1. S. Agostino a Foligno

 

 

Sulla piazza, da un lato si affaccia la chiesa di S. Agostino e dall’altro quella della Collegiata di S. Salvatore.                I bombardamenti aerei della guerra avevano colpito duramente la via, in particolare avevano distrutto la bella chiesa della Madonna del Pianto, così detta per la statua della Madonna conservata in una cappella, che in occasione del terremoto del 1703 aveva sparso lacrime sul bel viso, e essendo stata portata in processione per le vie della città l’aveva preservata da ulteriori distruzioni. Ci si andava poco nella chiesa di S. Agostino, ci si andava per la ricorrenza della Madonna del Pianto in gennaio, con grande concorso di popolo, perché lì avevano trasportato la statua dalla chiesa distrutta, rimanendo lei miracolosamente intatta. La cosa fu vista come ulteriore manifestazione della benevolenza della Vergine nei confronti della città, come non avesse voluto abbandonarla, privandola della sua protezione.  Nulla avrebbero potuto più le bombe dei nuovi barbari, e il giorno del trasporto e quelli della sua festa negli anni successivi, tutti i folignati andavano a venerarla e a pregarla in S. Agostino.                C’erano proprio tutti.  Il sindaco scortato dalle guardie municipali con il gonfalone della città, i carabinieri in alta uniforme, le altre autorità civili e militari.  C’erano i comunisti, i socialisti, i democristiani, i fascisti non pentiti, tollerati, quasi accettati.  In prossimità di un’entrata laterale, in un anfratto non propriamente cappella, una lampada votiva, illuminando fioca, rivestiva di sacralità una lapide su cui sono scolpiti i nomi delle centinaia di vittime dei bombardamenti del ‘44. Un posto appartato perché la strage dei civili l’avevano pensata e realizzata i liberatori, forse per questo, la lapide doveva rimanere seminascosta. E nonostante fosse gennaio e in quel mese a Foligno, come nella campagna intorno, le nebbie e l’umidità entravano nelle ossa e non c’era modo di riscaldarsi, in quel giorno la folla in chiesa infondeva un senso di benessere e di calore che sapeva di appartenenza.                      Per questo ci venivano tutti, anche quelli che non credevano in Dio, ci venivano, e si facevano il segno della croce e pregavano insieme ai bizzochi, e a forza di farsi il segno della croce e pregare, alla fine si commuovevano e uscendo pensavano che i preti no, per carità di Dio, ma qualcosa lassù ci doveva essere. Non lo potevano dire, ma lo pensavano, anche per via di quella Madonna che era emersa intatta dai calcinacci delle bombe, e che i folignati nei secoli passati avevano portato in giro per le strade e per le piazze della città da sola o insieme a S. Feliciano, quando ce n’era stato il bisogno. E il miracolo lo avevano fatto loro due, insieme, e a volte con il concorso di S. Elpidio. Lo avevano fatto, perché la gente era rientrata nelle case sollevata ed era morta meno disperata sotto la nuova scossa di terremoto o a causa del riaccendersi virulento del morbo. E forse quello era il miracolo, più dell’evento taumaturgico quando c’era stato e se c’era stato. Riuscire a non perdere la speranza anche davanti all’angoscia che attanaglia la gola o alla morte che sopraggiunge minacciosa. Quel sentire la speranza che si posa come un balsamo sulle ferite. Forse solo questo è dato agli uomini per non precipitare nella follia, continuare a sperare, a credere in qualcuno che legittima la speranza, e viverlo in comunione con gli altri per fuggire la solitudine disperante. Fede, speranza e carità insegnavano al catechismo da bambini, formula che proviamo a ripetere quando tutto sembra perduto e non sappiamo quali altre consolazioni la ragione può fornire. Non più bambini, scopriamo il senso, il significato dell’antica preghiera.