MARCELLO PACI, Schegge, Ariccia (Rm), Ermes Narrativa, 2016, 182, € 15,00.

 

Marcello Paci, nato a Foligno nel 1947, chirurgo, saggista, autore del libro autobiografico Tre giorni di ospedale come ad Alcatraz, con questo nuovo testo espande l’orizzonte della sua scrittura, offrendo, insieme a un intreccio di temi – quali descrizioni di scorci urbani, divagazioni sociali e politiche, dissertazioni mediche e digressioni storiche –, toccanti pagine della sua storia personale.

Ne deriva un esercizio della memoria che, a partire dal frammento su cui si posa lo sguardo, apre scenari e visioni, da cui l’A. trae ispirazione per un narrare senza fine, che ricrea l’atmosfera delle veglie invernali delle case di campagna. Si scopre che il passato è una dimensione anomala del tempo,  perché non è una capsula in cui la vita se ne sta ben rinchiusa: esso è sempre disponibile alla memoria e diventa presente nella fluidità dell’asse temporale.

Il titolo stesso Schegge, per la forza onomatopeica derivata, per estensione, dal frammento aguzzo di una materia, allude a squarci di visioni e al modo rapido del sopraggiungere dei pensieri, che riaprono ferite presenti nel magma dei ricordi. In effetti, queste schegge costituiscono la punta di un iceberg, dietro il quale si celano stagioni e anni, avvenimenti, luoghi e persone scomparse.

Sono racconti di vita che si dipanano a partire da semplici indicatori spaziali: la piazza, con i suoi lecci, potati in una forma contro natura; il porticato; la rocca; il borgo; le balaustre; la gradinata; i palazzi; i casolari cadenti; il cimitero; la casa. Elementi architettonici e urbanistici, a cui sono ancorati i ricordi delle fasi più significative della vita dell’A.: la giovinezza, lo studio, le vacanze, i primi amori, le amicizie, la professione, gli addii, la morte dei propri cari. Indicatori  che non descrivono una semplice topologia del territorio, ma disegnano una geografia dell’anima.

Gli ambienti descritti da Paci, pertanto, rappresentano molto di più della semplice cornice al cui interno si muovono e agiscono gli uomini: essi costituiscono il tessuto stesso della loro vita, l’espressione di un legame con la tradizione, intesa come la modalità di vivere, di sentire e di pensare l’esistenza di chi ci ha preceduto. Un tale paesaggio, che ha patito le mutazioni consumistiche della modernità, che hanno stravolto assetti organizzativi e relazionali,  è toccato dallo stesso rimpianto che si prova per chi ci ha lasciato, mentre ciò che temporaneamente si salva si esaurisce anch’esso nell’effimero dell’istante vissuto.

La visione delle cose risulta così velata dal sentimento di malinconia, i volti degli uomini avvolti dallo sguardo compassionevole dell’A. In questo senso si può qualificare l’ambiente come fortemente antropizzato, e non solo nel senso più comune del termine, ma perché il soffio degli uomini, che lungo i secoli si era spalmato sulle cose, come scrive l’A., le riscatta dalla loro inorganicità, e la materia, non più muta, risulta in un certo senso spiritualizzata da una memoria evocatrice del destino pesante di sventure di uomini e donne, di  ritmi e di tempi di una vita antica spezzati, che lasciano un bagaglio di emarginazione sulle spalle dei vecchi,  incapaci di comprendere i mutamenti.

Tuttavia, un luogo è il luogo dell’origine, se là sono le radici paterne. Grazie ai genitori,  la persona gode di un’identità individuale: l’identità di figlio, quella che, al di là degli standard, fa emergere la debolezza e il bisogno d’amore, quello stato dell’essere in cui, memori della nomade familiare che fu unica àncora di salvezza, si rimpiange la benedizione materna, che introdusse, nel sonno, come nelle braccia dell’infinito.

Infine, dai penetrali più intimi dell’anima, portati in superficie dalla scrittura, dove il corsivo sopraggiunge a sottolineare o ad anticipare passaggi narrativi più intensi – come la levità dell’ora in cui l’assenza degli amici scomparsi colma i tempi del silenzio e della solitudine, o  l’ora della domanda, ad esempio, su dove vadano a morire i gatti randagi, il cui soffio vitale che sa di anima si perderà in qualche angolo del firmamento – scaturisce una parola che nella frammentarietà della sintesi poetica scandisce il ritmo della confessione degli errori, delle colpe segrete; e dal profondo, insieme alla speranza di uno scampolo di vita diverso, nasce il desiderio di poter scorgere il volto di Dio nel nulla terrifico di un’eventuale perdita della propria coscienza.

Sono queste pagine  che – per l’empatia con  la sorte di quei volti di cuoio cotti dalla fatica e dagli anni; per l’attaccamento alle origini; per l’intensità degli affetti; per l’esperienza della ricerca di un altrove, che approda alla speranza di una risurrezione; per il senso struggente della perdita e della morte, radicato nella precoce dipartita paterna e nella scomparsa di un mondo che fu familiare; per lo scatto di dignità che reclama una catarsi sociale dallo squallore di una cultura nichilista – oltrepassano i confini di una letteratura circoscritta alla storia locale, sebbene se ne alimentino e risultino connotate fortemente dalle relazioni che intercorrono tra luogo e persona, e che vanno a definire l’identità corale e individuale dell’A., il quale rivela una suggestiva vena narrativa, animata da una grande umanità.

Gianna Forlizzi