L’evoluzione della chirurgia

All’inizio erano mani e sensi che secondo il detto di Anassagora davano dignità all’uomo come e più della mente.
Il malato si osservava, si odorava, si palpava per carpirne lo stato di salute o la malattia da cui era affetto.
Si cercava di individuarne la sede, poi si curava con quello che la natura forniva.
Quindi furono anche strumenti che affinavano il lavoro dei sensi e si prepararono medicine accanto alle erbe: farmaci naturali e di sintesi, che entravano nell’organismo e combattevano il male.
Poi gli strumenti di diagnosi divennero mezzi di terapia e nacque la Chirurgia.
Fu chiamata medicina esterna a differenziarla dalla medicina interna più antica e più nobile.
La praticavano sacerdoti, studiosi versati in altre discipline, barbieri, che diventavano chirurgi all’occorrenza.
Ma già nella Roma antica c’erano stati chirurgi che seguivano le legioni e si esercitavano nella chirurgia di guerra, e prima di loro i greci, gli egizi, e i sumeri.
Sorsero poi in Italia le prime scuole chirurgiche: alcune prestigiose come a Salerno altre meno come a Preci in Valnerina.
Ma la chirurgia moderna nasce con l’anestesia cioè nella seconda metà dell’Ottocento.
E da medicina esterna diventerà chirurgia degli organi interni.
La perizia del chirurgo era la sola variabile che determinava il risultato dell’intervento, con una morbilità e mortalità altissima per l’ignoranza dell’asepsi.
Per questo molti malati morivano d’infezioni, sino a quando l’ungherese Semmelweis codificò le regole dell’asepsi negli interventi chirurgici: poi l’anestesia fece il resto.
Per circa cento anni la chirurgia progredì nella capacità di aggredire organi sempre più profondi con un affinamento delle tecniche, con strumenti sempre più perfezionati.
Non c’è stato organo o apparato sul quale i chirurgi non abbiano messo mano con risultati inimmaginabili sino allora. Sembrava che si fosse raggiunto il massimo possibile, che l’evoluzione avrebbe potuto aggiungere cose, ma in un percorso ormai definito.
Poi circa venti anni fa si è verificata una rivoluzione dettata dalla grande industria, principalmente americana, nell’epoca della rivoluzione informatica e digitale.
Fibre ottiche, computer elaboratore d’immagini, bisturi a corrente elettrica, a ultrasuoni, a radiofrequenza, e molto altro.
Il ruolo del chirurgo ha cominciato a perdere se pur in misura inapparente la centralità del suo ruolo, lungo un percorso che sa quasi di marginalizzazione.
In qualche modo i presidi tecnici hanno affiancato la perizia del medico, sono diventati decisivi per la riuscita dell’intervento.
Di pari passo all’evoluzione tecnica si sono sviluppate nuove aspettative dei pazienti che, condizionati da un’informazione scorretta, ritengono la riuscita dell’intervento un evento scontato, non più una variabile dipendente da una molteplicità di fattori, di cui alcuni imprevedibili.
Di più, pregiudiziali estetiche, ospedalizzazioni brevi, ripresa rapida dalla malattia, valutazioni economiche, hanno introdotto istanze estranee alla finalità principale dell’atto chirurgico che è la guarigione dalla malattia.
Talvolta, per soddisfare le nuove esigenze e nonostante la sofisticazione tecnica, si sacrifica la sicurezza dell’intervento, e si rimanda al contenzioso legale-assicurativo la risoluzione degli insuccessi.
L’informazione ha cavalcato la rivoluzione tecnologica, spinta dagli interessi economico-finanziari di aziende colosso americane, e dunque laparoscopia e poi robotica e le incisioni chirurgiche sempre più piccole, sino all’utilizzazione degli orifizi anatomici per eseguire interventi chirurgici.
Tutto bene ma attenzione ai rischi del nuovo, quando il destinatario è un uomo malato.
Il mutamento antropologico dell’uomo si accorda con lo sviluppo delle macchine che diventano dominanti, così anche in chirurgia scompare la figura del chirurgo un po’ scienziato e un po’ artigiano, e subentra il tecnico che usa ed è usato dalle macchine.
E’ così senza nostalgia del passato con l’oggi così diverso con le sue luci e le sue ombre.