La medaglia dei cinquanta anni di laurea

 

 

 

Era arrivato un invito per domenica 18 dicembre nell’aula magna dell’Università.      Il direttivo dell’Ordine, oltre a varie ed eventuali, avrebbe celebrato i cinquant’anni di laurea per gli iscritti che avevano raggiunto quella meta.  Tra quelli era anche Alceste.  Era andato, pur essendo contrario per timidezza e scontrosità a queste manifestazioni celebrative, in particolare quelle che attestano il passaggio degli anni o che sanno addirittura di bilancio di una vita.   Ma alla fine era andato.  Un’impresa trovare l’edificio e in esso l’aula magna Paolo Larizza.    Era stato un vagare tra enormi palazzoni, quasi grattaceli di una città di recente costruzione: la città della salute.     Hanno chiuso la maggior parte degli ospedali della Regione per costruire il molosso, bisognava concentrare lì tutte le risorse finanziarie, e il personale, e le tecnologie.    Avevano demolito la storica sede di via del Giochetto, dove Alceste aveva studiato e si era formato sino a ieri l’altro.   Dunque nella nuova sede c’era piazza Lucio Severi, edificio Ugo Mercati, aula Paolo Larizza, blocco operatorio Vittorio Trancanelli, e chi sa quanti altri nomi come questi, tutti a lui familiari, colleghi o professori del corso universitario.    Camminando realizzò i cinquant’anni  passati dalla fine degli studi.    Una vita intera, da ragazzo a vecchio, anche se non troppo nell’aspetto, sapientemente nascoste le magagne.    Era andato nell’aula con passo svelto e deciso, nessuna perplessità: si era meravigliato.  Si sentiva bene, colpevolmente ancora di più, quando vide gli altri, invecchiati, imbolsiti, tragicamente eleganti le donne, claudicanti molti.   Si sentiva bene, e volle illudersi che dovevo apparire meglio di loro nell’aspetto.    Volle vedere conferme da qualche sguardo e frase smozzicata che aveva scambiato con gli altri.   Le donne irraggiungibili di allora, lo avevano salutato con simpatia.   Carico di auto-considerazione aveva improvvisato battute istrioniche, subito castigate dalla saggezza degli anni.  C’era anche Rosalba in un elegante abito nero dall’altra parte dell’aula. Finita la cerimonia se ne andò.    Aveva raggiunto con difficoltà la macchina, camminando tra gli enormi palazzoni, senza porte, ostili da far paura.      Poi, al bivio tra l’imbocco della superstrada che lo avrebbe riportato a casa e quella che portava al centro, scelse quest’ultima.   Non potevo fare diversamente, sorta di riparazione di un debito contratto cinquant’anni prima.    Era fine Luglio, gli era piombata addosso la felicità di un amore imprevisto, quasi inopportuno, nelle settimane che precedevano la discussione della tesi di laurea e delle tesine annesse.  Poi lei era partita alcuni giorni prima dell’esame.    Si erano salutati: commozione, promesse che la vita avrebbe disperso, nonostante l’amore assoluto di quelle settimane.    Ma il pensiero di quell’amore non era mai scomparso, e quando veniva luglio, ci pensava di più e se poteva si recava a Perugia a ripercorrere le strade che in quelle sere d’estate avevano sorriso alla loro felicità.  Ora quella giornata non poteva finire che su quelle strade.

Per incanto quel giorno la sera scese prima: era già ora di andare alla mensa, lì l’avrei incontrata. L’aria fredda di dicembre era diventata mite, quasi estiva. La vide, se ne andarono dove eravamo mancati per tutti quei 50 anni: via dell’acquedotto, Corso Vannucci, la panchina di piazza Italia, la radura erbosa sopra la valigeria, il giardinetto oltre Porta Pesa, il cinema Modernissimo, il locale easy meeting dove si erano conosciuti, l’altro verso Fontivegge, …                    Vide parcheggiata in un vicolo la sua 500 blu con le maniglie dietro e l’antennone a frusta imbrigliato dal gancio. Forse sarebbe stato il momento per quella fuga impossibile di allora.

 

D’improvviso si ritrovò davanti alla casa dello studente dov’era la sua camera.            Ma l’ingresso era sbarrato, l’edificio inagibile per il terremoto del 97.   Si voltò, lei non c’era più.   Riprese l’autostrada e guidò verso casa.   Aveva messo la medaglia in bella vista sul cruscotto.

 

Coloro che lo incrociarono lungo tutto il percorso che lo riportò a casa, videro una macchina che procedeva lentamente e quell’uomo alla guida che piangeva. Ma se avessero potuto vedere bene, si sarebbero accorti che piangeva e sorrideva.                                                                                          Era un pianto di felicità.