La casa dei Bartoli.

 

      

 

Campagna a ridosso dei binari, che, lasciata la stazione, si dividevano e ancora oggi, nelle due direzioni di Perugia-Firenze l’uno ed Ancona l’altro.          Tirarono un muro tutto intorno a quel tratto di campagna a delimitarne una parte ampia abbastanza per costruirci dentro una fabbrica.                Doveva essere e lo divenne, sorella minore della più grande di Varese. Quella della fabbrica di aerei militari Macchi.     Arrivarono maestranze dalla Lombardia infoltite con quelle locali.    Durò poco, alcuni anni.   Le bombe degli alleati ne fecero scempio insieme e più delle case e monumenti e soprattutto gente della città.     Le mura rimasero in piedi a delimitare un cimitero di carlinghe, edifici, motori, tutti in vario modo squarciati dai proiettili.   Lungo le mura rimasero due presenze vitali.            L’una nei pressi dell’entrata dello stabilimento dove era rimasta in piedi una palazzina.      Qui la proprietà, tornata a Varese, aveva messo una guardiana: la signora Mandolini.    Con due grossi cani lupo vigilava a che estranei non varcassero le mura, per saccheggiare quanto si era salvato dalle incursioni aeree, e nel contempo a protezione degli stessi dalle bombe inesplose di cui il terreno poteva essere custode.       L’altra presenza vitale era a qualche centinaio di metri dalla prima.  Era la casa del dottore Bartoli, il farmacista della città.     C’erano altri professionisti di quel settore a Foligno, ma la farmacia di Bartoli era la più frequentata anche perché si trovava nella piazza principale al piano terra del Municipio.    Dunque centrale e quello era infatti il suo nome: Farmacia Centrale Bartoli.                    Anche per questo, oltre che per la valentia del professionista era considerata la farmacia per antonomasia, la più fornita di tutto. All’ingresso due grandi e artistici oggetti in ferro, candelabri, che aggettavano sulla piazza e di sera, accesi, illuminavano non solo l’ingresso della farmacia, ma anche un tratto della piazza davanti.   Grande famiglia quella dei Bartoli, gente bella e benestante, da figurare come modello da raggiungere se la fortuna della vita lo avesse consentito. Ancora più fascinosi i Bartoli perché la fortuna della famiglia si consumava negli anni dell’immediato dopoguerra, quando miseria e disagio sociale erano condizioni da cui si cercava faticosamente di uscire.   E i Bartoli erano un modello da raggiungere più che da invidiare. Bell’uomo il dott. Bartoli di origine marchigiana di Castel Raimondo e bella signora la consorte e così i numerosi figli.  Giravano con una automobile singolare, unica nel panorama cittadino, una macchina francese di color pastello.     Panhard era il nome, un marchio sconosciuto ai più.   La casa appariva una fetazione di quel tratto di mura su cui era stata costruita.      Infatti la facciata era costituita dal muro di cinta della fabbrica perforato sul piano stradale dalla porta d’ingresso e sopra da sei finestre disposte in fila orizzontale.     Al di sopra di questo piano si innalzava un muro nuovo, in continuità con il sottostante che terminava nel cornicione del tetto della casa, che non si vedeva molto, sviluppandosi all’interno al di fuori della vista.   Su questa parte di muro nuovo, in corrispondenza con le sottostanti si sviluppavano sei piccole finestrelle che davano all’edificio il carattere di un fortilizio, di un bunker.    Che la contiguità con la fabbrica retrostante di aerei militari accentuava. Si perché la casa si sviluppava oltre il muro, nello spazio occupato dalla fabbrica, a cui aveva sottratto un rettangolo di superficie, su cui nessuno era in grado di dire le dimensioni.    Non c’era possibilità di verifica perché a casa dei Bartoli non si entrava. Non era aperta a molti, solo a pochi e selezionati amici.     La presenza della casa dietro il muro era un atto di fede.    Dalla strada non si vedeva nulla, si poteva solo intuire grazie ai pini e cipressi che si ergevano oltre il muro a raccontare un giardino o parco oltre la casa.  Si sapeva anche di un campo di tennis in terra rossa.    Dove il muro della fabbrica oltre la casa, girava di 90 gradi rispetto al tratto dove si apriva l’ingresso, esisteva un altro ingresso, che dava sul parco.   Questo era sbarrato da un cancello in ferro sempre chiuso, privo di qualsiasi fessura, cosi che anche a voler spiare da lì non si vedeva niente. Per gli abitanti del luogo, quella casa misteriosa esercitava un fascino indescrivibile.    C’era il non conoscere com’era fatta, le ricchezze di cose e arredi che si immaginava contenesse.       C’era la presenza del grande giardino-parco che nella zona aveva solo la villa dei conti Roncalli.  C’era da fantasticare su un benessere, meglio opulenza che il lavoro del dottor Bartoli, l’eleganza dei membri della famiglia lasciavano intravedere, oltre alla presenza di quell’automobile, che, posseduta da nessun altro in città, faceva pensare nella sua esclusività a cosa costosissima.    Le sere d’estate arrivava in strada il rumore grave e ovattato dei colpi delle racchette da tennis su palle che diventavano prede preziose per i ragazzi della via, appostati per il prelievo proletario quando accadeva che venissero sparate oltre il muro.  Quelle partite di tennis raccontavano un mondo irreale al limitare di una fabbrica di aerei militari distrutta dai bombardamenti e accanto a case abitate da gente modesta, intenta a tirarsi fuori dalla indigenza della guerra recente e perduta.   La casa dei Bartoli era una presenza assoluta, senza tempo.     Nessuno era in grado di dire quando fosse stata costruita.                    I vecchi scomparsi per l’età e i lutti dei bombardamenti, gli altri troppo giovani per averne memoria.       Stava lì la casa, incardinata in quel muro che sapeva di storia scomparsa e da dimenticare.                         Ma in quel mare di macerie era la presenza viva che sfidava il tempo.     Con il trascorrere degli anni la famiglia si è dispersa.  Scomparso il dottore, poi la consorte, via ad uno ad uno i figli, è rimasta la casa silenziosa, vuota, ancora e sempre impenetrabile.   Poi un giorno hanno appeso un cartello con l’insegna del Municipio, di quelli che si mettono quando si apre un cantiere.     Sono state spalancate le finestre, aperto il cancello e la porta d’ingresso, scoperchiato il tetto.    Siamo entrati, noi ragazzi di prima, diventati vecchi.   Era tutto in rovina, nulla della passata opulenza che avevamo immaginato.      Forse non c’era mai stata.        Non dovevamo entrare.              Il cantiere si stava portando via l’ultimo castello incantato della nostra fanciullezza.