un po’ di salute compromessa dai digiuni, dalla
vita errabonda, dall’ascesi. Chiedeva ancora un po’ di vita per
continuare a lodare il Signore ed insegnare agli altri, in modo che fosse
più lontano il tempo della dimenticanza. E dove anche un
imprenditore milanese aveva portato la figlia malata. Ottenuta la
guarigione mise su un’impresa per la captazione dell’acqua,
l’imbottigliamento, e la commercializzazione sotto il simbolo del leone
e la scritta “Acqua di Nocera Umbra Felice Bisleri”.
Alla stazione di Pieve Fanonica
Sistemati sul furgone partirono. Ai limiti del paese trovarono un
assembramento di militari, Edmondo deviò immettendosi su una
strada laterale che li avrebbe condotti, superato il Topino, a San
Giovanni Profiamma. Lì avrebbero incrociato la via Flaminia primitiva,
quella che viene da Bevagna e che si sarebbe ricongiunta più avanti
con quella che li aveva portati a Vescia. Percorsi alcuni chilometri la
raggiunsero in prossimità di una chiesa di epoca paleo-cristiana,
proprio all’ingresso del paese di San Giovanni. Chiesa di grande
importanza storica perché sede vescovile sin dall’inizio dell’era
cristiana e luogo di culto di Forum Flaminii, la città edificata poco
dopo la costruzione della strada dal console Flaminio medesimo a
perpetua memoria, e posta nel punto di mezzo tra Roma e Fano.
Passarono velocemente tra le case del paese, dopo avere costeggiato
alcuni manufatti, parallelepipedi in opus cementizia, che erano tombe
di epoca romana di viaggiatori deceduti sulla via. Ne rimaneva quella
testimonianza muta, ormai senza più un nome che ne ricordasse
l’identità.
Oltre San Giovanni Profiamma, i due tratti
della Flaminia si ricongiunsero in località Ponte Centesimo. Lì doveva
fermarsi Edmondo per risanare il tetto di una casa colonica, di
proprietà di Fiordi Ottavio che oltre la casa aveva un terreno di piccole
dimensioni, circa un ettaro, da cui, come contadino, tirava fuori a
stento di che vivere per sé e la famiglia. Per questo motivo integrava il
bilancio familiare con il lavoro a giornata di manovale nell’impresa di
Edmondo. Ora questi lo avrebbe aiutato nel lavoro del tetto
probabilmente senza pretendere compensi, a giudicare dall’affetto con
cui Edmondo ne parlava.
In vista della casa il furgone si fermò e loro scesero, saluti e abbracci, e
ultime raccomandazioni.
“Continuate ad essere prudenti, la zona da Foligno a Nocera non è
tranquilla, tedeschi e fascisti si stanno riorganizzando con presidi nel
territorio per mantenere l’ordine e combattere i movimenti ancora
isolati che si vanno costituendo in montagna. Si sente parlare di
imminenti rastrellamenti per catturare in particolare i fuoriusciti dal
campo di concentramento di Colfiorito, slavi in primis che vengono
descritti particolarmente determinati e feroci, mentre gli inglesi hanno
solo desiderio di raggiungere la linea del fronte per ricongiungersi con i
loro. D’altra parte i tedeschi devono concentrarsi nei combattimenti con
gli alleati e hanno necessità di una retrovia che non crei problemi. Di più
hanno bisogno di uomini da inviare in Germania per il lavoro coatto e di
giovani per le armi, da utilizzare al fronte, i fascisti sono il loro braccio
esecutivo. Ecco che farsi trovare in giro senza validi motivi è molto,
molto rischioso”.
Così sentenziò Edmondo con eloquio e movenze da aspirante
patriarca. Ne aveva l’aspetto, bell’uomo, alto, signorile, se non fosse
stato per le mani callose che ne denunciavano il mestiere materico,
modi che sarebbero stati ancora più raffinati se sostenuti da
frequentazioni adatte, che comunque in qualche modo ricercava, se si
voleva dare un significato alla sua non saltuaria presenza nel teatro
Piermarini al Corso di Foligno dove si davano commedie o nel Cinema
Impero dove si davano le opere liriche.
Si salutarono dunque, lui alla volta del casolare posto su un coppo a
sinistra della strada, loro che presero a procedere in direzione di
Valtopina, il comune successivo che avrebbero incontrato dopo alcuni
chilometri. La strada svoltava bruscamente a sinistra, più a ridosso
della collina, proprio all’altezza dei resti del ponte diruto.
Ponte Centesimo una volta crollato, probabilmente dopo la fine
dell’Impero, tramontata anche la capacità costruttiva e tutto il resto,
non fu ricostruito causando l’interruzione della strada. Di conseguenza
deviarono la strada a ridosso della collina dove da allora corre. Forse
per questa ragione quella curva innaturale della via. Percorsi circa
cento metri, al bordo della strada notarono due cipressi che
delimitavano una lapide in pietra con una scritta: il nome di un
cantoniere dell’Anas, lì’ caduto sul lavoro. Lessero e rimasero
sbalorditi, si trattava di uno del paese, in qualche modo lontano
parente, come si è tutti nelle piccole comunità. Si chiamava Alessio
Gambini, non altrettanto bene si leggeva la data dell’infausto giorno,
ma doveva essere recente se loro non ne avevano saputo nulla.
Rimasero alcuni momenti in silenzio come una muta preghiera.
All’altezza dell’edicola si distaccava una via che scendeva ad un livello
inferiore del terreno, dove scorreva il fiume e dove sorgeva un
agglomerato di case. Proseguendo, la strada dopo alcuni chilometri
avrebbe condotto al paese di Capodacqua, e da lì, su per la montagna a
raggiungere il piano di Colfiorito. Ce n’erano in giro per l’Umbria di
posti con quel nome, tutti avevano a che fare con luoghi di confluenza
di corsi d’acqua, magari imbrigliata e raccolta per la distribuzione
verso le grandi città.
La sciarono la Flaminia e imboccarono quella via laterale, per
raggiungere la stazione ferroviaria di Pieve Fanonica poco distante. Si
diressero lì per vedere se c’era qualche possibilità alternativa alla
marcia. Si trattava di una piccola stazione che serviva le persone dei
paesi intorno: Capodacqua, Afrile, Cupacci, e di altri sulle colline, più
lontani. Si era fatto mattino inoltrato, il cielo nuvoloso senza annunci
di pioggia, la temperatura mite. Non erano stanchi, avevano
camminato quasi niente rispetto ai giorni trascorsi: quel breve tratto
da Foligno a Vescia. Poi, rifocillati nel corpo e nell’anima in casa dei
parenti, via con il furgone sino a Ponte Centesimo. Calcolarono che
non rimaneva tanta distanza per la conclusione del viaggio: circa
quaranta chilometri per loro. Per Davide era diverso, proseguire alla
volta di Ancona per lui avrebbe comportato salutarli prima di Sigillo,
nella zona di Fossato di Vico, località Osteria del Gatto. Lì un
diverticolo si distaccava dalla Flaminia per raggiungere il paese di
Fossato e poi su per la montagna sino al valico dove si scavalcavano gli
Appennini per scendere a Fabriano nelle Marche e proseguendo si
raggiungeva Ancona. Il sedersi sulla panca della piccola e disadorna
sala d’aspetto aveva il senso non di un riposo, piuttosto era la
necessità di una pausa della mente, tanto più incombente da far loro
dimenticare la prudenza che avevano manifestato per tutto il viaggio.
Erano entrati senza curarsi della presenza di altri, magari di militari!!
Quello stare lì a dispetto delle regole che si erano imposti e che
Edmondo poco prima aveva rafforzato con il suo saluto, era dovuto ad
un languore che non aveva a che fare con i muscoli e le ossa. Qualcosa
dentro, inconsapevolmente, imponeva quella pausa, forse per
ritrovare il senso di quell’andare che era il viaggio intrapreso. Sì,
tornavano a casa, nei luoghi e tra le persone della vita, ora spinti dalla
guerra in atto, ieri dalle pause del lavoro, ma se si liberava l’azione in
atto, l’impresa, il divenire che avevano messo in moto, dalla
dimensione del tempo, dello spazio, delle motivazioni, avrebbero
intuito che quell’andare aveva una sua misteriosa, interna necessità.
Era legata a comportamenti ancestrali, tramandati da sempre,
diventati determinanti genetici. Come l’andare dell’uomo preistorico,
mosso dalla pulsione degli istinti, dalla necessità di soddisfarli, per
sopravvivere, per perpetuare la specie. Per poi, costruiti i villaggi e le
città, quasi appagato, fermarsi. Ma dentro, un senso di mancanza, il
bisogno di ripartire spinto da nuove necessità, non più istinti, ma
costruzioni della mente. E da allora sempre così, con la vita che si
consuma in tutto questo fermarsi e ripartire, giorno dopo giorno, con
accidenti che turbano l’acquisito, e di nuovo a ricreare l’equilibrio
distrutto. Un pendolo continuo tra stasi e movimento, conservazione e
avventura, comportamenti indotti e libertà, obbedienza e rivolta,
paura e coraggio. Come in quei giorni coloro che abbandonavano i
sicuri rifugi della casa e della famiglia, per correre a Salò a cercare la
bella morte, o gli altri che sulle montagne si preparavano a sacrificare
la vita, per non aspettare che gli americani sbrigassero la pratica.
Mentre gli altri, i più, rimanevano avvinghiati a casa per difenderla e
difendersi, ad aspettare che passasse la buriana, per rincominciare
domani la stessa vita di ieri, di sempre.
Pensieri autonomi che avevano una vita propria e prendevano vigore
nel percepire in loro quel momento di stanchezza e riflessione che li
rendeva ricettivi. Così calavano in loro, si univano con quelli della loro
mente e amalgamati formavano la nuova consapevolezza di sé e delle
cose.
Così funziona e così giorno dopo giorno nel volgere della vita si
matura la coscienza dell’uomo desto, nel tentativo sempre frustrato e
sempre riproposto di capirci qualcosa sul senso della vita, prima che
sia troppo tardi.
Intorno non c’era nessuno, sui binari non passavano treni, non segni di
pericoli all’orizzonte. Si sentirono sollevati, dominava la sensazione di
piacere che dava loro il ricordare il cammino di quei giorni. Quello che
dovevano ancora fare incuteva meno preoccupazione. In fondo
compresero che il loro andare su quella strada che era stata e ancora
oggi continuava ad essere la strada della vita, era come un destino che
nel percorrerlo, strada e destino, li appagava. Tornare al paese e
ripartirne per guadagnare il pane per sé e la famiglia, sempre su quella
strada vecchia di duemila anni. Nel trascorrerla era compagna la
storia, infiniti uomini l’avevano percorsa, anche quelli i cui nomi erano
finiti nei libri della storia maggiore. Cesare era passato di lì a
conquistare il mondo e gli imperatori dopo di lui, e i Papi, e i re barbari
che posero fine al sogno di Roma. Lì era passata tutta la storia anche
quella minimalista e loro ne facevano parte. Percorrerla aveva il
sapore di una funzione religiosa, alla quale loro stavano partecipando
con quell’andare che riassumeva in sé il senso della vita, procedere
oltre e indipendentemente dalla meta contingente, come mossi dal
destino, come atto afinalistico necessario e indispensabile, il cui
significato era conchiuso in sé stesso.
Si fermarono ancora un po’, poi visto che non c’erano notizie di treni
merci in arrivo, nessuno parcheggiato sui binari, e il primo per
viaggiatori, come era scritto sulla bacheca, sarebbe arrivato da Foligno
dopo oltre un’ora, uscirono dalla stazione e presero a camminare nei
pressi.
Sfuggono al rastrellamento dei tedeschi
Avevano tempo, la zona appariva tranquilla, con il fiume poco distante.
Rumore dell’acqua tra i sassi, fruscio nel suo scorrere tra la sabbia
della riva e la vegetazione delle sponde. Nei secoli il fiume aveva
scavato e dato forma a quella vallata che da Nocera arrivava sino a
Foligno, e che aveva nome di valle del Topino. Nel mezzo il paese di
Valtopina, a ridosso del versante nord-orientale del monte Subasio.
Di lato al fiume, un centinaio di metri oltre la stazione, videro e vi si
diressero, la chiesa di S. Maria Assunta.
Quelle grandi pietre squadrate da tempio pagano, antico luogo di
culto, diventato poi cristiano, importante perché vi si celebravano i
battesimi. E di quel tempo aveva assunto lo stile di chiesa paleo
cristiana medioevale. Addossate alla Chiesa costruzioni abitative che
facevano apparire il complesso come un fortilizio di difesa, di cui
verosimilmente occorse la necessità, una volta caduta Roma.
Vi girarono intorno, nessuno dentro le case o fuori, sembrava un
relitto della storia, ma alcuni panni stesi fuori dalle finestre
testimoniavano la presenza di gente che lì abitava, magari fuori per
lavori, nei campi o altro. La chiesa era chiusa, ma dalla tipologia faceva
sospettare un interno simile a quello della chiesa di san Giovanni
Profiamma che avevano visto passando a bordo del camioncino di
Edmondo. Magari le primitive pietre avranno visto il console Flaminio
in preghiera a chiedere la protezione degli Dei per la grande opera
viaria che stava portando avanti. Gli fu concessa, ma non ebbe lo
stesso favore degli dei di lì a poco, quando sul Trasimeno, non molto
distante, avrebbe visto massacrare i suoi legionari ad opera dei
cartaginesi di Annibale, calati dalle alture circostanti di Tuoro, con le
acque del lago tinte del loro sangue a cui aggiunse il suo per
condividere uno stesso destino ed evitare di sopravvivere all’onta
della sconfitta. Poco distante dalla chiesa ammirarono con gli occhi del
mestiere il viadotto, coevo della consolare, parte di un manufatto atto
a favorire il deflusso delle acque provenienti dalla collina vicina, a
salvaguardia della strada.
Dal lato opposto, oltre il fiume, sulla
collinetta dove passava la Flaminia attuale che avevano abbandonato
poco prima, all’altezza della lapide che ricordava il compaesano
Alessio Gambini, videro la casetta colonica con il monumento sull’aia
che celebrava lavori di alcuni secoli prima su quel tratto di strada,
franato a causa di una piena del Topino. Invece l’antico tracciato si
snodava sotto i loro piedi nel posto dove stavano passeggiando, a
ridosso del fiume scavalcato dal grande ponte di cui vedevano ancora
l’imposta rimasta su un lato. Quel luogo deserto dove stavano
girovagando a passi lenti, per far passare il tempo nell’attesa di un
treno da prendere se ci fossero state le condizioni, era proprio un gran
bel posto. Ci si respirava la storia, anche se la mancanza di vita, di
gente, di rumori, suggeriva pensieri di abbandono, di morte, che quei
resti del passato contribuivano ad ispirare. Ma era sensazione
mendace, la storia non scompare mai del tutto, i luoghi dove si è svolta
possono apparire sonnacchiosi ma in qualche modo conservano
traccia degli avvenimenti che lì si sono svolti. Sarebbe bastato
rimuovere la polvere, il fango, magari l’asfalto che ricopriva le pietre
dell’antico acciottolato per riscoprire i solchi dei carri che per secoli lì
erano passati e se ci si fosse messi in ascolto, si sarebbe sentito il
clangore delle armi dei legionari in marcia, insieme alle loro voci, ai
suoni della loro baldanza di giovani uomini lanciati alla conquista del
mondo, per la loro gloria e quella di Roma.
Come a dare corpo
a quei pensieri, all’improvviso dalle colline circostanti un rumore
concitato di passi, come di corsa.
In breve
spuntarono dal bosco una decina di uomini, scarponi infangati e logori
ai piedi, abiti dalle fogge diverse, come raffazzonati da mani
premurose di donne, che avevano approntato in fretta indumenti atti a
proteggerli alla meglio dal freddo e dalle intemperie della montagna.
Portavano armi, fucili per lo più, mitra alcuni, pochi. Quando
arrivarono allo scoperto corsero con più fretta, alla ricerca di un
nuovo riparo, e intanto guardavano intorno per vedere se ci fossero
segni di pericolo.
Si accorsero dei nostri che stavano nei pressi del
fiume, li raggiunsero. Timore e fermezza da parte di Silvio che si mise
dinanzi agli altri, ma quelli non mostrarono al loro avvicinarsi segni di
minacce, anzi ancora lontani facevano gesti con le mani come a
invitarli a nascondersi.
Quando furono da presso
gridarono: “abbiamo i tedeschi alle spalle, dobbiamo nasconderci, non vi
fate trovare qui, è pericoloso anche per voi!”
Insieme raggiunsero un boschetto e una volta al riparo aggiunsero:
“stanno facendo una rappresaglia, venite con noi, non ci devono trovare!
Decisero di raggiungere il fiume che in quel tratto era abbastanza
profondo da ricoprirli oltre la cintola e dunque anche interamente per
il tempo necessario, in caso di emergenza.
Presero a percorrerlo sulla riva destra, in senso contrario alla
corrente, in direzione di Nocera. Sembrò una scelta felice quella del
fiume, perché sulle rive cresceva una folta vegetazione che dopo una
trentina di metri non permetteva di procedere. All’udire le voci dei
tedeschi avvicinarsi, si tolsero gran parte dei vestiti, li caricarono
avvoltolati a mo’ di massaie di un tempo sulla testa, sopra gli abiti le
armi, con la mano che schiacciava il tutto e si immersero nell’acqua
continuando a procedere per allontanarsi più velocemente possibile
dalla radura dove stavano dilagando i soldati. In silenzio
procedevano lungo il fiume, si udiva solo lo sciabordio dell’acqua. Poi,
prima impercettibili e via via più distinte, si udirono le voci dei
tedeschi che si avvicinavano. Il gruppo dei fuggitivi si raccolse in
prossimità della riva, uno di loro prese gli abiti e le armi e li mise in
una buca del terreno che ricoprì con foglie e sabbia. Quindi
velocemente rientrò in acqua e insieme agli altri vi si acquattò fino ad
immergersi quasi completamente, in prossimità del bordo del fiume.
I militari, intorno ad una trentina di individui si erano sparpagliati
nella radura, indossavano la divisa grigio-verde della Wehrmacht, tutti
giovani, alcuni quasi imberbi, determinati nell’atteggiamento e nel
vociare tra di loro, come mossi dal dovere di svolgere al meglio la
funzione loro assegnata.
Loro e tutti i camerati distaccati in Italia si trovavano ad operare in
una terra ostile, dopo una dubbiosa fratellanza mai assimilata, frutto
della volontà politica dei governanti, non sentimento di popolo che
aveva subito e inflitto lutti nella passata guerra. Queste truppe
dislocate nella penisola per combattere gli alleati, dovevano dunque
guardarsi dalla gente, divisa tra la fedeltà al vecchio alleato protettore
della neonata Repubblica Sociale Italiana e l’adesione agli appelli del
re e di Badoglio passati al nemico di ieri. I militari germanici pur nella
teutonica, acritica, assoluta, pratica del dovere, provavano sentimenti
che andavano dalla paura per la loro vita, alla rabbia verso gli italiani
traditori, e ne facevano spietati esecutori di rappresaglie, quando si
prestava loro il fianco con azioni di guerriglia, o attentati. Alcuni
entrarono nella stazione ferroviaria, altri controllarono la chiesa con
le abitazioni annesse, gli anfratti e i boschi intorno.
Un
gruppetto si avvicinò al fiume, iniziò a percorrerlo lungo le sponde, chi
verso valle, chi in direzione dei nostri. Penetrarono nella fitta
vegetazione che ricopriva la riva, ma dopo pochi metri si fermarono
per l’impossibilità di procedere. Si sarebbe trattato di immergersi nel
fiume se avessero voluto seguitare la perlustrazione.
Confabularono tra di loro….
I nostri con il cuore in mano aspettavano……
Al richiamo imperioso del loro comandante che dirigeva le operazioni
da un luogo in prossimità della chiesa, i soldati desistettero e si
ritirarono.
I nostri al momento erano salvi.
Tutta la pattuglia si raccolse davanti la chiesa, in formazione raggiunse
la strada soprastante dove li attendevano dei mezzi blindati e dei
camion.
I nostri erano rimasti immersi nell’acqua fredda e
all’affievolirsi del vociare dei tedeschi, e all’udire il rumore dei motori
in allontanamento, presero a riemergere cautamente, ormai intirizziti
per la temperatura e l’immobilità. Progressivamente riguadagnarono
la riva del fiume, raccolsero gli abiti e le armi, alla bene e meglio
asciugarono i loro corpi e i vestiti con cui erano entrati in acqua e
ricompostisi, prudentemente si affacciarono nella radura lasciata
deserta dai tedeschi, di cui non c’era più traccia.
Zeno fu l’ultimo a uscire dall’acqua, aveva approfittato della
immersione nel fiume per esplorare le buche negli anfratti del greto,
un antico modo di pescare che i ragazzi del paese e lui con loro,
praticavano nel fiume Chiascio. Si catturavano lucci, trote e altri pesci,
che arricchivano il pranzo di famiglie numerose, sapientemente
cucinato da mamme angeliche, custodi della vita. Una bella dose di
proteine nobili, quel pesce, in tempi in cui la carne era privilegio delle
classi abbienti, poche persone in ogni comunità.
Zeno uscì con il ricco bottino, sarebbe servito anche per festeggiare lo
scampato pericolo.
Verso Nocera, lungo la valle del Topino
Nel frattempo discussero tra di loro e convennero di allontanarsi da
quel luogo e prendere per Nocera, percorrendo il bordo orientale del
fiume, quello protetto dal bosco che dalla collina arrivava a lambire
l’acqua. Si misero in marcia e i nuovi presero a raccontare ai nostri
quanto era accaduto in quei giorni sulla montagna.
Quello che avevano vissuto pochi istanti prima era la coda di un
rastrellamento che era iniziato nei giorni precedenti sulla montagna,
nei pressi di Annifo e dei paesi limitrofi di Cariè, Colle Croce, Sorifa,
Mosciano. Sembra che fossero stati uccisi dei soldati tedeschi la
settimana precedente, ad opera di partigiani guidati dagli slavi, fuggiti
dal campo di Colfiorito. La notizia non era certa, forse fatta circolare
ad arte per giustificare la rappresaglia messa in atto. Fatto sta che i
tedeschi erano dilagati sulla montagna folignate in forze e c’erano
andati di mezzo tutti quei giovani uomini che avevano incontrato nel
loro percorso. Non tutti partigiani, gente per lo più di Nocera e dei
paesi vicini, ma anche di Foligno.
Catturati li avevano concentrati nella piazzetta di Collecroce.
Altri erano riusciti a fuggire nei boschi o come loro in pianura in
prossimità del Topino.
Quelli raccolti nella piazzetta furono fucilati, circa una ventina, in gran
parte partigiani appartenenti alla IV brigata Garibaldi.
Altri catturati nei boschi e sulle strade, ignari di tutto, semplici
contadini o boscaioli, furono chi uccisi, chi avviati ad un campo di
concentramento, destinazione finale fabbriche e campi di lavoro in
Germania.
Il gruppo di uomini proseguiva guardingo lungo la riva del fiume nella
folta vegetazione. Quando il corso d’acqua si allontanava dagli alberi e
si faceva più scoperto, loro avanzavano nel fitto del bosco, avendo
sempre come riferimento il rumore dell’acqua. Seguendolo, anche
senza vedere il Topino, avrebbero raggiunto Nocera Scalo.
Lì il fiume raccoglieva le acque del Caldognola, un torrente che
prendeva origine nel territorio di Gualdo Tadino e dopo aver ricevuto
nel suo alveo le acque del Rio Fergia si congiungeva con il Topino a
Nocera scalo, un semplice raggruppamento di case sorte in prossimità
della stazione ferroviaria e della canonica.
L’ampia vallata del loro cammino era delimitata a sinistra dagli ultimi
contrafforti del monte Subasio e a destra da rilievi che annunciavano
le retrostanti vette della catena appenninica non ancora visibile dal
fondo valle. Sarebbe apparsa in tutta la sua magnificenza non appena
scollinata l’altura di Nocera.
In quel momento, e non era più così lontano il tempo e la distanza, i
nostri si sarebbero commossi alla visione del monte Cucco, la
montagna più alta di quel tratto di Appennini, che sovrastava il loro
paese posto ai suoi piedi. Il grande massiccio, nel vederli, avrebbe
mandato un richiamo, come un suono di tono, e nelle sue grandi
caverne viscerali si sarebbe formato un nuovo obelisco calcareo,
accanto ai tanti che avevano celebrato il ritorno al paese dei figli
dispersi nel mondo. Avrebbe annunciato la fine del viaggio, il ritorno a
casa.
Procedevano, si erano lasciati alle spalle Valtopina il capoluogo della
vallata, e ai lati sulle colline circostanti scorrevano come un presepio
le frazioni che si affacciavano sulla valle. Dall’alto avevano osservato la
storia trascorsa e ora quella attuale. Il fiume, la strada consolare, la
ferrovia ne raccontavano il fluire.
Loro, le frazioni, no. Residuali testimonianze di insediamenti antichi,
di quando le incursioni barbariche avevano spinto la popolazione ad
abbandonare la pianura. Le rocche e i bastioni ancora in piedi, erano
segni di una vita che un tempo si era spostata in alto per resistere alla
violenza dopo la fine della pax romana, come stava accadendo in
quelle settimane per la gente di quel territorio e di quello di Foligno
che si accingevano a sfollare nei paesi di montagna per non perire
sotto i bombardamenti alleati delle città e le violenze dei tedeschi.
Procedevano e si lasciavano alle spalle, in alto sulle colline, Balciano,
Postignano, Giove, Poggio, Ponte Rio, Col Folignate.
Apparivano con la punta delle rocche non ancora dirute e con una vita
che si percepiva continuare a scorrere, residuale economia montana,
fatta di pascoli e boschi per le necessità degli animali e dell’uomo.
Di lì a poco tutta quella vita sarebbe lentamente scomparsa, a causa di
un abbandono maldestramente vicariato da attività ricettive per ricchi
borghesi attirati da una farlocca riscoperta di valori antichi.
Stavano percorrendo un tragitto di circa quindici chilometri da Pieve
Fanonica a Nocera scalo. La strada era in lieve salita, quel tanto che
permetteva di raggiungere i cinquecento metri del colle di Nocera, a
partire dai duecento di Foligno.
Il sole era alto nel cielo, quando arrivarono in prossimità della
canonica di Nocera scalo. Era fine mattino, il mondo intorno
splendente e meraviglioso dava letizia ai cuori, comunicava messaggi
di positività. Non c’era nessuno in giro, uscirono allo scoperto e
presero a camminare a ridosso del fiume che li portò presso un
gruppo di case dal nome di Case Basse. Un gruppo di abitazioni sotto il
rilievo collinare su cui, incombente sull’abitato, si ergeva la rocca con
la parte più antica della città di Nocera, degradante da lì verso
Occidente ad incontrare la Flaminia moderna che ne costeggiava la
porta d’ingresso. Mura possenti da tutti i lati cingevano la città, ma di
queste ce se ne accorgeva solo in prossimità, da lontano la città
emergeva alla vista tra le colline intorno per lo svettare in cielo della
parte alta della torre civica chiamata dai nocerini il Campanaccio e del
campanile accanto della chiesa di S. Rinaldo. Case basse era un
insediamento antico, sorto lungo la primitiva consolare, ora borgo
minimale, da quando la strada era stata spostata dal fondo valle dove
scorreva il fiume, un po’ più in alto per raggiungere la Nocera dei
Longobardi sorta sul colle omonimo, una volta distrutta dai Goti di
Alarico la Nuceria Camellaria dei romani, posta accanto al fiume.
Città importante Nocera sin dal tempo degli Umbri che la chiamavano
Noukria, poi importante colonia romana. Il termine camellaria
designava il nome dei fondatori della città: Camers o Camerinesi.
Studiosi di cose antiche in particolare il tedesco Radke come riportato
da Monsignor Sigismondi, storico locale, attestavano che il termine ha
a che fare con la città di Camerino e aggiungono che la prima Flaminia
andava a Camerino da Nocera per raggiungere Senigallia che era
abitata dai Galli Senoni.
Ma questa roba non ci interessa per la nostra storia, è roba astrusa,
infatti più prosaicamente altri ritengono che il termine designasse la
fiorente attività di fabbricazione delle camelle, le ciotole in dotazione
ai legionari, che lì venivano prodotte.
Nocera era punto di snodo viario, con la prosecuzione verso Fano di
quello che divenne il tragitto ufficiale della Flaminia e con la
diramazione verso Ancona con il nome di strada Septempedana, che
attraversate le località di Dubios, Prolaqueum, e Semptempeda
(l’attuale S. Severino) raggiungeva Ancona.
Il Municipio con il cristianesimo religione di stato divenne diocesi
importante sin dal IV-V secolo d.C. Serviva un vasto territorio che si
estendeva sino alle Marche e sede da allora di un seminario contiguo
alla cattedrale di S. Rinaldo, il patrono martire della città.
Successivamente Guastaldato del Ducato longobardo di Spoleto, poi
dominio dei Trinci signori di Foligno, infine parte dei domini della
Chiesa.
Anche a Case Basse nessuno in giro.
Si fermarono a bere ad una fontana.
Era acqua naturale minerale che Bisleri aveva convogliato lì per il
benessere della gente, piccola parte di quella che imbottigliava poco
sopra nello stabilimento che prelevava l’acqua da una delle sorgenti
dell’acqua preziosissima che non aveva salvato da morte Francesco,
ma nei secoli aveva comunque portato benessere a moltitudini di
sofferenti che a quelle fonti erano accorsi come lui per una domanda
di salute.
La sosta alla fontana doveva essere necessariamente breve, avevano
avuto fortuna sino a quel momento, ma non sapevano se i tedeschi
fossero ancora in giro. Certamente non potevano entrare in città con il
rischio di trovarvi un presidio di tedeschi o fascisti, quanto meno di
carabinieri. Occorreva per i fuggiaschi trovare un riparo sicuro per far
decantare la cosa e poi tornare sui monti.
Per i nostri la cosa era diversa, ma in qualche modo si erano coinvolti
in quella storia e per il momento sentivano che per la loro sicurezza
dovevano condividere le decisioni di coloro.
In quel pensare e parlare, tornò alla mente di Zeno e Silvio quel
ragazzo, studente di Medicina, Domenico Ettorre, conosciuto sul treno
e separatosi da loro alla stazione di S. Oreste.
In quell’occasione aveva parlato dello zio vescovo mandato a Nocera,
lontano da Roma, dalle gerarchie ecclesiastiche per soddisfare una
richiesta del regime, al quale la posizione antifascista del presule non
andava giù. Dunque si poteva far appello a quei sentimenti per una
ospitalità di qualche giorno per coloro scampati al rastrellamento. E
forse anche per loro. Era un tentativo da fare.
Arrivare all’Episcopio senza farsi vedere non era impossibile, si
trattava di proseguire lungo l’antica consolare, fatti un centinaio di
metri si distaccava dalla strada uno stretto viottolo che scalava la
roccia dove si ergeva la torre e il campanile con accanto l’episcopio e il
seminario diocesano.
Lo aveva riportato alla memoria Silvio, che anni prima aveva lavorato
in un cantiere per la manutenzione del seminario e ricordava quel
sentiero che lui e gli altri operai percorrevano nella pausa del pranzo,
per raggiungere la fontana dove consumavano il pasto del giorno.
Dunque si trattava di raggiungere il vescovado, una o al massimo due
persone per prendere contatto, con gli altri ad attendere da basso.
I due non potevano che essere Zeno e Silvio che conoscevano il
ragazzo. Si disposero ad andare mentre gli altri si allontanarono dalla
strada e riguadagnarono il bosco vicino.
I due si avviarono parlottando tra di loro, un pensiero di disappunto
diventava parole che si scambiavano l’un l’altro sulla medesima riga di
spartito.
Avevano fatto male a tirare fuori quella possibilità di un ricovero
nell’episcopio.?
Anche se gli avvenimenti della mattina li avevano portati a
condividere il destino degli altri, con i quali per altro sentivano
un’affinità, quanto meno per motivi politici, e l’essere fuggiti con loro li
aveva salvati da un incontro con i tedeschi, ora in un momento di
assenza di pericolo immediato, avvertivano tutta la perplessità di
continuare a condividere con quelli le tappe successive della vicenda.
Non c’entravano nulla con la riferita uccisione dei militari germanici,
causa del rastrellamento, erano in prossimità del loro paese, il viaggio
era andato fin lì bene, stavano per raggiungere le famiglie che avevano
bisogno di loro. Ora compromettere tutto per condividere la sorte di
coloro……
Intanto erano arrivati al viottolo che prendeva origine dal tratto di
strada dove si affacciava una bella villa in stile liberty assolutamente
dissonante con le case della zona. Era in prossimità dello stabilimento
dell’acqua minerale, pensarono potesse essere di Bisleri, se ancora
vivo, o dei suoi eredi. L’erta salita su cui s’impegnarono tolse lucidità
alle determinazioni logiche della pianura, fece prevalere le ragioni del
cuore che li portò a pensare meno a sé stessi e più agli altri. Quei
ragazzi sbandati avevano bisogno di aiuto e loro potevano darglielo
con la missione che avevano intrapreso, se avesse avuto successo.
Al seminario di Nocera
Arrivarono sulla minuscola spianata dove si ergeva la torre.
L’occupava per gran parte il basamento del monumento, sul davanti
una staccionata faceva del luogo una straordinaria terrazza aperta
sulla vallata: la vista spaziava su un tripudio di colori autunnali che le
foglie cangianti dei boschi donavano a chi avesse avuto animo e tempo
per guardare. La bellezza della natura non esiste di per sé, occorre
un’anima, una mente, un corpo che sappia recepirla ed apprezzarla
come tale. Prevede una componente innata e una costruita
dall’educazione. La percezione immediata del bello sembrerebbe la
più veritiera e quella frutto dell’educazione la più fallace, perché
guidata, quasi imposta da chi si arroga il diritto di sentenziare, ma alla
fine la cosa si risolve con il metro della autenticità del sentire, che
rende mutevole, personale, il giudizio del bello. E comunque si vedeva
in lontananza sino a Valtopina e al centro della vallata il fiume, la
strada e la ferrovia, insieme alla linea immaginaria del percorso che
avevano fatto seguendo il limitare dei boschi in prossimità del fiume.
Dalla piazzola dove si trovavano, uno svincolo conduceva in una
piazza in discesa che proseguiva tra due file di edifici a formare una
via che si portava nella parte bassa della città, sino a terminare in
prossimità della porta principale dell’abitato. Persone e anche uomini
in divisa giravano da basso. Loro, affacciatisi sulla piazza trovarono da
un lato l’ingresso alla cattedrale, dall’altro quello al vescovado. In
prossimità non c’era nessuno. Veloci fecero i quattro passi che li
portarono sino al portone dell’episcopio e tirarono la corda di un
campano posto all’interno che rispose con un suono basso come
ovattato. Ebbero timore che non fosse sentito e ripeterono il gesto.
Rumore di passi veloci e il portone si aprì. Un giovinetto non ancora
adolescente si affacciò e sorridente li fece entrare nel cortile. Affabile e
nel contempo autoritario il ragazzo chiese cosa volessero e come per
presentarsi e rivendicare il ruolo e l’importanza della funzione,
aggiunse: mi chiamo Germano Mancini, sono un aspirante seminarista,
qui per studiare e ho l’incarico di rispondere a chi suona alla porta, far
entrare chi appare come persona per bene, e rifiutare l’ingresso a coloro
che non mi sembrano a posto. Vi ho guardato dallo spioncino, ecco
perché non ho aperto al primo rintocco, il tempo è servito per giudicarvi,
dopo ho deciso di aprire. Dunque cosa volete?
Parlava con l’autorevolezza di una persona adulta e anche con una
appropriatezza di linguaggio singolare per la sua età. I nostri chiesero
al ragazzo di poter parlare con il vescovo e chiesero se lui fosse a
conoscenza di un giovane che loro avevano conosciuto alcuni giorni
prima. Anche lui, come loro, in viaggio da Roma a Nocera, lui diretto lì
dallo zio vescovo. Forse era arrivato o era ancora in viaggio, loro non
sapevano. Germano rispose: “devo sentire padre Sigismondi che
sovraintende al Seminario e funge anche da segretario del vescovo”.
Se ne andò oltre una porta che dal cortile immetteva in un lungo
corridoio di cui non si vedeva la fine. Loro si posero nell’attesa in quel
luogo chiuso dominato dall’alto dalla grande mole della Torraccia e
più discosto dalla guglia del campanile. Il tempo era mite, gli abiti
indosso ormai asciutti, loro presentabili nell’aspetto, ove fossero
ricevuti dal vescovo. Non parlavano, né pensieri incalzanti muovevano
la coscienza, aspettavano. Quello che c’era da dire lo avevano stabilito,
si trattava di trovare le parole giuste, poi sarebbe andata come doveva,
non erano angustiati dal risultato. In fondo pensavano che per loro e
Davide il fallimento dell’impresa non sarebbe stata drammatica,
riconquistata l’autonomia, avrebbero trovato il modo per proseguire il
viaggio. La coscienza era tranquilla, stavano cercando di aiutare
coloro, più non potevano fare. Il cortile era circondato da alte mura su
cui si aprivano finestre che inondavano di luce le camerate e le aule
dei seminaristi, dei veri o presunti aspiranti. Se ne sentiva il vociare,
chi sa, se in un momento di sosta dei loro studi, o per insegnanti
tolleranti. Si, il seminario era un luogo dove si studiava per diventare
preti, per vocazione o più spesso perché figli di famiglie povere che
non potevano offrire prospettive rosee di futuro. La carriera
ecclesiastica dava una certezza economica, magari misera se si finiva
in parrocchie sperdute di montagna, oppure più dignitosa, quando non
privilegiata se si andava avanti nella carriera a ricoprire ruoli
importanti. Ma c’era anche un’altra ragione: il sistema scolastico
statale era ancora esclusivo, con i licei e le università frequentati
prevalentemente dai rampolli delle classi abbienti. Le classi popolari
essendo destinate a lavori manuali, l’unica possibilità, per questi di
accedere agli studi superiori la davano i seminari. Dunque molti
ragazzi, dopo le scuole elementari erano mandati in seminario, vi
trascorrevano tre anni per completare il primo ciclo di studi, alcuni
proseguivano nel ciclo successivo, poi al momento di iniziare il
percorso finale che li avrebbe portati al sacerdozio, tornavano a casa.
Gli insegnati preti per combattere questo costume avevano iniziato a
sottoporre gli allievi ad una confessione dove chiedevano loro di
dichiarare se erano lì per farsi preti o per studiare. Ove avessero detto
il falso, sarebbero incorsi in peccato mortale e la pena poteva arrivare
sino alla scomunica, oltre ad incorrere nel giudizio di Dio. La maggior
parte cadeva, così di fatto l’escamotage di andare in seminario per
studiare si fermava al primo ciclo di studi.
Mentre loro erano lì in attesa che qualcuno si facesse vivo, da basso gli
altri, riconquistato il bosco, attendevano l’esito della missione dei due.
Nell’attesa ragionavano sul da farsi, se le cose non fossero andate
come speravano. Sarebbe occorso riconquistare la montagna,
sperando nel progressivo esaurimento del rastrellamento tedesco, e
comunque trovare il percorso meno battuto non era cosa semplice.
Tra tutti Davide aveva stabilito un feeling con uno dei fuggiaschi, sin
da quando si erano immersi nel fiume dove se l’era trovato
casualmente accanto, poi aveva camminato accanto e si erano parlati.
L’altro si chiamava Samuele, anche lui di famiglia ebraica, la comune
origine favoriva la conoscenza e l’intesa. Così si raccontarono, Davide
del suo viaggio da Rodi e Samuele del suo da Pitigliano, il paese della
sua famiglia. Era Pitigliano un borgo della maremma toscana in
provincia di Grosseto, ospitava una comunità ebraica numerosa con
tanto di sinagoga, quasi eccessiva per quel piccolo borgo, e la cosa la
faceva indicare come la piccola Gerusalemme. Dopo le leggi razziali
per evitare pericoli la famiglia si era trasferito a Roma, presso parenti
in una casa del ghetto che appariva luogo sicuro, quasi un’oasi, perché
si pensava che la vicinanza con il Vaticano conferiva una sorta di
protezione da parte del Papa. Non sarebbe andata così, ma intanto lì
con altri giovani, come lui arrivati da fuori, meno con quelli del ghetto,
si erano avvicinati ad elementi gentili dell’antifascismo, Con costoro
dopo l’otto settembre avevano deciso di andare in montagna per
confluire nelle formazioni partigiane. La decisione era stata avversata
dalla famiglia, dai parenti e dai conoscenti del ghetto. Era opinione
comune tra gli ebrei romani che nessuno li avrebbe toccati, per via del
Papa e per essere stati, molti, sinceri sostenitori del fascismo, quando
non ex combattenti, magari decorati ed invalidi della grande guerra.
No nessuno li avrebbe toccati, lo aveva detto anche Israel Zolli rabbino
di Roma in quegli anni che aveva stretto un rapporto con Papa Pio XII,
ottenendo promessa di asilo per gli ebrei romani in caso di necessità,
cosa che avvenne e che forse fu concausa della sua conversione al
cattolicesimo a guerra finita. E poi, proprio in quel torno di tempo
accadeva che ebrei francesi entravano clandestinamente in Italia per
sfuggire ai tedeschi e ai francesi di Vichy. Miglior prova di questa?
Ma tutto questo non fermò il gruppo di giovani tra cui Samuele che
presero la via della montagna per scampare il pericolo e di più per
combattere contro i persecutori del popolo ebraico. Un gruppo di
giovani ebrei che intendevano coinvolgere altri ebrei fuggiaschi per
formare quella che poi effettivamente divenne la brigata ebraica.
Avevano tratto ispirazione da quanto era successo alcuni mesi prima
nel ghetto di Varsavia dove al comando di Mordecai Anielewicz gli
ebrei si erano ribellati ai tedeschi ingaggiando una lotta che li fece
resistere per un mese, nella speranza di un aiuto dalle truppe
sovietiche che si trovavano alle porte di Varsavia, e che invece non
intervennero. Samuele era stato distaccato in Umbria con la IV brigata
Garibaldi. Raccontò a Davide i particolari del rastrellamento tedesco e
della strage che ne era seguita nella piazza di Colle Croce e lo invitò ad
unirsi a loro. Davide non rispose, ma il silenzio era dovuto alla
enormità di quella proposta, avrebbe voluto rispondere subito di no,
che lui non si era mai interessato di politica, che anzi i suoi erano stati
favorevoli al fascismo, che lui era diretto dai parenti ad Ancona, che
quello era il motivo del viaggio. Ma rimase in silenzio, non disse nulla,
qualcosa in quell’invito lo prendeva, la simpatia per l’altro che sentiva
già amico lo spingeva a riflettere. Cominciò a pensare che in fondo la
destinazione Ancona a raggiungere parenti lontani a lui sconosciuti
non era stata mai così attraente, tanto che all’inizio si era opposto
all’invito pressante dei suoi, alla fine si era lasciato convincere, ma in
quell’assenso c’era il fascino di una cosa nuova, di un’avventura che la
sua età legittimava. E poco lo interessava la sicurezza dai pericoli della
guerra che quella lontana città di mare sull’Adriatico, e soprattutto la
protezione da parte dei parenti potevano procurargli. Se era il
desiderio di avventura che lo interessava, cosa meglio della vita
clandestina sui monti? Non aveva motivazioni politiche o desiderio di
combattere o fare l’eroe, al momento, però gli accenni che Samuele
aveva fatto non li avvertiva sbagliati e poi c’era un altro pensiero che
lo spingeva a rimanere in silenzio, a prendere tempo, a riflettere. Se
avesse aderito all’invito non si sarebbe allontanato da quel territorio,
forse avrebbe potuto tornare a Strettura da lei.
Tornò Germano con padre Sigismondi e con loro un giovane
seminarista che rivelò nei tratti del volto i caratteri del compagno di
viaggio conosciuto alla stazione di S. Oreste, anche lui sceso dal treno.
Si era lui, Domenico Ettore. Si salutarono, si raccontarono il viaggio di
entrambi da quando si erano lasciati sino a quel momento. Anche per
lui era stato soprattutto marcia e qualche mezzo di fortuna. Infine lo
zio vescovo lo aveva accolto con stupore e preoccupazione e con lui si
era trovato d’accordo nell’evitare in tutti i modi l’arruolamento
nell’esercito di Salò, la copertura temporanea e precaria di seminarista
lasciava il tempo per meditare sul da farsi. Sperava nell’avanzata degli
alleati che gli avrebbe consentito di tornare a Roma per riprendere gli
studi.
Terminati i convenevoli il presunto seminarista si fece
rispettosamente di lato e il prete che nel frattempo li aveva guardati
con cura e si era fatto la convinzione di persone per bene, in accordo
alla primitiva impressione di Germano, chiese loro cosa volessero dal
vescovo. Loro dissero di coloro che aspettavano da basso e come la
speranza di un aiuto di sua eccellenza poteva essere la salvezza per
quegli scampati al pericolo di perdere la vita o in alternativa di essere
portati in Germania. Don Sigismondi rimase in silenzio come di chi
stesse meditando sulle parole ascoltate. Lo stato d’animo si era mosso
a compassione per quei fuggiaschi che attendevano nel bosco. Come
collaboratore e confidente di sua eccellenza non poteva avere
sentimenti ed idee diversi in quanto ad appoggio al regime, e poi il
clamore del rastrellamento con tutti quei morti fucilati nel paese di
Colle Croce aveva avuto una grande eco nel seminario e in città. Si
temeva per i sopravvissuti, di questi, molti erano di Nocera o dei paesi
limitrofi. Dunque pensò a come poter aiutare coloro, in sicurezza
senza far correre pericoli al seminario e al vescovo. Gli venne in mente
del complesso alberghiero di Bagni, una struttura ricettiva per gente
bisognosa di cure termali localizzata sulla strada che da Nocera
portava ad Annifo in alto, verso la piana di Colfiorito. Nelle settimane
precedenti aveva acquisito benemerenze presso i tedeschi perché
aveva dato ospitalità ad alcuni ufficiali affetti da malattia renale. Il
comandante della piazza era un colonnello della Wehrmacht, un
austriaco cattolico. Era stato lui a presentarsi al vescovo per chiedere
ospitalità per i suoi ufficiali malati nella struttura termale di proprietà
e gestione della Chiesa. Questi aveva acconsentito mettendo a
disposizione la struttura alberghiera. Ora, guariti quelli e tornati al
Corpo dopo mille ringraziamenti, il luogo era pressoché deserto con il
personale ridotto al minimo, l’indispensabile perché la struttura
rimanesse aperta e non si deteriorasse in attesa di tempi migliori. Il
segretario pensò che per alcuni giorni coloro potevano rifugiarsi lì.
Per la precedente disponibilità a prendersi cura dei tedeschi malati,
c’era da sperare che il luogo non sarebbe stato attenzionato in modo
negativo dai militari e comunque si diceva che l’azione repressiva era
in via di conclusione, e il luogo era in montagna. Dunque appariva
come un buon rifugio, e con la dovuta attenzione, al minimo cenno di
pericolo i fuggiaschi avrebbero potuto agevolmente conquistare i
boschi limitrofi. Parlò, e senza scoprire i suoi pensieri disse loro che
avrebbe portato la loro supplica al Vescovo. In cuor suo sapeva che
colui si sarebbe trovato d’accordo e avrebbe dato il suo assenso. Se ne
andò anche Domenico dopo un caloroso saluto e un augurio per il
prosieguo del viaggio. Il vescovo, come monsignor Sigismondi
pensava, dette il suo assenso, incaricando il segretario di organizzare
la cosa con la massima cura in ogni dettaglio, in modo che non
trapelasse nulla all’esterno e sventare così pericoli anche che per la
comunità ecclesiale. Dunque tornò nel cortile e comunicò la decisione
ai due. Raccomandò che quelli da basso, informati del progetto,
rimanessero nascosti. Alle prime luci della sera lui avrebbe mandato
un suo uomo, esperto conoscitore dei sentieri della zona, che li
avrebbe portati sino a Bagni. Lì l’uomo avrebbe dato al personale
ulteriori istruzioni alle quali anche i fuggiaschi si sarebbero dovuti
attenere con scrupolo per la loro salvezza e la incolumità di tutti.
Aggiunse che insieme alla risposta positiva all’aiuto richiesto,
dovevano portare la benedizione del vescovo a coloro e la
raccomandazione di comportarsi da buoni cristiani soprattutto in quel
tempo travagliato. Per quanto riguardava loro due il vescovo aveva
deciso che insieme al loro compagno di viaggio avrebbero potuto
trascorrere la notte nel seminario e poi alle luci dell’alba riprendere il
cammino. La notizia li riempì di gioia per il successo della missione
volta alla salvezza di coloro, e per la inaspettata ospitalità notturna in
un luogo sicuro e al coperto. Germano li accompagnò al portone che
rinchiuse dietro di loro.
Ripercorsero velocemente la strada che li aveva portati al vescovado e
ritrovarono i compagni in attesa inquieta per il risultato della
missione.
Fu comunicata e accolta con misurate ovazioni, in
accordo a quanto raccomandato circa il comportamento da tenere,
defilato e prudente. Nel frattempo Davide aveva continuato a
rimuginare, indeciso sul da farsi. Samuele lo aveva lascato ai suoi
pensieri, non era più intervenuto, nessuna pressione. L’invito era
stato fatto, non era opportuno andare oltre. In fondo si era conosciuti
solo alcune ore prima, al di là di una simpatia immediata e della
comune appartenenza etnica non c’era altro. Dunque lo aveva lasciato
ai suoi pensieri, non si era più curato di lui, quasi si era dimenticato di
quanto si erano detti. Non era così per Davide, sentiva che il colloquio
gli aveva scatenato un subbuglio dentro, che non era facile districare.
Aveva chiari in testa i pericoli e il buio di una scelta che lo avrebbero
portato sui monti a combattere contro i tedeschi e gli italiani di Salò, o
al meglio a fuggire da loro per non farsi prendere. Non sentiva in sé
una motivazione politica come altri del gruppo, avvertiva solo in parte
la solidarietà con i confratelli giudei, dei quali si cominciavano a
conoscere le sofferenze nei paesi d’Europa occupati dai tedeschi.
Sarebbe stato certamente più sicuro arrivare ad Ancona dai parenti
che lo attendevano. Erano costoro inseriti da sempre nella comunità
cittadina, i genitori gli avevano parlato di protezioni delle quali
godevano, per effetto anche della loro solidità finanziaria. D’altra
parte si sapeva che quella variabile, anche dinanzi ad un aumento
della persecuzione, poteva valere un lasciapassare o addirittura la
possibilità di restarsene nel proprio luogo di residenza. Si sapeva di
famiglie ebree che grazie al loro patrimonio non avevano avuto a
temere, salvi dalle persecuzioni inflitte agli altri ebrei. Un caso famoso,
che si sarebbe conosciuto a guerra finita, era stato quello della famiglia
Wittgenstein a Vienna. Gente importante, imprenditori nel settore
siderurgico, con l’ultima generazione composta da un filosofo e
matematico emigrato per tempo in Inghilterra e un pianista privo
dell’arto superiore destro, perso sul fronte orientale della grande
guerra, riparato negli Stati Uniti. Per lui musicisti prestigiosi
composero musica per pianoforte per una sola mano, e poté
continuare la sua carriera di pianista. Sempre lui, che alla morte del
padre era diventato il capo della grande famiglia, pagò una cifra
colossale per ottenere il permesso per due sorelle di continuare a
soggiornare nella grande casa di Vienna, senza dover temere nulla a
causa delle leggi razziali.
Ancona, le antiche case del ghetto, la montagna, le armi, i tedeschi,
salotti eleganti, abiti caldi, freddo, notti all’addiaccio, scontri armati…
Immagini si affollavano nella testa di Davide, diverse, contrastanti,
tenebrose o suadenti. Generavano confusione, incapacità di annodarle
in un filo che portasse ad una conclusione, ad una determinazione, ad
una scelta. Poi tra tutte, come un soccorso, una pausa nell’affanno
della ragione, quella figura di donna, le morbidezze anfrattuose del
suo corpo, aderente per un attimo al suo. Forse l’avrebbe potuta
rivedere, forse il marito non sarebbe tornato. Provò un senso di colpa.
Continuò a camminare silenzioso tra gli alberi del bosco, lontano dagli
altri, anche da Silvio e Zeno che stavano ancora raccomandando il
comportamento da tenere nel prosieguo, come suggerito dal vicario
vescovile. Infine si fermò, una determinazione sul viso aveva preso il
posto dell’incertezza di prima, la si leggeva da una piega delle guance
che sapeva di sollievo, quasi di gioia, come di chi vede la luce alla fine
di un tunnel. Raggiunse Samuele, “vengo con te” gli disse. L’altro non
rispose, ebbe solo un sorriso sul volto che sapeva di approvazione e di
promessa che si sarebbe preso cura di lui, come un fratello maggiore.
Poi Davide si diresse verso i due compagni di viaggio, che avevano
visto il colloquio con preoccupata curiosità. Comunicò loro la
decisione, non senza un velo di titubanza. Si trattava di salutarli per
porre fine al viaggio che avevano intrapreso insieme alcuni giorni
prima. Avvertì che lasciarli gli procurava dentro come un dolore,
segno del legame che si era creato in quel poco tempo. Ripensò a
quella sera, da solo, nella locanda di Sassacci, avvilito, con una punta di
disperazione. Poi erano arrivati e a loro aveva raccontato di sé ed era
stata come una liberazione dopo tutto il silenzio che lo aveva
accompagnato dalla partenza da Rodi. Era stato come trovare sulla
strada una nuova famiglia, si era sentito protetto, gli avrebbe
consentito, nei giorni a seguire, di guardare il mondo intorno, di
provare emozioni e sentimenti nuovi, che altrimenti da solo sarebbero
stati schiacciati dalle necessità del viaggio. Quei cinque giorni insieme
avevano consumato un tempo lungo come una vita, ne erano successe
di cose, pericoli, emozioni, turbamenti. Sentiva che una nuova
consapevolezza di sé si era andata formando nel suo animo, come
l’aver superato una soglia. L’aspettava un nuovo viaggio accanto a
Samuele, pieno di pericoli e di nuove certezze da conquistare, ma
sentiva nel corpo e nella mente l’energia per intraprenderlo.
Silvio ebbe un sorriso paterno, preoccupato ma consapevole che non
si doveva dire niente, né dissuaderlo né incoraggiarlo.
Zeno fu più turbato, più grande di Davide di dieci anni, ormai uomo
con una famiglia che l’attendeva in paese, ma non così tanto
istituzionalizzato da non sentire i richiami della giovinezza.
Aveva portato quelle armi con sé, per difesa personale in caso di
necessità?
Si, ma forse non solo.
C’era l’annuncio di una lotta in divenire per le contrade d’Italia.
L’aveva causata la guerra tra gli alleati da un lato e i tedeschi e la
Repubblica fascista dall’altro. Il popolo subiva come sempre nell’attesa
che quella nuova piaga passasse prima possibile, che finisse presto,
comunque. Questo è il sentimento della gente dinanzi al pericolo. Le
scelte ideali, gli schieramenti, si fanno dopo, a cose fatte e spesso
secondo la convenienza. Ma lui, pur figlio del popolo, era ancora
giovane e la voglia di schierarsi per le idee nelle quali si era sempre
riconosciuto era presente. Forse portava con sé quelle armi, ancorché
contrario alla violenza, perché in quel tempo di violenza occorrevano
per difendere quelle idee. Il contraltare era il paese che l’attendeva
con la vecchia famiglia e soprattutto quella nuova, una moglie e un
figlio, e con loro un futuro da costruire. Già nella sosta a Vescia il
parente Edmondo gli aveva prospettato le possibilità di impresa in
città a Foligno su cui c’erano avvisaglie di prossimi bombardamenti.
A guerra finita, comunque, ci sarebbe stata la necessità di una nuova e
importante attività edilizia, e per loro, professionisti del settore,
sarebbe stata una propizia occasione di lavoro. Il dissidio tra la realtà
della sua condizione e la fantasia di una gioventù non del tutto
trascorsa, conflisse improvvisamente, dopo una presenza discreta, mai
esplosa nelle settimane precedenti. La decisione di Davide era stata il
detonatore. La voglia di condividere la scelta, contro la necessità di
proseguire il viaggio con Silvio, era una lacerazione che pretendeva di
essere immediatamente ricomposta, non c’era più tempo. Nella mente
il turbamento di quel primo mattino a S. Marcello, come una preghiera,
e con esso l’immagine di Tarquinio, il figlio di quattro anni che
l’attendeva.
Sì, doveva tornare in paese, avrebbe fatto la sua parte in altro modo.
Prese dal pastrano le armi e le consegnò a Davide, fu come un
testimone che si passava ad un giovane adepto, come una affiliazione.
Consegnava con le armi anche il patrimonio di valori sociali, politici,
ideologici che erano suoi e della famiglia.
Al giovane, ignaro di politica, avrebbe indicato il campo per cui
combattere………
Zeno e Silvio gli si fecero più da presso e l’abbraccio fu come una
benedizione.
Poi salutarono gli altri con un gesto della mano e volsero i loro passi
sul sentiero che li avrebbe riportati nei pressi del “Campanaccio” come
i nocerini chiamavano la torre civica.
Dalla sommità Pietro di Rasiglia aveva delittuosamente precipitato la
moglie Orsolina, donna gentile legata da amore a Niccolò Trinci.
Gelosia e vendetta che si ammantano di bellezza. Nel volgere di poche
ore Messer Pietro aveva giustiziato la donna e i fratelli del potente
signore di Foligno, Corrado Trinci. Oltre Pietro, mal ne incolse al padre
Pasquale, ignaro dei fatti, le cui membra furono appese alle sporgenze
di palazzo Trinci in prossimità della piazza di Foligno e lasciate lì per
giorni a futura memoria.
Suonarono la campanella del portone e il solerte Germano che sapeva
del loro ritorno, si affrettò ad aprire. Non ci furono altri convenevoli,
era stato stabilito quanto doveva farsi, quindi furono accompagnati in
una stanzetta contigua al dormitorio dei seminaristi, era la prima di un
lungo corridoio in fondo al quale era ubicato un locale adibito a luogo
per i bisogni corporali. Data l’ora, con la sera che era scesa sul paese e
lambiva con la sua ombra l’Acropoli fu detto loro che di lì ad una
mezz’ora dovevano raggiungere nel piano sottostante il refettorio
dove avrebbero mangiato insieme agli altri. Nella stanza due brande,
un tavolo, una sedia. La finestra della stanzetta era sormontata da un
grande crocifisso ligneo che troneggiava sulla parete. Una presenza
assoluta per le sue dimensioni in confronto con quelle della stanza.
Avevano messo il pastrano e lo zaino su un lato di ciascuna branda e
sedevano ognuno sull’altro lato guardando fuori della finestra lo
spettacolo magico della sera. Lo sguardo catturava ad occidente
l’ultimo chiarore del cielo, qualche stria rossastra tardava a
scomparire dietro il profilo delle colline che chiudevano da quel lato la
vallata del Topino. Silvio appariva stanco, se avesse potuto scegliere si
sarebbe steso sulla branda per recuperare energie, ma non poteva,
dovevano scendere per il pasto. Zeno era come preso da pensieri che
non c’entravano con le incombenze della giornata e del viaggio. Quel
crocifisso sulla parete sopra di lui, di nuovo, come poco prima
salutando Davide, gli aveva trasmesso un turbamento come nella
chiesa di S. Marcello a Roma. Complice la luce di quel tramonto
dolcissimo che penetrava nella stanzetta sempre più debolmente e
trasformava il languore iniziale in tenebroso sgomento. La famiglia
che l’attendeva, la guerra intorno, il lavoro da reinventare, gli ideali
politici, queste cose e tutto il resto che riempivano la mente e l’azione
dei giorni della vita, svanivano dinanzi al mistero di quell’uomo
inchiodato sulla croce. Dicevano che era morto a quel modo perché i
carnefici intendevano proporlo come ammonimento al popolo che lo
aveva esaltato negli anni del suo peregrinare per le strade di Palestina.
Dicevano poi che era risorto, che aveva sconfitto la morte per lui e per
tutti gli uomini di prima, di allora, di sempre. Ci sarebbe stato un
tempo, alla fine, che tutti si sarebbe ritrovati con lui nella città di Dio,
uniti dall’amore universale che aveva creato il mondo.
Si scosse da quei pensieri, provò un senso di fastidio, come l’essersi
abbandonato a debolezze della mente che si accompagnano a quelle
del corpo quando si è stanchi e provati. Ma di nuovo intuì che non
sarebbero spariti e si sarebbero ripresentati per richiedere risposte
che non sarebbero potute venire dalla sua mente. Ma quelle domande
inevase tenevano socchiusa una porta da cui improvvisamente, forse
nell’ultimo momento, avrebbe visto irrompere una luce accecante che
era la risposta.
Era ora di andare, si alzarono dalla branda, uscirono dalla stanza
richiudendo la porta dietro di loro, scesero al piano di sotto.
Il refettorio era una grande stanzone rettangolare con due lunghi
tavoloni posti a ridosso delle pareti da cui erano separati da uno
spazio sul quale erano allineate una serie di panche occupate dai
seminaristi. Suppellettili essenziali sui tavoli, un piatto, posate, un
bicchiere, con intervallate caraffe d’acqua. Entrarono nel refettorio da
una porta che si apriva sul lato corto della stanza, l’altro, nella parte
opposta, era occupato da un tavolo rialzato, occupato dal rettore del
seminario, contornato da altri quattro sacerdoti, due per lato. Su quel
lato si aprivano due porte che servivano una per l’accesso e l’uscita,
l’altra per comunicare con la cucina limitrofa. Il rettore fece loro un
cenno con la mano, era l’invito ad attraversare la sala per raggiungere
il tavolo del comando. Con un certo imbarazzo passarono in mezzo alle
due file di ragazzi che li guardarono incuriositi e con accenni di riso
subito annichiliti dalla disciplina del posto. Fu indicato loro un posto
dove sedersi in cima al tavolone di sinistra, in prossimità del tavolo dei
religiosi. Ad un successivo cenno del rettore tutti si alzarono in piedi e
loro con gli altri. Il segno della croce e furono recitate preghiere. Zeno
e Silvio accennarono con le mani e le labbra a seguire gli altri, poi tutti
tornarono a sedersi e dal vano della cucina entrò un sacerdote con un
grembiule sopra l’abito talare che lo trasformava nel cuoco che era la
funzione a cui era stato assegnato. Trasportava un carrellone fumante
di cibo che riempiva di odori l’ambiente. Iniziò dal tavolo dei sacerdoti,
continuò con i nostri, poi scivolò lungo le il tavolone dei seminaristi.
Con un ramaiolo versò nelle scodelle un brodo scuro nel quale
galleggiavano rari tralci di carne. Per completare la manovra occorse
diverso tempo, alla fine quando fu completata, il rettore invitò a
cominciare il pasto e rivolse uno sguardo ai due che sapeva di
accoglienza e piacere per la loro presenza. Il liquido caldo fumante
scendeva lungo l’esofago a riscaldare lo stomaco e tutto il corpo, il
benessere che ne veniva sembrava un ringraziamento a chi aveva
saputo procurare quel sollievo. Il brodo con passate di vegetali e
tracce di carne erano un lusso per quei tempi. Per loro reduci da un
cibo spesso all’asciutto e precario dei giorni precedenti, più di un
lusso. A Zeno venne da pensare che le suggestioni religiose cui aveva
cominciato a non essere più estraneo, una volta calate nella realtà
diventavano anche istituzioni come quel seminario. Significavano un
tetto, del cibo per i custodi della fede, come era stato un tempo per i
leviti del popolo ebraico, e in quel momento per tutti quei ragazzi che
forse a casa non avrebbero avuto la certezza di quel cibo. Ancora di
più e addirittura come missione lo stato laico doveva fare. E bisognava
ammettere che qualcosa si era messo in piedi. Ne erano testimonianza
le colonie estive per i figli del popolo, oltre ad altre cose. Per non
parlare della recente bonifica delle paludi pontine, che aveva sottratto
alla miseria, alla malaria e alla morte i disgraziati contadini di quei
latifondi che nascevano, lavoravano, morivano dopo una breve vita in
quell’inferno.
Il pasto non durò a lungo, si udivano rumori da parte dei seminaristi,
come tentativi abortiti e coartati di lasciar libero corso alle pulsioni
dell’età a causa dello sguardo severo dei sacerdoti, ma non così
terrifico da inibire del tutto i lazzi e i risi dell’innocenza.
In qualche modo segnarono il tempo della preghiera di
ringraziamento al Signore per il cibo ricevuto e della benedizione che
avrebbe disposto le anime al riposo notturno. I nostri fecero un
accenno d’inchino rivolto al tavolo dove sedevano il rettore e i
sacerdoti. E attraversato di nuovo il salone, tornarono al piano
superiore per rientrare nella loro stanza. Silenzio intorno che li
avvolse per tutta la notte, e favorì il sonno sino al riprendere della vita
all’alba con il chiarore del cielo e i rumori che venivano dalle stanze
dei seminaristi. Si svegliarono, allargarono le braccia come un
rimettere in funzione gli ingranaggi ferrosi del corpo, stropicciarono
gli occhi quasi a prepararli alla luce del giorno incombente, poi a turno
raggiunsero il bagno in fondo al corridoio per lavare il viso e altri
bisogni corporali. In quell’attraversare il corridoio crebbero i segni del
risveglio dei seminaristi che come loro si accingevano ad iniziare la
giornata. Costoro rientrati in camera avrebbero rassettato le loro cose,
si sarebbero vestiti per raggiungere la cappella ad intonare le lodi
mattutine al Signore, poi ci sarebbe stata la colazione e dopo sarebbe
iniziata la giornata di studio e preparazione dello spirito all’incontro
con Dio. Anche i nostri rassettarono la stanza, poi presero le loro cose
e chiusa la porta alle spalle scesero le scale per raggiungere il cortile.
La sensazione di benessere che il sonno riparatore e l’accoglienza
ricevuta avevano infuso in loro cominciò a dissolversi al pensiero di
come affrontare gli ultimi venticinque chilometri che li avrebbero
riportati a casa. La gioia per la fine del viaggio, l’abbraccio con i loro
cari che il desiderio rendeva prossimo, si attenuavano sino a
scomparire al pensiero di qualche imprevisto e pericolo. Ora si
trattava di vedere quale opportunità si sarebbe aperta una volta usciti
sulla strada, dovevano cercarla e si auguravano che il caso venisse in
loro soccorso. La marcia lungo la consolare o per i campi in caso di
necessità, come avevano fatto sino ad allora, era scelta probabile e di
necessità. Ma ora, arrivati alla conclusione del viaggio, rifuggivano
dall’idea di incappare lungo il tragitto, ad un passo da casa, in qualcosa
che avrebbe vanificato tutto. Un nuovo incontro con i tedeschi, o i
militari di Salò, che avrebbero chiesto e…….
Arrivarono in cortile e con grande meraviglia trovarono Domenico che
li attendeva. Disse che il vescovo li salutava e che era stato felice di dar
loro ospitalità.
Compresero che nell’accoglienza ricevuta c’era stato lui, il compagno
di viaggio sul treno della linea Roma-Viterbo. La cosa li fece riflettere
sull’importanza anche utilitaristica degli incontri se si ha una
propensione di apertura verso il prossimo. Quel desinare sul tavolo di
pietra alla stazione di S. Oreste, un incontro che si era consumato nel
volgere di un tempo limitato, aveva comunque creato un legame che li
aveva soccorsi nel momento del bisogno.
Oltre l’accoglienza, Domenico aggiunse che aveva un’altra buona
notizia per loro.
Tra non molto sarebbe arrivato il padre di un seminarista di Sigillo a
riprendere il figlio che aveva bisogno di una convalescenza a casa
dopo un brutto episodio febbrile occorso la settimana precedente.
Probabilmente un’influenza particolarmente violenta che negli ultimi
giorni si era attenuata, ma i genitori, d’accordo con il rettore,
preferivano farlo vedere dal dottore del paese, il dott. Gaudenzi che
era pediatra oltra ad essere il medico condotto del paese, anzi l’unico
specialista della zona con pazienti che venivano anche da Fabriano
nelle Marche.
Domenico raccomandò di non muoversi dal cortile e presentarsi a
colui che a momenti doveva arrivare e che probabilmente
conoscevano essendo del loro paese, quindi prese congedo salutandoli
affettuosamente.
C’era una panchina in un angolo del cortile, si sedettero lì in attesa.
L’aria fredda, non ancora percorsa dai raggi del sole che indugiava
dietro il monte Pennino, pungeva sul volto e sulle mani e procurava
una sensazione di malessere a tutto il corpo, come se tardasse ad
adattarsi ai rigori dell’inverno incipiente. Si coprirono con i pastrani,
tirarono fuori dalle sacche del pane e companatico, residui delle
provviste fornite loro dai parenti di Vescia e mangiarono.
Da sempre per la gente del popolo il cibo oltre che sostentamento era
anche medicina in assenza di altro.
Poi si alzarono dalla panchina e camminarono per il cortile. L’aria
cominciò a riscaldarsi e il corpo pure, grazie anche al movimento e al
cibo. Si sentirono meglio e tornarono a sedersi. Non avevano curiosità
di indovinare chi potesse essere il compaesano in arrivo, certamente
per possedere un’automobile, doveva essere uno dei “signori” del
paese. Solo gli Agostinelli, i Fantozzi, i Damiani, i Bartoletti e pochi
altri potevano permettersi un’automobile, dunque se avessero voluto
impegnarsi, tra quelli avrebbero dovuto cercare. Magari in quel
disinteresse c’era anche la contrapposizione sociale, l’appartenenza
ideologica, la non frequentazione, pur in un clima di rapporti corretti e
civili, escluso un episodio di prima della grande guerra quando
Umberto insieme al compagno Tarquinio Parbuoni e forse uno degli
Oleandri avevano assaltato un deposito di grano degli Agostinelli in un
anno di carestia per darlo al popolo. Tutto si risolse bene e non ci
furono strascichi.
Non dovettero attendere a lungo, si sentì il suono della campana
d’ingresso, videro Germano correre ad aprire senza le formalità che
aveva usato con loro, segno che quel qualcuno che era alla porta era
atteso. Preceduto da colpi di tosse catarrosa, tipica dei grandi
fumatori, entrò il “Sor Vittorio Fantozzi”. Era costui un uomo sui
quarant’anni tarchiato, con un viso pieno, leggermente obeso, pochi
capelli pettinati all’indietro, ben vestito, ma dava l’impressione che gli
abiti non venivano dismessi nel suo andare in campagna, così che ne
mostravano l’uso improprio, con sgualciture e usura. I lavori della
azienda agraria erano la principale occupazione delle sue giornate,
accanto alla cura della Lancia Aprilia 1500 con cui si cimentava in gare
regionali e nazionali accanto all’amico Lallo nella veste di meccanico.
Entrato nel cortile con l’immancabile sigaretta stretta tra dita gialle di
nicotina si accorse di loro e fece un cenno come a chiedere cosa ci
facessero lì. Silvio e Zeno si alzarono per salutarlo. Usarono deferenza
dignitosa com’era costume antico e ora rinforzato dalla necessità di
dover chiedere, che se c’è la motivazione giusta è virtù dell’età matura.
Per altro la deferenza quando non il servilismo è atteggiamento
consueto delle classi inferiori nei confronti di quelle che hanno potere
e denaro. È un mezzo di sopravvivenza a volte, altre di riconoscimento
di qualità superiori e/o di fortuna o ancora di grazia divina com’è nel
pensiero della Riforma, infine di ascensione sociale. Scomparsa
l’aristocrazia e ridimensionati l’influenza e il potere del clero, era la
borghesia, la classe dominante, non così compiutamente come nei
paesi anglosassoni, ma in via di grande sviluppo anche da noi.
Dall’altra parte le classi operaia e contadina a Sigillo come altrove
costituivano la maggioranza del popolo: della prima facevano parte i
Paci che insieme agli altri di quella classe vivevano nelle case del
paese, la seconda sopravviveva nei casolari della campagna.
E ad una borghesia imprenditoriale e latifondista appartenevano i
Fantozzi e gli Agostinelli, le due famiglie strettamente imparentate tra
loro, che avevano vasti possedimenti terrieri in quel tratto di
campagna dell’alta Umbria attraversata dalla via Flaminia, che va dalla
zona di Gualdo Tadino sino al valico di Scheggia.
Accanto all’agricoltura, l’allevamento degli animali, lo sfruttamento dei
boschi, le riserve di caccia, le due famiglie erano impegnate in attività
imprenditoriali di grande respiro su scala nazionale. Tra tutte il
traforo della galleria del Sempione, un’opera per quei tempi colossale,
iniziata nel 1898 e portata a termine nel 1905. Vi aveva lavorato a
vario titolo tutto il paese, maestranze composte di minatori,
carpentieri, falegnami, ragazzi come portatori d’acqua per le necessità
dei lavoratori che lavoravano in gallerie con la temperatura che in
certi tratti arrivava a cinquanta gradi. Ne venne una grande guadagno
che portò benessere al popolo e ricchezza alle due famiglie impresarie.
Fu impiegata per incrementare e modernizzare le proprietà terriere,
per acquisire proprietà immobiliari anche al di fuori dell’Umbria,
come nel caso di un palazzo a Roma in via del Corso da parte dei
Fantozzi, e anche per consentire negli anni a venire scelleratezze dei
rampolli con dilapidamento del patrimonio.
I Paci avevano fatto qualche lavoro in paese per loro come muratori,
ma pur nell’ambito di un rispetto reciproco, loro erano classe operaia
e i Fantozzi con i loro pari erano signori borghesi. Diversa sostanza
economica e finanziaria, diversa cultura, diverse storie familiari. E se
non bastasse loro socialisti e quelli liberali o fascisti. A conferma, un
Agostinelli era podestà del paese, Umberto Paci era il riconosciuto
capo del partito Socialista, e a lui sarebbe stata intitolata la sede una
volta scomparso.
“Buongiorno Sor Vittorio, ci hanno detto che sarebbe venuto a prendere
suo figlio Carlo per riportarlo a casa. Allora abbiamo aspettato per
chiederle se ci usava la cortesia di un passaggio. Stiamo tornando da
Roma con mezzi di fortuna e per noi poter tornare con lei sarebbe il
massimo. Lei è persona conosciuta e di rispetto, con quello che sta
succedendo in giro ci eviterebbe i pericoli della strada e di brutti
incontri e corriere e treni sono ancor meno sicuri.
Dissero così, calcando le parole sul prestigio dell’uomo, e sui pericoli
del viaggio. In questo raccomandarsi curarono con l’atteggiamento del
viso di non perdere in dignità e quando terminarono di parlare ebbero
la sensazione di esserci riusciti. Non avevano confidenza con
quell’uomo ma in fondo era un paesano, e non aveva mai dato negli
anni dimostrazioni di faziosità o assunto atteggiamenti o manifestato
comportamenti spocchiosi e tanto meno violenti. E poi si trattava di
tornare a casa dalle persone amate, ci stava anche una domanda
d’aiuto a chiunque potesse darlo.
Il Fantozzi attaccato alla sua perenne sigaretta, ognuna accesa con il
mozzicone di quella in via di estinzione, ascoltava.
“Ma certo” rispose “ci mancherebbe altro che non dò un passaggio a due
compaesani senza mezzi, sulla via di casa! Ci mancherebbe! Dovete
avere pazienza qualche minuto perché devo andare a prendere Carlo,
sapete, quel mio figlio, il maggiore, che si è preso una brutta influenza e
lo voglio far vedere dal dott. Gaudenzi, ché mi fido solo di lui.
Aspettatemi qui”
Aspettarono, dopo dieci minuti, come aveva detto, ricomparve con
accanto il figlio Carlo, un ragazzo di una decina di anni che portava una
sacca che il padre provvide a caricarsi sulle spalle. Probabilmente
c’erano gli indumenti e forse i libri del giovane seminarista. Loro si
fecero avanti per liberarlo del peso ma colui rifiutò. D’altra parte nella
sua attività di lavoro nell’azienda agricola non disdegnava di salire sui
trattori o altre manualità, oltre ad organizzare il lavoro dei contadini,
girando per i vari casolari che formavano la grande tenuta. Per la
campagna non usava la bella Aprilia, riservata ai giri nei giorni di festa
e per le gare, impiegava un furgoncino Fiat più adatto alla funzione. E
usciti dal seminario quello si trovarono davanti parcheggiato in
prossimità del portone del seminario. Grande soddisfazione dei nostri
che una volta seduti dietro sarebbero apparsi operai di quel signore.
Si trattava se ce ne fosse stato bisogno di un salvacondotto, nessuno
avrebbe chiesto niente al sor Vittorio, un signore conosciuto e
allineato con le autorità. Anche i partigiani della zona, che non
avevano dato sino ad allora segno di sé, tanto da farne dubitare la
presenza, non avrebbero avuto niente da dire. Per loro in caso di
necessità, un casolare nascosto si poteva sempre trovare!
Dunque Vittorio e Carlo davanti nell’abitacolo e Silvio e Zeno dietro
nel cassone all’aperto. Carlo era il figlio maggiore avrà avuto sui 10-11
anni, i nostri lo ricordavano in giro per il paese a giocare con i
ragazzini della sua età. Tranquillo, pacioso, forse la sua presenza in
seminario non era solo per studiare, ché la famiglia avrebbe avuto i
mezzi per mandarlo a studiare a Roma dove possedevano la casa di via
del Corso e dove altri giovani dei Fantozzi e degli Agostinelli avevano e
avrebbero studiato. La maggior parte presso un collegio religioso il
San Giuseppe De Merode frequentato dalla Roma bene.
No, forse in lui c’era una vocazione religiosa che ci poteva stare con il
suo carattere mite, inconsueto nei tratti genetici della famiglia.
D’altra parte avere un figlio sacerdote, magari inserito nella carriera
ecclesiastica, ci poteva stare con l’adesione non solo formale agli
insegnamenti della Chiesa ed era ancora un titolo d’onore in una
regione che fino a non molti decenni prima aveva come massima
magistratura non un Savoia, ma il Papa Re. In paese ce n’era un altro,
uno dei dieci figli del notaio Francesco Bartoletti, si chiamava
Domenico. Sacerdote da circa un decennio sembrava avviato alla
carriera, studi in istituti religiosi romani e incarichi presso il
seminario di Nocera e in quello regionale di Assisi lo accreditavano
come candidato quanto meno di una sede vescovile, magari quella di
Nocera dato il suo attaccamento alla famiglia e a Sigillo. Gli intimi
sapevano che lui non ambiva a niente oltre la carica di parroco del suo
paese, ma non lo diceva pubblicamente per rispetto alle ambizioni
della famiglia, in particolare della madre Benedetta Chemi
appartenente alla famiglia più importante del vicino paese di
Costacciaro.
Lasciano Nocera alla volta di Sigillo
Vittorio mise in moto il furgone ma non ingranò subito la marcia, gli
era venuto il pensiero che quei due dietro sul cassone, con l’aria
ancora fredda sarebbero stati male. Chi sa, si sarebbero potuti buscare
un malanno come quello per cui era venuto a riprendersi il figlio.
Tanta delicatezza del sentire poteva apparire sorprendente in un
uomo che non era conosciuto per questi tratti del carattere, né ci stava
con l’estraneità di coloro dal suo giro di contatti e amicizie. Si poteva
pensare che dati i tempi, acquisire benemerenze presso classi sociali
che avevano dalla loro consistenza numerica e aspettative di
rivolgimento sociale, poteva essere un buon investimento. Più
semplicemente sarà stato un atto di carità cristiana: uscivano da un
seminario, il figlio era seminarista, e lui in fondo non era così male.
Comunque sia scese dall’abitacolo di guida, salì sul cassone, e rivolto a
loro che si erano accomodati a ridosso della parete posteriore della
cabina con il bagaglio alle spalle e il pastrano a coprirsi dall’aria
fredda, disse:
Vedete in quell’angolo? C’è il tendone del cassone, aiutatemi a
srotorarlo, ché lo posiamo sopra il traliccio di metallo, lo ancoriamo ai
bordi e così coperti sentirete meno freddo e starete meglio.
Loro, sorpresi e preoccupati al suo apparire, senza dire nulla, si misero
all’opera con animo grato e in poco tempo la manovra fu compiuta.
Non ebbero nemmeno il tempo di ringraziarlo, ché Vittorio scese,
rientrò in cabina, ingranò la marcia e partì. Loro ancora increduli per
l’accaduto, ebbero pensieri e parole di saggezza intorno alla
opportunità di non avere pregiudizi nei confronti degli altri. I fatti
erano la cartina di tornasole che si incaricava di fare giustizia. Così per
Il sor Vittorio che era sempre apparso un burbero incurante degli altri.
Non solo aveva dato loro un passaggio per molti versi salvifico, ma
aveva avuto anche compassione del loro disagio e si era adoperato a
mitigarlo. “Grazie Sor Vittorio” dissero con il cuore anche se lui non
sentiva.
Il furgone dalla rocca prese giù per la via principale dell’abitato, la
percorse sino ad oltrepassare la porta che si apriva in basso sulla cinta
muraria, e che dava accesso ad una piazza, cuore pulsante della città.
Esercizi commerciali, luoghi di ristoro, giardinetti pubblici con il
monumento in ricordo della grande guerra, la banca, l’ambulatorio del
medico condotto, il mercato. Tutto questo e altro sfilarono davanti gli
occhi di Silvio e Zeno che guardavano da un pertugio del tendone
sollevato. Lessero con sgomento il lungo elenco dei caduti della grande
guerra che era stato scolpito sui quattro lati del monumento su cui si
ergeva un combattente fiero e impavido.
Il dolore, la follia, la ferocia, il denaro, l’apocalisse cui si tentava di
attribuire una nobiltà, un senso, con il volto fiero ed austero del
giovane combattente. Un tentativo maldestro di conforto per il popolo
a cui erano stati sottratti i figli, i mariti, i padri, vittime sacrificali al dio
della guerra.
Attraversata la piazza uscirono da un’altra porta, questa più recente
rispetto all’altra di epoca medioevale e raggiunsero la via Flaminia che
correva di lato. Voltarono a destra nella direzione di Fano come
indicava l’insegna. Dopo una curva la strada diventò subito un’aspra
salita a cui i nocerini avevano dato nome di salita del picchio. Metteva
a dura prova i motori dei mezzi che vi si impegnavano con gran
rumore di ingranaggi. Per questo era diventata per i contadini della
zona un mezzo di guadagno, soprattutto nei mesi invernali quando la
neve rendeva impossibile il transito. Allora comparivano i buoi che
invece che all’aratro erano attaccati con delle corde alle vetture che
venivano trasportate in cima. Per la verità oltre l’azione caritatevole
ma retribuita dei contadini, secoli addietro la salita del picchio
ospitava meno caritatevoli personaggi che taglieggiavano i malcapitati
viaggiatori. Il più famoso, assurto alle cronache del tempo e la cui fama
perdura sino ad oggi era stato il brigante Cinicchia.
Raggiunta la sommità della salita la strada cominciò a scendere
altrettanto rapidamente per entrare in una lunga vallata che si
chiudeva dopo circa quaranta chilometri con il valico di Scheggia.
Dalla sommità del Picchio la si poteva vedere tutta.
Ed era un bel vedere!
Imponente, a destra si ergeva la catena degli Appennini che sino ad
allora, venendo da Roma si poteva solo intuire, coperta dai contrafforti
via via degradanti verso il mare Tirreno. Ora appariva invece
maestosa nella sua interezza, distendersi in direzione nord-ovest con
le due punte oltre i millecinquecento metri del monte Cucco e del
Catria, quest’ultimo leggermente defilato e nascosto. Ma il Cucco lo si
vedeva tutto e lo videro i nostri ed ebbero un moto di commozione,
Sigillo era ai suoi piedi, stavano arrivando a casa!
Boschi lungo i fianchi delle montagne, da sempre riserva di legna per i
bisogni della gente, ora di più con la guerra che costringeva a ricorrere
alle risorse locali: carbonaie, aree disboscate per farci terreno agricolo
o per il pascolo degli animali.
A sinistra una linea ininterrotta di colline delimitava la vallata, oltre
c’era il territorio dell’eugubino. Tra gli Appennini a destra e la catena
collinare a sinistra si stendeva una pianura coltivata, irrigata da piccoli
corsi d’acqua che scendevano dai rilievi, di questi il maggiore era il
fiume Chiascio e subito dopo il Caldognola che si univa con il Topino
all’altezza di Nocera, più avanti nei pressi di Scheggia il fiume Sentino,
che attraversati gli Appennini nella gola del Corno confluiva nel fiume
Esino e con questo raggiungeva l’Adriatico. Casolari sparsi lungo la
pianura per il lavoro nei campi, abitati da famiglie di contadini legati
da sempre nei secoli alla terra da un contratto di mezzadria con il
proprietario terriero. Questi forniva le abitazioni, gli attrezzi, e quanto
altro necessario per il lavoro, e i contadini la mano d’opera di tutta la
famiglia che viveva nei casolari. Il ricavato veniva diviso equamente
tra le due parti. Per i grandi proprietari il rapporto era gestito da un
intermediario, il fattore. Gli appezzamenti di terra affidati al mezzadro
si chiamavano poderi. Ce n’erano di grandi e ricchi e piccoli e miseri in
quanto a resa delle coltivazioni. Da questo dipendeva la rendita del
lavoro e l’agiatezza o la povertà dei contadini che vi lavoravano.
Quando lo stato di miseria diventava intollerabile gli uomini per
garantire il pane alla famiglia andavano a lavorare all’estero. Accadde
particolarmente negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del
Novecento e caratterizzò l’epopea dell’emigrazione di massa di italiani
verso le Americhe e in parte nei paesi d’Europa. Li spingeva la certezza
di un lavoro con la possibilità di mandare denaro a casa e la speranza
di un ritorno con un gruzzolo consistente, oppure un progetto di vita
nuova con le famiglie che li avrebbero raggiunti nel mondo nuovo,
appena sistemati là.
Successivamente il regime aveva grandemente frenato il fenomeno,
con l’acquisizione delle colonie che aveva dirottato in Africa le masse
contadine del meridione e del veneto, in parte impiegate anche nella
bonifica di vasti territori paludosi metropolitani nella pianura pontina,
nel territorio di Alghero, nel metapontino. Lo sviluppo industriale non
ancora al passo con gli altri paesi, ma comunque implementato
rispetto agli anni dei governi liberali aveva sottratto altra forza lavoro
alle campagne. Anche la fascistizzazione della società e il regime
autarchico avevano dato nuove opportunità di lavoro, nel quadro di un
massiccio intervento dello stato nell’economia. Tutto questo aveva
frenato la piaga dell’emigrazione, ma in quel territorio gli effetti erano
ancora vivi. Si può dire che non c’era famiglia di quella comunità che
non avesse congiunti in America. Di questi, alcuni, fatto un piccolo
gruzzolo, erano tornati a casa, molti erano diventati americani e
avevano richiamato la famiglia tagliando i ponti con il luogo d’origine.
Rimaneva in loro la nostalgia e per alcuni prima di morire un viaggio
per rivedere i luoghi e forse le persone di prima, ma spesso le persone
non c’erano più e i luoghi cambiati. Così si recideva definitivamente
l’ultimo legame. Tra coloro che erano tornati, di pochi si diceva che
avevano fatto fortuna, la conferma era l’acquisto di uno o più poderi,
secondo le possibilità, magari quelli dove loro stessi e i padri avevano
lavorato come contadini. In America andavano a fare i minatori, poi i
più intraprendenti lasciavano le mine, come chiamavano quel posto di
lavoro, per gettarsi con la determinazione dei poveri in qualcuna delle
infinite opportunità di impresa che la società americana proponeva.
Così lentamente, da paria, com’erano considerati e trattati, al pari
degli ex schiavi neri, o solo un po’ meglio per il colore della pelle, si
erano affrancati dalla condizione iniziale, si erano fatti valere e
avevano acquisito una migliore condizione sociale. Il fascismo con la
benevolenza con la quale il mondo anglo-sassone lo aveva trattato
all’inizio aveva aiutato il processo di emancipazione ed aveva aggiunto
alla nostalgia della patria un’esaltazione dell’orgoglio nazionale. La
testimonianza eclatante di ciò la si ebbe con il trionfo riservato al
maresciallo Balbo con la sfilata sulla quinta strada tra un mare di
gente, di suoni, di inni, di iandoli colorati, di bandiere italiane e di
gente nostra per strada e sulle finestre osannante. Il discorso che Italo
Balbo rivolse agli italiani d’America, toccò le loro fibre più profonde,
sembrò loro che lavasse via definitivamente il disprezzo, gli sfottò
subiti per il modo di vivere, gli spaghetti, i vestiti, le processioni, le
guapperie, e tutto il resto. Ma durò un tempo breve, l’alleanza di
Mussolini con Hitler, le leggi razziali, la guerra dichiarata dall’Italia
fece di nuovo guardare con sospetto la comunità italiana. Ci sarebbe
voluto di nuovo del tempo per riprendere il cammino di integrazione.
La Flaminia correva lungo la pianura, scavandosi come una traccia ai
piedi degli Appennini, solo in qualche punto discostandosi verso la
campagna. Attraversava tutti i centri abitati, paesi e cittadine sorti sul
suo percorso. Dall’alto del valico del Picchio, come grani di un rosario,
si potevano intravedere, alcuni nitidamente, altri più confusamente:
Colle di Nocera, Gaifana, Rigali, Gualdo Tadino, Fossato di Vico,
Purello, Sigillo, Scirca, Costacciaro, Villa Col dei Canali, e Scheggia da
ultimo.
Arrivati in fondo alla discesa, la strada prese un andamento
pianeggiante, interrotto da salite e discese, che comunque,
mantenevano la quota base di cinquecento metri che era l’altitudine di
tutto l’altopiano, per crescere lentamente verso la fine sino a
raggiungere i circa seicento metri del valico di Scheggia.
Oltre, la Flaminia si sarebbe impegnata in una tormentata e pericolosa
discesa, che in pochi chilometri realizzava un dislivello notevole sino a
raggiungere l’assetto dolcemente collinare e poi pianeggiante delle
province anconetana e pesarese delle Marche, procedenti in lievissima
discesa sino a raggiungere, dopo circa settanta chilometri, lo zero
altimetrico del mare Adriatico di Fano, la Fanum Fortunae dei romani.
Il furgone procedeva veloce sui saliscendi della strada, con rumorosi
cambi di marcia che segnavano le frequenti discese e salite in
conformità alla natura e asperità del terreno. Asfalto sulla
massicciata alternato a tratti di strada bianca, polverosa. Non si
vedevano resti della romanità intorno, ma sarebbe bastato fermarsi ed
esplorare con cura per trovare ponticelli e “chiavicotti” della primitiva
costruzione su cui ancora passava la strada. Invece erano scomparse le
pietre basaltiche, segno distintivo delle vie consolari, che ricoprivano
la massicciata di terra, ghiaia, e mattoni frantumati, lì da duemila anni.
Veloce andava il furgone, come sapesse che quel giorno aveva il
compito di riportare a casa quei due che misuravano con ansia il
tempo che li separava dai cari che li attendevano. Era come se quello
stato d’animo si scaricasse sui pistoni nei cilindri d’acciaio che
aumentavano l’andirivieni e con esso la velocità delle ruote.
Un mistico direbbe che questa cosa può accadere quando il
sentimento è forte e la posta in gioco importante. Comprenderla
appartiene al mondo imperscrutabile della fede, di quella che è in
grado di muovere le montagne, come sta scritto nel Vangelo (Matteo
17:20) e come diffondeva nella predicazione ai gentili San Paolo.
Accade perché le opere dell’uomo vivono in empatia e simbiosi con
l’umano, e come Dio ha messo un’anima nell’uomo quando lo ha
creato, così l’uomo fa con le sue creature ed è così che anche lui
partecipa alla creazione divina che si rinnova continuamente senza
fine. Forse per questo le opere d’arte sublimi ci parlano di assoluto, di
bellezza, di eternità. È l’anima dentro di esse che parla, che ha a che
fare in una unione misteriosa con quella dell’uomo che le ha create e
più in alto con quella di Dio. Un legame, una catena misteriosa e
inconoscibile alla ragione che muove l’Universo “l’amor che muove il
sole e l’altre stelle” (Paradiso XXXIII,145)
Così e comunque il furgoncino FIAT 626 prendeva con grinta le curve
e tirava fuori i cavalli residui dell’inesausto motore. Non si
risparmiava dunque e i nostri sbalzavano sul cassone, ringraziando
con occhi brillanti di gioiosa attesa. Trascorrevano i casolari della
campagna intorno, i paesi, le case cantoniere, le fontane ai lati della
strada, tutti sembravano salutare con sguardo benevolo i due
viandanti abbarbicati sul cassone. Loro avevano scostato il tendone,
quel tanto che permettesse di guardare fuori e rendersi conto di
quando sarebbero arrivati in prossimità di Sigillo, il sole faceva
capolino tra coltri di nubi che lasciavano cadere a tratti una leggera
pioggiarellina, non vento che avrebbe aggravato i rigori dell’incipiente
inverno. Passarono sotto Colle posto in alto sulla montagna,
sorpassarono il bivio con la strada Clementina, il collegamento voluto
da Papa Clemente con il mare per l’approvigionamento del sale.
Entrarono dentro Gaifana, copiosa di acque calcaree che scendevano
dall’Appennino, ricche di trote e altri pesci di fiume che la gente del
posto allevava in vasconi. Sorpassarono Rigali, proseguirono alla volta
di Gualdo Tadino.
Carri lungo la strada trainati da buoi, altri da asini e scheletriti cavalli,
trasportavano cose della campagna e legna raccolta su in montagna
per il fuoco dell’inverno.
Incrociarono alcuni camion militari, poche vetture civili, l’autobus
della linea Roma-Rimini diretto a Roma. La vita in qualche modo
continuava, anche con la guerra alle porte che minacciava il suo
annientamento. Però anche nella catastrofe più grande, un po’ di vita
permane e alla fine della buriana riesplode, perché l’accompagna la
speranza che non può mai morire. Ma accanto alla vita che riemerge
sempre, il male non scompare mai e pretende sacrifici umani gettati
nella fornace della storia dietro le insegne degli ismi di turno, inventati
dalla cultura dominante, dal suo desiderio di potenza. Ma qualcuno
rimane a custodire il senso della vita, l’inevitabilità del volgere delle
stagioni, di una natura che è più forte di tutto, qualcuno che
tramanderà a quelli che verranno dopo e così da sempre.
Arrivarono a Gualdo, all’ingresso della città c’era una pattuglia di
carabinieri che fece segno di fermarsi, il furgone rallentò ma coloro
riconobbero Vittorio Fantozzi, salutarono e dissero di proseguire.
Se c’era bisogno di una conferma sulla fortuna di quel trasporto sul
furgoncino, eccola fornita.
Gualdo era un grosso paese con aspirazioni di città, anzi l’unica
cittadina in quel tratto di mondo, a cui faceva inevitabile riferimento
per i servizi vari tutta la comunità della vallata. C’era qualche scuola di
livello superiore, l’istituto magistrale e il ginnasio, oltre le elementari
presenti in tutti i paesi della zona. E poi l’ufficio delle Imposte e del
Registro, un ufficio del catasto, studi notarili, alcuni grandi negozi di
stoffe e di liquori, il palazzo sede della Gil, la gioventù italiana del
littorio, insieme a numerose fabbriche di ceramica e di piastrelle, e
c’era un moderno ospedale inaugurato nei primi anni del secolo.
Il nucleo centrale dell’abitato giaceva adagiato sul primo rilievo della
montagna, al limite della campagna sottostante dove sorgevano le
fabbriche. Case di fattezza medioevale, dominate dall’alto dalla
fortezza di Federico II, di lato fuori delle mura l’Ospedale con l’aspetto
di una grande villa signorile. Il centro antico, il castello di Federico,
l’ospedale, le fabbriche, le istituzioni civili, facevano di Gualdo una
cittadina moderna che conservava i segni di un passato importante.
L’Ospedale in particolare serviva le persone del posto e quelle dei
paesi di tutta la vallata, ed era merito imperituro della famiglia Calai
che ne aveva fatto dono alla collettività. Una famiglia importante i
Calai che aveva dato un prelato alla curia romana, monsignor Calai,
l’artefice della costruzione dell’Ospedale.
Ci lavorava in quegli anni, e ci avrebbe lavorato per tutto il resto della
vita, un chirurgo brillante nato a Sigillo, compagno di scuola alle
elementari di Zeno: si chiamava Roul Braccini. Zeno non ricordava se
anche lui era andato in seminario per studiare o aveva fatto il liceo a
Gubbio che per quei tempi era lusso di famiglie agiate che i Braccini
non erano. In paese si diceva che era stato l’indefesso lavoro con l’ago
e il filo della Bice, la mamma sarta, che alla fine ci aveva perso la vista,
a permettergli gli studi liceali e poi la cosa incredibile dell’iscrizione
alla scuola Normale di Pisa, dove andò a studiare Medicina. Era bravo,
si era classificato primo all’esame di ammissione. La cosa gli dette
l’accesso ad una borsa di studio con alloggio nel collegio, ma la retta
prevedeva comunque un contributo da parte della famiglia. In paese si
diceva che non bastando più il lavoro della Bice, era intervenuta una
ragazza degli Agostinelli, innamorata pazza del bel Roul. Il
fidanzamento aiutò l’andare avanti negli studi. Sembrava destinato ad
una carriera prestigiosa Roul, ma complice il suo pessimo carattere se
n’era tornato a casa, nonostante le offerte di rimanere a Pisa. Si mise a
fare il chirurgo a Gualdo e si sposò. Però di fatto viveva in ospedale,
non erano quelli anni di orari, ferie o regolamenti sindacali. Si doveva
stare sul pezzo e quando ci si allontanava, lasciare detto dove, per
essere raggiunti. La fidanzata innamorata, diventò moglie
insoddisfatta e se ne andò. Lui avrebbe continuato per tutta la vita a
fare del bene alla gente, con un occhio di riguardo in più per i
compaesani di Sigillo, e circondato dal rispetto, dalla considerazione e
dall’affetto della gente, nonostante il caratteraccio. La sua casa,
l’ospedale con le monache ad aiutarlo in sala operatoria e in corsia e
ad accudirlo nelle sue necessità di uomo solo. Dopo la pensione il
ritorno a Sigillo. Giorno dopo giorno, considerazione, rispetto e affetto
scemarono. Da solo a gestire i pochi anni della vecchiaia. Al caffè gli
altri non lo fecero più giocare perché si addormentava sulle carte.
Allora si metteva a guardare quelli che giocavano, seduto su di una
sedia, di lato. Quando si addormentava qualcuno gli faceva scherzi
irriguardosi. Infine tornò a morire in ospedale.
Come chirurgo avrebbe trovato un figlio di Zeno che lo trattò come il
padre che non aveva più. Ma tutto questo doveva ancora accadere, per
intanto il chirurgo Roul passava le mattinate ad operare stomaci,
fegati, ernie e tutto quanto arrivava, che aveva bisogno delle sue mani.
Vedendo l’Ospedale sfilare di lato al furgoncino Zeno ebbe un pensiero
per lui, e lo ricordò accanto nel banco della scuola dell’ex convento dei
frati agostiniani che lo stato aveva riconvertito in scuola elementare.
L’antico legame si rendeva manifesto nelle occasioni di visita in paese
per salutare le mamma e la sorella. In genere dava poca confidenza
alla gente incontrata per strada o in piazza, ma non con Zeno. Se questi
era tra gli altri, gli si avvicinava, lo traeva discosto per chiedergli di lui,
della famiglia, del lavoro.
Abbandonato Gualdo, proseguirono con la mole del monte Cucco
sempre più incombente sopra di loro. Se ne vedeva la cima adorna di
una croce di ferro che gli uomini di Sigillo avevano innalzato alcuni
anni prima come segno di devozione. C’erano andai tutti anche quelli
che avevano poco a che fare con la religione, guidati da Tobia che sin
da bambino girava per il monte al seguito della madre a raccogliere
legna, da cui il sostegno economico della famiglia.
Sulla destra sfilarono la piccola frazione di Palazzo Mancinelli e sopra
si cominciava ad intravedere la stazione ferroviaria di Fossato di Vico,
posta in alto rispetto alla strada. Poi la linea ferrata si sarebbe
definitivamente allontanata dalla consolare, deviando a destra per
raggiungere in quota la galleria che le avrebbe fato attraversare gli
Appennini e raggiungere la piana di Fabriano. Mentre la strada
continuava piegando a sinistra per seguire l’andamento verso
occidente della catena degli Appennini.
Arrivarono in località Osteria del Gatto all’incrocio tra la Flaminia e la
strada che da un lato collegava la consolare con Gubbio, dall’altro con
il paese di Fossato, oltre il quale proseguiva sino al valico di Fabriano e
da lì nella città marchigiana della carta.
Gubbio era altra cosa da quel mondo che stavano attraversando, posta
al di là delle colline che la nascondevano alla vista, con un dialetto già
diverso, quasi un’altra etnia. I romani erano arrivati sin lì, vi avevano
costruito un teatro per lo svago dei cittadini di Iguvium, come
chiamarono la città umbra. Caduto l’impero diventò un comune
medioevale, sempre minacciato di vassallaggio sotto la potente
Perugia o sotto i duchi urbinati di Montefeltro lare con Gubbio, dall’altro con
il paese di Fossato, oltre il quale proseguiva sino al valico di Fabriano e
da lì nella città marchigiana della carta.
Gubbio era altra cosa da quel mondo che stavano attraversando, posta
al di là delle colline che la nascondevano alla vista, con un dialetto già
diverso, quasi un’altra etnia. I romani erano arrivati sin lì, vi avevano
costruito un teatro per lo svago dei cittadini di Iguvium, come
chiamarono la città umbra. Caduto l’impero diventò un comune
medioevale, sempre minacciato di vassallaggio sotto la potente
Perugia o sotto i duchi urbinati di Montefeltro lare con Gubbio, dall’altro con
il paese di Fossato, oltre il quale proseguiva sino al valico di Fabriano e
da lì nella città marchigiana della carta.
Gubbio era altra cosa da quel mondo che stavano attraversando, posta
al di là delle colline che la nascondevano alla vista, con un dialetto già
diverso, quasi un’altra etnia. I romani erano arrivati sin lì, vi avevano
costruito un teatro per lo svago dei cittadini di Iguvium, come
chiamarono la città umbra. Caduto l’impero diventò un comune
medioevale, sempre minacciato di vassallaggio sotto la potente
Perugia o sotto i duchi urbinati di Montefeltro ch,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,……………………..